Il tifo per i rosanero, il Palermo Calcio Popolare e l'amore per il meraviglioso gioco.
I ragazzi del Palermo Calcio Popolare ti accolgono sul pontile che si affaccia sulla Cala, il golfo della città. Alla sinistra Monte Pellegrino che si accende dei colori del tramonto, a destra il litorale fino a Torre Mongerbino, di fronte l’immenso blu da cui è arrivato, tra spezie e tessuti, anche il football; attorno occhi che brillano di passione ed orgoglio. Lo scenario è da sindrome di Stendhal, il benvenuto della compagnia non è da meno. Si ha l’impressione di essere ricevuti da un gruppo di amici da sempre, compagni da una vita, mariti, mogli e fidanzate, e persino figli: sono i soci fondatori dei verdi-rosa-nero, una dozzina i presenti, poco meno di venti sullo statuto datato 29 febbraio 2016. Nella data di fondazione, l’unicità di un progetto che si regge su una famiglia allargata, un clan unito da un modo di intendere lo sport, quindi la vita. Se il lettore, come chi scrive, è rimasto sorpreso dal luogo dell’incontro, può già distendere il sopracciglio inarcato.
Nessuna ostentazione, etica ed estetica come guida per le scelte del direttivo; sullo stesso pontile, messo a disposizione da uno dei soci fondatori, viene presentata la squadra ogni stagione; qualche decina di metri più in là, nei campetti del Parco delle salute, sotto Porta Felice, si allena la scuola calcio.
Allenamenti aperti a tutti, una quota di 10 euro al mese per i ragazzini di famiglie con ISEE inferiore ai 6000 euro; inclusività è la terza parola d’ordine. Lo stesso valore che porta a collaborare con le associazioni di quartiere, Zen e Brancaccio ad esempio, per essere davvero protagonisti nel tessuto cittadino; radici che affondano in valori come l’antirazzismo, il rispetto delle differenze e la valorizzazione dell’eterogeneità. Caratteri che fanno parte dell’essere palermitani, senza il bisogno che siano istituzionalizzati da bandiere o colori al di là di quelli verde-rosa-nero; tre cromosomi che contengono quelli del Palermo Calcio, ma si distinguono da essi. Un colore in più per un altro concetto di calcio e sport; il Palermo rimane unico ed il tifo per lui è incrollabile e vivo nei ragazzi.
Il simbolo del Palermo Calcio Popolare è un omaggio al logo della Pouchain, adottato dai rosanero dal 1979 al 1987, decennio dell’innamoramento di molti fondatori; all’aquila stilizzata però, si sostituisce il Genio della città, esattamente quello della statua di Piazza della Rivoluzione. Nomen omen degli intenti della squadra che scende in campo ai Cantieri Navali, campo di terra battuta dove la salsedine si mischia nei polmoni alla polvere. Nel battesimo dei colori sociali e dell’emblema, l’ispirazione ed una dichiarazione di appartenenza al territorio, insieme ad una rivendicazione di diversità.
Uno stemma privo di riferimenti calcistici espliciti, forse un unicum nel panorama del calcio popolare italiano, che evoca più un ideale che un gioco; già, perchè è proprio un’idea che devono sposare i giocatori della prima squadra, che devono “accontentarsi” del sostegno alla domenica, senza percepire alcun rimborso spese. Una politica societaria che si può dire abbia pagato: ai provini d’esordio nel 2016 si sono presentati in settanta, così tanti che per i soci era rimasto in rosa uno spazio soprattutto rappresentativo.
Il video dell’amichevole tra PCP e Palermo
Oggi la fortuna della squadra che milita in Prima Categoria è la coesione del gruppo, cementata nel corso delle stagioni. Un collettivo che ha avuto l’onore di affrontare nell’ottobre 2019 proprio il Palermo, appena rifondato e ripartito dalla serie D; Il Genio per il calcio popolare – L’Aquila per tornare a volare, sullo striscione mostrato dai giocatori prima del fischio di inizio, per ribadire un’alleanza corroborata anche dalla presenza del presidente Mirri tra i soci del PCP. Per i primi, la promessa di imporsi ed imporre una filosofia sportiva inedita e tradizionale insieme, che si rifà agli ideali dei fondatori del Beautiful Game in epoca vittoriana; per i secondi, un augurio per la gloria di un bene collettivo dalla storia ultrasecolare.
Perchè, come testimoniano la sue vicende, il Palermo è davvero un patrimonio cittadino, incarnazione dell’inesauribile passione dei Palermitani per il calcio.
Da Palermo Centrale, l’autobus 101 risale tagliando a metà il centro e ti lascia di fronte alla tribuna della Favorita, tempio del calcio rosanero dal 1932. Nel ventre del Renzo Barbera oggi è ospitato il Museo, una delle iniziative più felici del nuovo corso post fallimento; qui gli onori di casa spettano a Gabriele Lentini e Giovanni Tarantino, coordinatore scientifico e principale promotore del progetto. Un percorso della memoria ispirato agli esempi inglesi e nostrani di Genoa e Torino, costruiti grazie alle donazioni dei tifosi, ma unico ad essere ospitato all’interno dello stadio. Un luogo dello spirito dove si celebra l’unione inscindibile tra la squadra e la sua comunità cittadina.
