Una crisi di identità sportiva dalla quale sarà difficile uscire.
Non c’è attualmente un tennista migliore di Daniil Medvedev. Davvero, è imbattibile, ma in conferenza stampa. Non è becera ironia, né minimizzazione di un atleta che rimane il n.6 del mondo e, salvo una breve parentesi nel febbraio 2023, alberga in top 10 con costanza dall’estate del 2019 (242 settimane in top 5, tra i giocatori in attività solo Djokovic ne ha di più). Per un triennio è stato il dominatore del cemento, indoor e outdoor. Tuttavia, oggi rimane il re solo nelle dichiarazioni. È infatti l’unico a saper essere ironico, pungente, mai banale, e a rispondere in maniera approfondita e contestuale anche alle domande più spigolose poste dai giornalisti. Rimane celebre l’analisi del match vinto contro De Minaur alle ATP Finals 2024:
«Quando le cose non vanno per il verso giusto, a volte mi sento frustrato. Questo match è stato praticamente un “me ne frego”. Per me va bene, ho vinto. Ma se avessi perso con lo stesso punteggio, non avreste visto un’emozione sul mio volto. Sarei qui a parlare di qualsiasi cosa e giovedì sarei tornato a casa».
Ce ne sarebbero migliaia ancora, tanto che qui avevamo maturato una certezza: con Medvedev non ci si annoia mai. Peccato che, ad oggi, venga in mente poco altro parlando del russo se non l’extra-campo. Giusto chiedersi innanzitutto quando sia iniziato il suo declino. Ricondurre tutto alla finale persa all’Australian Open 2022 contro Nadal sarebbe semplicistico e in parte erroneo: il russo ha giocato altre due finali Slam, raggiunto due semifinali a Wimbledon e vinto due Masters 1000 dopo quella cocente sconfitta. Ha saputo, anche se con difficoltà, andare avanti, e chiudere sia il 2023 che il 2024 tra i primi 5 giocatori del mondo.
Anche scaricare le colpe sulla finale persa contro Sinner, sempre in Australia, un anno fa, sarebbe fuorviante. Il vero punto di non ritorno nella carriera di Daniil Medvedev, che ha spostato gli equilibri soprattutto dal punto di vista mentale, c’è stato tra il 17 e il 29 marzo 2024: un momento preciso tra la finale persa ad Indian Wells contro Alcaraz e la semifinale persa a Miami contro Sinner.
Sconfitte accettabili, ci mancherebbe, e comunque risultati di primo livello, ma c’è un asterisco: in entrambi gli incontri l’orso (медведь, che si legge medved’, orso in russo) non ha mai dato neanche la lontana impressione di poter vincere. È stato in balia delle fiammate dello spagnolo e dei suoi vezzi in California, imprigionato dall’ordine e la potenza dell’azzurro in Florida. E la sua intelligenza, tennistica e non solo, apre le porte anche al secondo interrogativo: da dove nasce questa clamorosa involuzione?
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“La nascita della seconda figlia, la mancanza di preparazione in off-season”, dirà qualche voce dal coro. Troppo poco, ma soprattutto sostenere ciò comporta una grave negligenza: la crisi di Daniil non è iniziata nel 2025, si è solo acuita. I risultati latitano dalla scorsa primavera (con due sole semifinali, a Wimbledon e Pechino, prima di finire la stagione) e la spiegazione sta tutta nei 12 giorni che sono intercorsi tra gli ultimi due tornei in cui realmente si è avuto un Medvedev competitivo.
La risposta oscilla tra colpe sue e meriti altrui: lui, da persona intelligente e giudiziosa, che analizza il contesto prima di fare qualsiasi mossa, lo sa benissimo. Peggio, ne ha preso consapevolezza: Sinner e Alcaraz sono più forti e il suo gioco ormai non gli fa più male. Al di là dei vuoti discorsi sulla forza psicologica di uno e sul talento dell’altro, sulla costanza altoatesina e l’insolenza murciana, la verità è davvero semplice: ormai hanno anestetizzato pienamente quello che un tempo era il tennis più ostico del circuito.
Il muro che una volta si alzava dalla linea di fondo della metà campo di Medvedev non è più una caterva di spigoli e speroni, è una liscia parete sulla quale appoggiarsi per prendere il controllo degli scambi e vincere i punti.
Quel gioco (unico) che tanto aveva issato in alto colui che è anche stato n.1 al mondo, come troppo spesso viene dimenticato, è ormai di facile lettura e ancor più facile contromisura. Finché le sconfitte arrivano contro Sinner e Alcaraz, al massimo con Zverev e Fritz, si può pure pensare che non tutto sia perduto, che ci sia margine. Ma quando le eliminazioni arrivano contro Tien, Bellucci e Medjedovic, in maniera eclatante per di più, vuol dire che qualcosa si è guastato. Qualcosa che sarà davvero difficile riparare.
Perché l’intelligenza è un dono ma anche un peso. I troppi pensieri spesso ci divorano e, vedendo giocare Medvedev, osservandone anche reazioni più di frustrazione e scoramento che di vera rabbia, ben si comprende dove la gabbia mentale lo abbia condotto e lo stia conducendo. Questi primi due mesi di 2025 non sono una sentenza definitiva sulla carriera ad alti livelli del moscovita, sarebbe prematuro affermarlo; e le possibilità del russo di vincere ancora dei 1000, di rimanere in top 5, non sono del tutto evaporate.
Ma può bastare, per uno come lui, accontentarsi delle briciole dei grassi pranzi Slam a cui gli altri partecipano senza invitarlo? Vivere ai margini dei migliori, per lui che è stato il migliore, può ancora essere uno stimolo? La risposta è no. Giocherà ancora, perché in fondo il tennis e tutto ciò che ne consegue gli piace molto, lo ha spesso detto e anche dimostrato. E recentemente ha chiarito, come al solito senza filtri:
«Mi piace il tennis, guadagno ancora molti soldi, quindi continuerò a giocare finché potrò».
In apparenza, un ragionamento che non fa una piega. Eppure, alla lunga, rendersi conto di essere ormai a un punto in cui vincere Major e battere i più forti è divenuto solo un dolce ricordo, potrebbe diventare un freno. Anche perché il problema delle persone intelligenti è che sono sempre piene di dubbi, e non riescono a costruirsi quelle incrollabili certezze che li spingono avanti e più avanti ancora, pure contro l’evidenza. Dubbi che, come in questo caso, non sempre si ha la forza o la capacità di risolvere.
Grafica di copertina © Gianluca Palamidessi x Rivista Contrasti