Inchiniamoci al Real Madrid.
Ci sarà pure un motivo per cui si chiama Coppa dei Campioni. Il motivo è che questa è la Coppa di Courtois, di Casemiro, di Vinicius; di Benzema, Modric, Kroos, Carvajal. Questa è la coppa del Real Madrid e di Carlo Ancelotti, l’unico allenatore ad averla vinta per quattro volte. Si tratta di una gerarchia naturale, è una questione di storia e tradizione. È difficile parlarne in altri termini d’altronde, tanto della partita di ieri sera quanto – e ancor di più – del cammino del Real Madrid, che nelle fasi finali ha eliminato i campioni d’Europa del Chelsea e le tre squadre più forti del mondo: Manchester City, Liverpool, PSG. Come detto al fischio finale da Davide Ancelotti, degno figlio di suo padre:
«Ma che devo dire di questi giocatori? Hanno vinto 5 Champions, che devo dire non ci sono parole… noi sì gli abbiamo dato indicazioni tattiche, fatto vedere come gioca l’avversario ma poi in campo ci vanno loro… Questi sanno come si fa».
Kroos, Modric e Casemiro (quest’ultimo illegale ieri sera), che come dichiarato da Dani Ceballos «stavano giocando a carte prima della finale. Io non sono riuscito neanche a dormire». Ma di cosa vogliamo parlare esattamente? Questi sanno come si fa, altro che l’ossessione maniaco compulsiva di chi crede di spiegare le partite – e ancora peggio le finali – con i numeri. Ieri sera abbiamo assistito all’ennesimo capitolo della mistica della concretezza madrilena, un ossimoro possibile solo da quelle parti: ¡Así gana el Madrid!, sì ma come? Non dobbiamo chiedercelo. Perché vogliamo sempre spiegare tutto? Perché non accettiamo il mistero, la gerarchia, l’intangibile? Maniaci del controllo, ossessivi compulsivi che non siamo altro!
«Vinicius segna, Courtois para. Fine della gita», ha scherzato Carlo Ancelotti al termine della partita.
Non vi va bene? Peggio per voi, e anzi fateci sapere se dallo studio delle heat maps o degli expected goals matura qualche spiegazione alla cavalcata del Real Madrid di quest’anno. Finisce che la si butta come quell’analfabeta calcistico di Cassano sul “culo”, che prima o dopo finisce. Più dopo però che prima: dopo 4 Champions vinte da allenatore, dopo la Liga portata a casa, dopo il trionfo nei campionati dei cinque maggiori Paesi europei. Dopo. Dopo le premiazioni insomma. Perché per dirla con il tweet ufficiale del Real Madrid, semplicemente: «Las finales no se juegan, se ganan». È la banalità del Real, un affronto ai teorici della complessità. Una vittoria di uomini, i migliori, che non hanno bisogno di essere telecomandati dall’allenatore come vorrebbe Nagelsmann, o di sensori cerebrali e neuroscienzati come quelli del Liverpool.
Anche perché ieri sera è andata in scena una partita strana, che ha lasciato impressioni contrastanti. Da un lato la vittoria blanca è stata innanzitutto quella del suo portiere, il più forte al mondo: autore di autentici miracoli su Mané e Salah, sicuro e dominante fino al limite della sfrontantezza; un personaggio a metà tra un cartone di Holly e Benji e un film western, di quelli si esaltano nei duelli e guardano dritti in faccia gli avversari con aria di sfida, facendo intendere loro che non passeranno mai e poi mai. E ancora, sempre da questo lato, è stata una finale che si è chiusa con 23 tiri a 3 in favore del Liverpool, 9 a 1 nello specchio della porta. Una vittoria di corto muso in teoria, ma priva di quella sensazione di lotta, di sofferenza, di resistenza ad oltranza e di difesa del proprio fortino.
