Una disciplina e tradizione della grande Madre Russia.
Quando si parla della storia scacchistica russa è impossibile non rimanerne affascinati, tanto per la tradizione quanto per i successi. Lo storico Isaak Linder fa risalire la comparsa degli scacchi in Russia non più tardi del nono o decimo secolo, come testimoniano i sedimenti semantici che raccontano proprio questo gioco (la nostra torre, ad esempio, si trasforma nella cosiddetta ladya, la “barca” che gli antichi abitanti delle regioni russe utilizzavano per il trasporto). Gli scacchi catalizzano fin da subito subito l’attenzione delle famiglie nobili e degli zar, tanto che il poeta Turberville in viaggio in Russia nel 1500 scrive:
“The common game is chess, almost the simplest will Both give a check and eke a mate: by practice comes this skill.”
Come già visto nell’articolo Se gli scacchi diventano pop, è grazie alla Rivoluzione bolscevica che vengono resi popolari con il motto “scacchi alle masse”. Prima di questa svolta, è il poeta russo Pushkin a segnare l’epopea del gioco degli scacchi nel suo Paese, ma non solo. C’è anche Alexander Petrov, il primo Maestro Russo: non a caso è proprio lui l’inventore del sistema difensivo noto come “difesa Russa”, alternativa importante per la difesa contro la famosa apertura di pedone in E 4.
A Petrov segue Szymon Winawer, ebreo polacco inventore di una variante della francese e in grado di arrivare in un torneo più avanti di un punto rispetto al mostro sacro Steinitz. Contemporaneo di Winawer è Mikhail Chigorin, capace di imporsi anche nella storia russa almeno fino alla metà del ‘1900, e considerato uno dei maggiori promotori e studiosi del gioco degli scacchi in Russia. La Rivoluzione Russa segna un discrimine importante tra i russi rimasti in patria e quelli, per varie ragioni, emigrati. Tra questi spicca Alexander Alekhine, inventore di una difesa che porta ancora il suo nome: lui, come anche Efim Bogolyubov, fa parte degli “emigrati”.
Questi sono anni importanti, infatti nel 1925 tutta la Russia viene contagiata dalla cosiddetta “febbre scacchistica”. Il contagio, restando in metafora, parte da Alexander Ilyn-Genevsky, che inserisce lo studio degli scacchi nei programmi di studio. Cosa ancora più importante, nel ’25 Ilyn-Genevsky batte in un torneo l’americano Capablanca: è un risultato storico che sprona lo studio e la pratica degli scacchi in tutta l’Unione Sovietica. In URSS vengono previsti degli incentivi economici a sostegno di chiunque pratichi il gioco degli scacchi, a qualsiasi livello, realizzando così nella pratica lo slogan e facendo arrivare gli scacchi proprio alle masse.
La foto di rito dei partecipanti al quarto torneo dell’URSS nel 1925
Un altro nome decisivo nella storia scacchistica russa è quello di Mikhail Botvinnik. Il dominio di Botvinnik sancisce l’inizio dell’era dorata, in cui il titolo di campione mondiale di scacchi resta stabilmente a Mosca: Botvinnik perde il titolo solo contro Vasily Smyslov e contro Mikahil Tal nel 1960, recuperandolo comunque nei match di ritorno. Tal, poi, è un altro nome importante: pur restando campione un solo anno, il suo impatto sul mondo degli scacchi è ben più duraturo. Egli gioca in modo innovativo, compie sacrifici e giocate spettacolari grazie alle quali si assicura l’affetto degli scacchisti in tutto il mondo – tanto che, ancora oggi, c’è chi lo vede come un modello.
Botvinnik invece è molto più scientifico, ma nel 1963 perde il titolo contro un altro campione: si tratta di Tigran Petrosian, famoso per il suo stile difensivo, che a sua volta deve cedere il titolo al “fantasista” Boris Spassky nel 1969. Tutti sovietici, appunto. Poi accade l’impensabile, con buona pace dei teorici che vedono negli scacchi solo freddi carichi e non un’anima di fantasia vivida e feroce. Accade che nel ’72 il campione è americano, il suo nome è Fischer. Spassky nel 2004 scrive una lettera per difendere il suo amico e rivale americano e richiederne la grazia per un reato inerente l’immigrazione. La lettera inizia così e queste parole ben restituiscono lo spirito di quei tempi:
“Bobby Fischer divenne un eroe nazionale nel 1972. Mi sconfisse nel match per il campionato del mondo a Reykjavík, sbaragliando l’armata dei grandi scacchisti sovietici. Un solo uomo sconfisse un’intera armata. Poco dopo, Fischer smise di giocare.”
Tre anni dopo Anatoly Karpov rimette le cose in chiaro e vince il titolo, anche se senza giocare alcuna partita vista la scelta di Fischer di non partecipare. Karpov è il secondo elemento del “fattore K”: prima di lui Korchnoi entra nel pantheon degli scacchisti russi, disertando però dall’URSS per inseguire il suo sogno di gloria nel mondo degli scacchi. Sogno rubato prima da Karpov e poi dal terzo elemento del fattore K, Kasparov.
Gary Kasparov ha segnato la sua epoca (Ph Howard Boylan/Getty Images)
Lo scontro tra Karpov e Kasparov segna il contrasto tra il vecchio sistema e le nuove istanze portate avanti dal giovane asso. È proprio Kasparov a vincere più volte, anche se con uno scarto minimo, salendo sul podio di migliore scacchista del tempo. Egli ha uno stile di gioco lento e avvolgente, tanto da coniare il termine “Karpoviano”, che si riferisce allo strangolamento lento attuato dal pitone. Ma in questa storia c’è un’altra K, Vladimir Kramnik, campione del mondo fino all’ascesa di Anand nel 2008.
Oggi la scuola russa sforna ancora talenti in grado di contendersi il titolo mondiale, e quindi di insidiare l’attuale astro del mondo scacchistico, il norvegese Carlsen. Molto sta nel fatto che questa scuola inizia a formare i propri campioni partendo dallo studio dei finali, e non delle aperture, invertendo l’ordine di apprendimento. Cruciale inoltre l’inserimento del gioco degli scacchi nella didattica, che porta a confrontarsi con questa disciplina precocemente e abitua a una pratica che, a tutti gli effetti, fa parte della storia e della cultura di una Nazione.