O meglio è stato obbligato a farlo.
Il mondo dello sport ha reagito all’invasione della Russia in Ucraina come meglio sa fare: con la pancia. La Uefa, sprezzante del ricco contratto di sponsorizzazione che la lega a Gazprom, colosso energetico controllato dal Cremlino, ha annunciato di aver spostato la sede della finale di Champions League da San Pietroburgo a Parigi. Dalla casa degli zaristi a quella degli sceicchi insomma, nell’anno in cui si giocherà il mondiale in Qatar che farà seguito a quello di Russia. Un mondiale definito “il migliore di sempre” da niente meno che Gianni Infantino, presidente FIFA, mentre stringeva la mano di Vladimir Putin e Hugo Lloris alzava al cielo di Mosca la seconda coppa del mondo francese. Il numero uno del calcio mondiale definiva la Russia un Paese “diverso”, la cui percezione “era cambiata”:
«Molti preconcetti riguardo al Paese sono stati smentiti», disse davanti a taccuini e telecamere tra un “grazie Putin” e l’altro e i sorrisi distesi ripensando ai palleggi scambiati con il leader russo nelle stanze del Cremlino.
E già qui sorge un problema, oltre che una figuraccia: il fatto che lo sport debba sempre accompagnarsi alla morale politica, almeno nelle dichiarazioni, quando in realtà segue altri e ben meno nobili criteri. Se Putin organizza un Mondiale deve essere buono per forza, cambiato; altrimenti – sottotesto implicito – la FIFA non gli avrebbe offerto un simile palcoscenico. Certo, come no. Nessuno può permettersi di dire, brutalmente, che non sono le valutazioni morali a guidare e indirizzare le scelte dei massimi enti sportivi internazionali. E se rimane utopico immaginare una simile professione di sincerità, che almeno non si dichiari nulla, anche per evitare di essere smentiti dalla storia.
Ad ogni modo, la decisione della Uefa di spostare la finale di Champions allo Stade de France ha provocato la reazione piccata dei russi: «Riteniamo che la decisione di spostare la sede della finale di Champions League sia stata dettata da ragioni politiche», ha commentato Alexander Dyukov, presidente della Federcalcio russa e dirigente di Gazprom, aggiungendo che «la federazione russa ha sempre aderito al principio che ‘lo sport deve essere fuori dalla politica’». Anche qui, la Russia ricorre alla solita formuletta recitata da tutti ma rispettata da nessuno. Quella dello sport fuori dalla politica, come fa giustamente notare Matt Slater su The Athletic, è indiscutibilmente
«una favola che i politici amano raccontare ogni volta che stanno per politicizzare lo sport».
Qual è stato allora il primo atto ufficiale della FIFA dopo l’invasione delle truppe russe in Ucraina? La sospensione con effetto immediato delle federazioni calcistiche di Kenya e Zimbabwe, a causa di alcuni scandali di frode che hanno coinvolto i rispettivi presidenti. Che c’entra? Nulla. Per quanto riguarda invece la guerra in Ucraina, a parte l’invito alle parti a riportare la pace attraverso un “dialogo costruttivo”, la FIFA ha detto che «continuerà a monitorare la situazione e gli aggiornamenti in relazione alle imminenti qualificazioni alla Coppa del Mondo (Russia e Ucraina saranno impegnate ai playoff, ndr) verranno comunicati a tempo debito».
Un’altra condanna rumorosa alla Russia è arrivata dallo Schalke 04, glorioso club tedesco agonizzante in seconda divisione e legato a suon di milioni (dieci ogni anno) ancora a Gazprom. La società ha deciso infatti di rimuovere il brand della compagnia dalle maglie da gioco, dopo una partnership che andava avanti dal 2007. Una netta presa di posizione, arrivata dopo pressioni incessanti da parte dell’opinione pubblica, che ha portato il club della Ruhr ad accettare le dimissioni del membro del consiglio di sorveglianza Matthias Warning, ex spia della Stasi, vecchio amico di Putin e Ceo del gasdotto Nord Stream 2, su cui Gazprom ha una partecipazione di maggioranza da 10 miliardi di euro (Warning si sarebbe dimesso in quanto inserito tra i nomi delle persone sanzionate dagli Stati Uniti).
In modo simile si è comportato il Manchester United che, in un’Inghilterra centro propulsore “europeo” del fronte antirusso, ha rinunciato alla partnership con Aeroflot, compagnia di bandiera russa. Reazioni dure, gettate in pasto alla poderosa fabbrica del consenso ideata da Chomsky, che hanno scosso le agorà mediatiche e aperto uno scenario inedito: la Russia è diventata all’improvviso il nemico comune. Ma il passato racconta una realtà molto diversa, in cui i grandi dello sport hanno spalancato le porte ad est nel nome della pantomimica globalità dello sport.
L’Occidente sportivo si permette così di cambiare pelle con enorme disinvoltura: quando non vuole intromettersi nelle politiche di Stati sovrani, e allora si disinteressa delle questioni riguardanti la Georgia, la Crimea, il Donbass o il rispetto dei diritti umani, e quando invece pretende di far sedere ai tavoli internazionali solo chi è seduto dalla parte del bene. Il problema è la disinvoltura con cui cambia posizione. In tal modo passa dal tratteggiare la Russia come figliol prodigo (ex) sovietico, finalmente democratico e redento agli occhi dell’Occidente, all’essere costretto a smentirsi – e ad agire – sotto pressioni etiche, politiche e sociali.
Rory Smith, giornalista del New York Times, ha affrontato la questione scrivendo che «il calcio non doveva permettere di diventare un campo in cui si giocavano le rivalità geopolitiche, oppure il palcoscenico su cui gli oligarchi cercano potere e prestigio».