Un vincolo celebrato nel segno dell’aquila comunale, eredità sveva, e nelle tinte rosanero, simboli che fanno l’orgoglio di una tifoseria che ha dovuto asciugare lacrime più amare che dolci, festeggiando più resurrezioni che trofei. Caparbie ripartenze che, in centoventi anni, hanno testimoniato il bisogno della città di riconoscersi in un’unica squadra, culto popolare che si affianca al sacro sentimento perSanta Rosalia, il cui santuario è su Monte Pellegrino. Sul profilo del promontorio che sta dirimpetto la tribuna, si staglia l’architettura neogotica del Castello Utveggio, dalle cui finestre, si vocifera, il giudice Borsellino temeva essere spiato dai servizi segreti; da lassù chissà quante volte l’occhio sarà caduto sul rettangolo verde, da cui via D’Amelio dista circa una ventina di minuti.
Il Castello Utveggio, che sormonta Monte Pellegrino, svetta sul catino del Renzo Barbera. (foto Alberto Fabbri)
Proprio come avviene quasi in contemporanea a 427 miglia nautiche più a nord, sulle banchine del porto di Genova, a pochi passi da dove oggi si trova il domicilio del Palermo Calcio Popolare, sbarca il football tra tessuti, spezie e prodotti dall’impero della Regina Vittoria. Costituito il primo novembre 1900, l’Anglo-Palermitan Athletic and Football Club è il progenitore che rivela la genia britannica nel nome e nei colori; gli esordi sul campo Notarbartolo, U’ Pantanu, sono in camicia biancorossa e poi rossoblù, omaggi alla Croce di San Giorgio ed alla Union Jack. L’amato rosanero è adottato dal 1907 insieme alla nuova denominazione di Palermo Foot-Ball Club; alle radici della scelta, la volontà di vestire i colori del dolce e dell’amaro, dando risalto anche alla coppia di liquori prodotti da Vincenzo Florio, tra i più illustri tifosi del club.
Questi sono gli anni di George Blake, primo allenatore-capitano del Palermo, nonché già tra i fondatori del Genoa; originario di Portsmouth, nel cognome il destino di solcare i mari per la gloria della corona inglese. A lui si affiancano il cavaliere Joseph Whittaker, fondatore e primo patrono del club, oltre ad essere il proprietario dei terreni su cui sorge il campo degli esordi. In questo periodo è centrale anche la figura del giovaneIgnazio Majo Pagano che, di ritorno dagli studi in Inghilterra, sulla banchina della Cala sbarca una borsa contenente manuali, un pallone di cuoio, la divisa rossoblù del college e quella da referee.
Le prime gioie il Palermo le raccoglie nella Whittaker Challenge Cup, il primo torneo organizzato per squadre meridionali, che oppone rosanero e Messina nel primo decennio del ‘900.
Quando nel 1907 lo yacht di Sir Thomas Lipton getta l’ancora nel golfo di Palermo, l’equipaggio non perde tempo ad organizzare una sfida con i locali; da lì il magnate del thè decide di istituire una coppa che metta di fronte squadre siciliane e campane: la Lipton Challenge Cup, torneo pionieristico quando la FIGC ancora non contemplava il Sud Italia. Il Palermo non sopravvive alla Guerra ’15-18 e soltanto grazie al Racing, compagine cittadina biancoblù, si festeggia la prima di numerose ripartenze.
Nel ’27/28, nel ’40/41, nel ’86/87 e nel 2018/19 i Palermitani piangeranno la scomparsa e poi celebreranno il ritorno, come se il rosa ed il nero rimandassero al perpetuo alternarsi tra nascita e morte. Periodo di relativa tranquillità saranno gli anni Settanta, quelli del presidente Renzo Barbera: il più amato dei patron condurrà due volte la squadra alla finale di Coppa Italia, nonostante la serie B, ma soprattutto entrerà nel cuore dei tifosi come nessun’altro; una sintesi di eleganza e generosità, aristocrazia d’animo e passione, che si ricongiunge ai capostipiti dei primi del ‘900.
L’esterno della tribuna della Stadio La Favorita, oggi intitolato al Presidente Renzo Barbera. (foto Alberto Fabbri)
Dalla gallerie delle maglie si passa a tessere e gagliardetti, giornalini, fino ad adesivi e sciarpe dei Commandos Aquile e dei Warriors; i cimeli degli anni Ottanta accendono ricordi e fantasie delle ultime generazioni di tifosi: il calcio italiano vive la sua età dorata, i rosanero lottano tra C2, C1 e cadetteria, ma segnano l’immaginario cittadino. L’apice della sua storia il Palermo lo raggiunge con il terzo millennio, quando nel 2004 ritorna in A dopo 32 anni. Il primato con Guidolin, i piazzamenti per l’Europa, i gol di Toni e Miccoli, le magie di Pastore, i quattro rosanero campioni del mondo, i protagonisti del quindicennio di Zamparini sono celebrati dai ritratti della Hall of Fame. Quindici anni da sogno, pagati poi a caro prezzo con il fallimento e la ripartenza della D; di nuovo rosa e nero che si inseguono.
