Graziano Berti
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Graziano Berti
09 Settembre 2020
Concetto Lo Bello: arbitro, magistrato e sacerdote
Personalità istrionica e precursore, in tutti i sensi.
Parigi, 20 marzo 1892.
La lontana melanconia di una fisarmonica richiama alla mente il consunto pavè dei boulevard, liso dall’incessante passaggio dei landau e delle prime Benz Velo: par quasi di vedere i pallidi lumi dei lampioni a gas e, nella penombra, il tavolino di un bistrò. È una Parigi fervida, vibrante, ma allo stesso tempo figlia di una borghesia sonnacchiosa e nostalgica di una nobiltà perduta; è la Parigi delle grandi contraddizioni: da un lato rimpiange la grandeur del passato napoleonico ma, dall’altro, respinge con forza il perbenismo vittoriano. La nostra storia è, tuttavia, ben lungi dallo svolgersi nei salotti letterari, ben lontana dal neoclassicismo che, nel suo ultimo afflato, ancora tenta disperatamente di aprirsi la strada in un mondo che non più gli appartiene. La nostra storia è puro impressionismo.
Allontaniamoci dal tepore dei caffè, dai vezzi di le Marais e dalle note sferzanti e scandalose del Mouline Rouge per piombare con forza, quasi pindaricamente, sul Plan de la Bagatelle. È curioso, forse una coincidenza, che la Bagatelle, già residenza del fratello del re di Francia Luigi XIV, appassionato di giochi e scommesse, sia teatro di un qualcosa che troverà in Francia terreno fertile come da nessun’altra parte nell’Europa continentale. In quel 20 marzo di 125 anni fa, una persona d’eccezione si ergeva ad arbitro di quella che sarà la prima – nonché unica – partita dell’edizione inaugurale del campionato francese di Rugby a XV: Pierre de Coubertin. È sintomatico che proprio il futuro fondatore dei moderni giochi olimpici abbia diretto l’incontro tra il Racing Club de France (oggi Racing 92 dopo la fusione, nel 2001, con la polisportiva U.S. Métro) e lo Stade Français Paris Rugby (vinto dai primi per 4 – 3 su mete di Pallissaux e Reichel con trasformazione di Gaspar de Candamo), consegnando così al Racing il primo Bouclier de Brennus, ancora oggi assegnato alla squadra vincente del Top 14, massima divisione del campionato francese e dando al Rugby la definitiva consacrazione a sport nazionale.
Tuttavia nel Barone de Coubertin non va visto solo l’arbitro della prima finale della storia del Rugby francese, ma anche e soprattutto il suo padre fondatore. Il legame tra il Rugby, sport d’indiscussa origine d’oltremanica, e il barone de Coubertin, affonda le proprie radici, secondo lo storico della disciplina Tony Collins, nella condivisione di quei valori che promanano dalla filosofia britannica della Muscular Christianity: sentimento patriottico, disciplina, lavoro di squadra e conseguente sacrificio per i suoi membri. Una condivisione di valori, quindi, che De Coubertin fa propri all’indomani della sconfitta nella guerra franco prussiana del 1870, e la cui diffusione nel resto della Francia fu dettata da un inarrestabile sentimento di orgoglio e di ricostruzione dell’identità nazionale. Ma il radicamento della palla ovale nella cultura sportiva francese, così come la più grande delle imprese, non fu certo opera di un sol uomo.
Diventa ora necessario fare un passo indietro. Mentre la partita fra il Racing Club de France e lo Stade Français Paris Rugby rappresentò la primordiale chiave di volta dell’espansione oltralpe del Rugby, il coup d’envoi (o Rug Off come viene chiamato in alcune regioni dell’Inghilterra settentrionale) avvenne lontano dalla Ville Lumière, precisamente in una città dell’alta Normandia. Similmente a quanto accadde a Genova con il Genoa Cricket and Football Club, nel 1872, degli ex allievi di Cambridge e Oxford fondarono a Le Havre la prima società di jeu à treize (nome francese per indicare il Rugby). Dando un rapido sguardo alle date di fondazione dei primi Rugby Club risulta immediato come questi sorgano proprio in quelle città dove, all’epoca, i commercianti inglesi avevano i loro principali interessi economici, in particolare in Occitania, la Francia del sud, a discapito di regioni agricole come la Bretagna.