Una posizione di buon senso seppur problematica (chi stabilisce cos’è politica e cosa no, chi può farla e chi no?) ma che comunque, nel caso, avrebbe dovuto essere seguita dall’inizio senza tentennamenti. L’industria sportiva ha invece imbastito affari con la Russia per conquistare altri mercati e federazioni mentre Mosca, dal canto suo, ha fatto leva sullo sportwashing per presentare un biglietto da visita ideale ai partner occidentali: una forza moderna, all’avanguardia, e una società più libera e cosmopolita rispetto al passato. Tentativi che oggi imbarazzano le autorità sportive mondiali, responsabili di averli avallati e benedetti.
È questo però un discorso che non riguarda solo il passato ma si proietta anche nel futuro, come sottolinea Giulia Zonca su La Stampa: «Lo sport ha creduto che una maggiore visibilità avrebbe dato in cambio qualche quota aggiuntiva di democrazia. Non è successo ai Giochi con la Cina, non è successo con la Russia e ora viene difficile credere che lo scambio sia efficace in Medio Oriente. Sbagliato dividere il mondo in buoni e cattivi, visti i precedenti, forse sarebbe meglio essere pratici e pretendere delle regole base prima di ingaggiare una collaborazione (…) Si sanziona la Russia per l’Ucraina, quindi la prova di forza con la Georgia, l’annessione della Crimea, gli avvelenamenti, gli arresti degli attivisti, la limitata libertà dei gay erano scelte accettabili?».
Al di là di come la si pensi sul merito della questione, Zonca evidenzia un problema di metodo su cui è difficile essere in disaccordo: quando, e come, gli organismi sportivi e le federazioni si devono schierare politicamente?
Dopo l’invasione in Ucraina, si è deciso di reagire adottando sanzioni ‘morali’ in scia a quelle economiche e finanziarie minacciate dalla politica mondiale. Sanzioni secondo alcuni tardive, secondo altri ipocrite, di sicuro obbligate. E così, in Formula 1, la scuderia americana della Haas ha rimosso dalla propria livrea il brand russo Uralkali, mettendo in discussione il futuro del pilota Nikita Mazepin, figlio dell’oligarca Dmitry, patron di Uralchem e principale azionista di Haas. Lo stesso Dmitry Mazepin che compare in una foto, postata dal profilo Twitter della Presidenza russa, dell’incontro al Cremlino tra Putin e un gruppo di oligarchi per discutere sulle attese sanzioni internazionali.
Contestualmente è arrivata anche la notizia dell’annullamento del Gran Premio di Russia, a Sochi, del 25 settembre 2022. In passato, molte critiche erano state rivolte alla Formula 1 e all’ex patron Bernie Ecclestone in merito agli affari intrapresi con la Russia. Il gran premio era tornato in calendario nel 2014, a pochi mesi dall’annessione della Crimea e dall’inizio dei combattimenti nel Donbass, ma la F1 ha preferito allora non fare politica. Se infatti Ecclestone, da lucido affarista qual è, non ha mai ceduto alle pressioni dell’opinione pubblica, i nuovi proprietari americani di Liberty Media hanno deciso di tagliare ogni ponte economico con Mosca. Almeno fino al prossimo ordine contrario.
Il CIO, Comitato Olimpico Internazionale, ha contestato invece la violazione della Tregua Olimpica da parte del governo russo e di quello bielorusso per aver supportato l’operazione militare in Ucraina. Una Tregua Olimpica iniziata sette giorni prima dell’inizio dei Giochi Olimpici invernali di Pechino, il 4 febbraio, e che terminerà sette giorni dopo la chiusura dei Giochi Paralimpici. Ma il presidente del CIO Thomas Bach deve avere la memoria corta, dimenticando che questa è soltanto l’ultima delle violazioni russe. Già nel 2008, durante i primi giochi cinesi, Putin violò la Tregua Olimpica invadendo la Georgia mentre nel 2014, in occasione dei giochi russi di Sochi, arrivò l’annessione della Crimea.
Oggi il CIO invita a sospendere gli eventi sportivi in Russia e Bielorussia ma Thomas Bach deve aver dimenticato di quando, meno di un mese fa, sedeva sugli spalti dello Stadio Olimpico di Pechino, stretto tra i sorrisi di Putin e del presidente cinese Xi Jinping, e pronunciava al mondo parole distensive a suggellare una pace indotta nel nome dello sport:
«La missione dei Giochi è costruire ponti, non erigere mura. L’obiettivo è unire l’umanità in tutte le sue diversità. Mi rivolgo a tutti i politici del mondo: rispettate la Tregua Olimpica, date una chance alla pace».
Meno di un mese dopo, il mondo è cambiato. Dai vari sport rimbalzano messaggi di pace, nella consapevolezza pressoché unanime che questa volta Putin abbia davvero esagerato. Anche atleti russi di prima fascia, a partire dal numero uno del mondo di tennis Medvedev e dal numero sei Rublev, si sono schierati nettamente contro la guerra. E tutte le maggiori federazioni hanno preso posizione, come se davvero fosse stata superata la linea rossa.
Le Nazionali che avrebbero dovuto affrontare la Russia nei playoff mondiali hanno annunciato che non scenderanno in campo (dopo la Polonia, anche la Svezia e la Repubblica Ceca) mentre in molti chiedono a gran voce alla FIFA, che sta prendendo tempo, di estromettere la nazionale russa dalla competizione – «vediamo se la FIFA ha le palle», per citare Szczesny. Addirittura Abramovich, patron del Chelsea, dopo la pressione degli ultimi giorni ha ceduto il controllo del club agli amministratori della fondazione benefica. Insomma, per la prima volta lo sport è stato “costretto” a svegliarsi, se non altro per i rumori delle esplosioni. Ma siamo sicuri che abbia capito cosa sia successo?