Nell’ombra della tribuna, con lo sguardo rivolto al campo seccato dal sole siciliano, Yuri e suo padre Federico, venti e circa cinquanta anni, hanno la pazienza di spiegare cosa significhi tifare Palermo, al forestiero; il primo sfoggia la maglietta regalata agli abbonati in D, il secondo si è convertito dal bianconero. Oggi il rosanero è il colore della città che si vuole costruire un futuro dopo le stragi mafiose, di una comunità orgogliosa del suo passato e che non si accontenta di contare i tramonti dietro a Monte Pellegrino, del senso di appartenenza e dell’orgoglio dei giovani palermitani. La risalita dalla C sarà difficile, ma la squadra potrà contare sulla sua gente, sempre.
Per concludere storie e istantanee dalla città: al tramonto, nell’ombra ai piedi delle cupole purpuree della Martorana e di San Cataldo, trionfi della sintesi arabo-normanna nell’edilizia religiosa, una famiglia del Bangladesh gioca a calcio, il padre tra i pali immaginari i, i figli all’attacco. Nel 1980 la bambina col pallone di Letizia Battaglia celebrava la tradizione del calcio di strada, oggi eterno ritorno per un’integrazione al di là degli slogan preconfezionati. Dalle parti del Castello della Zisa, una mezz’ora a piedi lungo via Vittorio Emanuele, e tagliando poi di fianco alla Cattedrale, U’ Bologna è un’istituzione che porta nel soprannome i voti della fede calcistica. Classe 1942, all’anagrafe Michele Consiglio, dalla fine degli anni Cinquanta ha legato i suoi umori alle vicende sportive bolognesi, da quando il numero 5 rosanero, Giovanni Mialich, suo beniamino si è trasferito sotto le Due Torri. Impossibile spiegare le ragioni del cuore del tifoso.
Dal suo telefono pre-digitale manda saluti a Marocchi e Zauli, e ogni anno a Casteldebole aspettano i suoi cannoli. Al pellegrino in visita non rimane che offrirsi di recapitare a Bologna un vassoio, per cercare di sdebitarsi di un’accoglienza che rimane ineguagliabile. Una volta l’Italia ospita la Svezia a Palermo, allora si presenta al ritiro degli scandinavi per salutare Kennet Andersson: “Ciao Michele!” fa il centravanti, prima di abbracciarlo; “Minchia, cue è chistu?!” si interrogano i giornalisti presenti sull’identità del Nostro.
La vetrina del negozio/Club Forza Bologna di Michele Consiglio, U’ Bologna. (foto Alberto Fabbri)
Oggi la sua bottega di ricambi idraulici, o meglio Club Forza Bologna, custodisce ricordi e cimeli, ma non soltanto rossoblù. Infatti, tra sciarpe e maglie, spiccano le foto dei giocatori in posa in maglia azzurra, la divisa dell’Idraulica Lascaris, squadra fondata e presieduta da Michele. A giudicare dai trofei esposti nella bacheca, una delle compagini più vincenti tra le partecipanti ai tornei estivi cittadini negli anni Settanta e Ottanta; stagioni in cui il pallone non conosceva tregua e ragazzi dalla C e D si mescolavano a giocatori delle serie minori, per arrotondare gli ingaggi e vivere notti di gloria.
La sera di Italia-Belgio il mercato della Vucciria è l’inferno dantesco, una curva di peccatori di gola e passione.
I turisti hanno visi da normanni, gli indigeni mostrano profili siculi, aragonesi, saraceni ed intonano il Canto degli Italiani con pudore tipicamente siciliano. Barella è il pupo spadaccino invincibile, che sgomina la retroguardia dei Diavoli e trafigge Courtois, vile marrano nasone. Nemmeno sessanta secondi prima, un signore ha lanciato il piùpotente degli anatemi verso uno degli schermi: indici ed anulari sollevati ad evocare il favore della dea Fortuna, che intanto dalla sua cornucopia riversa sulla piazza l’abbondanza della tradizione culinaria locale. Si frigge, si suda, si mastica e si soffre.
Insigne è il più dispettoso dei candidi putti dell’oratorio di San Lorenzo, massima esibizione della tecnica scultorea del Serpotta; quando tira dal limite i presenti sanno già dove finirà la palla, la sfera nel sette è puro barocco. La chioma fluente evoca la somiglianza, i natali suffragano la fantasia: il fondatore del Dolce Stil Novo calcistico non può che suscitare le simpatie dei Palermitani, accomunato allo Stupor Mundi dai natali jesini. Se quest’ultimo aveva reso Palermo capitale delle arti e della cultura, nemmeno dieci giorni dopo, il primo riporterà in Italia la corona del calcio europeo.