La versione del corto muso spagnola, anzi madridista, a cui ormai ci siamo abituati: quella in cui gli altri giocano meglio e creano di più ma i bianchi vincono, semplicemente vincono. Immancabilmente, inesorabilmente, quasi per elezione divina. Contro tutto e tutti, anche contro i bookmakers, che davano un possibile trionfo del Real a 2,50, due volte e mezzo la posta, a fronte dell’1.40 del Liverpool: algoritmi anch’essi, destinati ad essere spazzati via dalla forza della mistica. La partita scivola via e il Madrid vince, mentre gli altri non si rendono neanche conto di cosa e quando sia successo, del come e del perché. Confusi perché loro sì, sono i primi a non riuscire a darsi una spiegazione.
E qui arriviamo all’altro lato della partita, ad un Real che ha interpretato la gara nel modo perfetto per le proprie caratteristiche.
Che ha rifiutato lo scontro a campo aperto e ad alta intensità con il Liverpool – ne sarebbe uscito con le ossa rotte – sfruttando il lato oscuro di una finale. Quello per cui, di esperienza e di mestiere, si possono abbassare i ritmi della partita: non giocando un calcio “esteticamente straordinario” e preferendo spesso “i lanci lunghi all’uscita da dietro palla al piede”, come confessato dal suo allenatore, ma soprattutto alternando i tempi di gioco. Lo stesso Arrigo Sacchi ha dovuto ammettere che è stata una vittoria del “calcio all’italiana”, ma paradossalmente non siamo d’accordo. Questa vittoria è certo stata “italiana” per Carlo, che di italianissimo esercita le virtù dell’ingegno, dell’eclettismo, dell’adattamento, patrimonio inestimabile della nostra tradizione calcistica nazionale.
Ma poi il Real ha vinto “alla Real”: pifferai che ti ubriacano, ti avvolgono, ti addormentano, quelli in bianco. E che poi vincono perché non possono fare altro, perché fanno un altro sport, perché è scritto nelle stelle e nel loro DNA. Perché sanno come si fa. Il Madrid ha così tolto ritmo al Liverpool, lo ha stordito per larghi tratti della partita e ne ha disinnescato i punti di forza, fino quasi ad azzerare il gap tra le due squadre. Lo ha avvolto nella sua ragnatela, e poi colpito nel momento decisivo.
Lo aveva fatto non a caso allo scoccare del 45′ del primo tempo, con un gol cancellato a Benzema su cui restano tanti, ma tanti dubbi – questa volta almeno non ci si potrà appellare agli arbitri. Ed ha replicato, chirurgicamente, al quarto d’ora della ripresa con Vinicius. Gerarchie tecniche sostituite da quelle naturali. Il tutto senza mai concedere la profondità agli avversari, primo e principale comandamento tattico che Ancelotti ha impartito ai suoi. Già, Ancelotti, il più grande allenatore del mondo. Abbiamo finito le parole, noi per lui. E allora usiamo quelle di Casemiro, “il calcio si merita una persona così”, e rilanciamo: è il mondo che si merita un uomo come Carlo. Di più non ce la sentiamo di dire, dovremmo mettere gli occhi lucidi sullo schermo per spiegare quanto un uomo come Carletto riesca ancora a commuoverci.
E per finire una confessione.
Da giovani si è tutti incendiari, rivoluzionari, idealisti; e la verità è che nel calcio nasciamo un po’ tutti barcelonisti, guardiolisti, kloppiani. Nasciamo e cresciamo tutti, tendenzialmente, antimadridisti. Ma un po’ come per quella citazione attribuita dubbiamente a Churchill, per cui «chi non è socialista a vent’anni è senza cuore, chi lo è a quaranta è senza cervello» (concetto su cui ci riserviamo ancora di avere qualche riserva), nel pallone vale un po’ la stessa cosa: chi non è antimadridista da giovane è senza cuore, chi continua ad esserlo da adulto è senz’anima. Gente che non capisce la forza della tradizione e non ha ancora fatto i conti con il padre, un momento inevitabile per tutti noi. La squadra del re, tutta bianca, con quella corona nello stemma. Ma di cosa vogliamo parlare. Eletta per storia, per natura, per volontà divina. Di Eupalla, si intende.