Rimane ora da chiedersi: perché il rugby e non il football? Le ragioni di questa disparità sono di carattere squisitamente sociale e politico. Bisogna ricordare come il contesto sia quello della Francia della Terza Repubblica, luogo di aspri contrasti che si riflettono anche a livello sportivo. È la Francia dei dissidi tra Chiesa Cattolica, fautrice della diffusione del football, e le popolazioni Catare e degli Albigesi che trovarono il proprio riscatto sociale nella palla ovale, grazie soprattutto all’opera e alle idee di un medico, Philippe Tissiè; grande sportivo, nonché fervente anti clericale, seppe coniugare efficacemente i propri ideali con quelli – per certi aspetti antitetici – della Muscular Christianity cui aderiva lo stesso de Coubertin: “per la patria attraverso le case, la scuola e le caserme”; e proprio nelle scuole e nelle caserme il Rugby ebbe maggior fortuna: i soldati, così come gli insegnanti, sulla scorta delle idee pedagogiche di de Coubertin, erano convinti della funzione educativa e paideutica di questo sport. Uno sport che riflette la perenne contrapposizione tra la Francia rurale e una Parigi ancora ancorata al suo passato, nonché il desiderio di rivalsa e di riscatto delle periferie dal centralismo parigino. Un dualismo imperante, una continua tesi e antitesi fra Sud e Parigi, fra Cattolici ed Eretici: fra football e jeu à treize.
Un ossimoro di popoli che ancora oggi l’occhio del viandante percepisce in maniera vibrante, quasi fosse un’orgogliosa dichiarazione di appartenenza a una realtà più moderna ma, allo stesso tempo, anacronisticamente affamata dalla mancanza di un’identità propria. In un’epoca in cui gli Stati Nazionali avevano ormai da tempo vinto la loro battaglia contro i localismi e gli stati regionali, il rugby risponde con un risoluto “No !” all’omogeneizzazione e all’annullamento dell’identità dei popoli. Un ultimo sussulto di fierezza che vede il proprio corrispettivo italiano in terra veneta, anche questa da sempre luogo di contrasti che pure affondano le proprie radici nell’orgoglio di un popolo che rifiuta l’omologazione ad ogni costo. Un’alternativa al “centralismo cattolico calcistico”, che ebbe il suo definitivo riconoscimento nell’olimpo del rugby con l’ammissione alla partecipazione all’allora torneo delle Cinque Nazioni nel 1910, nonostante l’opposizione della Scozia.
Quella del rugby francese è una storia di svincolo, di emancipazione, di ricerca di una dimensione. Un desiderio di riscatto che porterà la Francia a vincere il primo Grande Slam della sua storia rugbistica: Siamo ad Arms Park, Cardiff, ed è il 23 marzo 1968. Forse senza sapere il risultato di quella partita, anni più tardi Ian Kirkpatrick, terza linea degli All Blacks dal 1967 al 1977, disse:
“Non si può battere il Galles in Galles. Al massimo si possono segnare più punti di loro.”
Ma quel giorno la Francia dei fratelli Camberabero si impose per 14 a 9 sul Galles di Barry Johns e di Gareth Edwards. Sono passati poco meno di cento anni da quando quei figli di Oxford e di Cambridge, sui campi fangosi della Normandia, senza alcuna pretesa o velleità, si divertivano a formare le prime ruck, a provare i primi grubber e i primi off load, senza immaginare ciò che avevano appena contribuito a creare. E come in ogni grande storia, anche qui il finale è scritto da persone che nel prologo appaiono insignificanti, quasi derise dai loro maestri; una derisione che, però, ne tradisce il timore. È la preoccupazione di chi sa non essere più intoccabile: è la vittoria del rugby francese sull’egemonia britannica in Europa. È il definitivo riconoscimento di un popolo.
In copertina la Nazionale Francese nel 1896, foto di Z. Chiesi, Parigi