Ritratto del più letterario tra i calciatori sovietici.
La grande guerra patriottica, come la chiamano in Russia, è finita da poco. L’Unione Sovietica piange la perdita del 15% della popolazione totale, circa 25 milioni di persone. Le strade di Mosca pullulano di bambini magrissimi e abbandonati. I loro padri sono in gran parte morti o dispersi. Quest’ultima casistica comprende Anatoly Streltsov, un soldato che dopo gli orrori della guerra decide di rifarsi una vita a Kiev, abbandonando il passato moscovita, sua moglie Sofia, e un figlio di 8 anni, Eduard.
Li ha lasciati a Perovo, zona est di Mosca, ai tempi comune autonomo dalla capitale nonché antica riserva di caccia degli zar prima della massiccia industrializzazione di inizio ‘900. Sofia trova lavoro in fabbrica, Eduard vive in strada giocando con reggimenti di altri piccoli orfani. La miseria e la povertà avvolgono l’intera Unione Sovietica, ma sono bilanciate dalla speranza che cova nei cuori più giovani.
Lui, la sua speranza, la trova inseguendo un pallone per i grigi viali di Perovo e tifando per lo Spartak, la società sportiva di un sindacato operaio. Ci sa fare. Ha velocità, fantasia, un tocco di palla vellutato che incanta i passanti delle strade moscovite. A Perovo si inizia a parlare del talento del figlio della signora Sofia. La fabbrica dove lavora la madre ha una squadra di calcio che non si fa sfuggire quel tredicenne così promettente. Passano tre anni. L’occasione della vita arriva in un’amichevole contro le giovanili della Torpedo allenate da Vasily Provornov, che da ex attaccante capisce subito di avere davanti qualcuno che potrebbe fare le fortune del club per molti anni a venire. Conquista la sua fiducia e lo convince a trasferirsi da loro.
Ai nastri di partenza del campionato sovietico 1954 (si inizia ad aprile e si finisce a ottobre), Eduard attira subito le curiosità di pubblico e critica. A Tbilisi, alla prima da titolare, va subito in rete. Gioca ogni partita di quella stagione, andando in gol quattro volte. I tifosi della Torpedo, pur in un’annata deludente, intuiscono di avere un genio in squadra. La stagione seguente è quella della consacrazione.
Veroniche, colpi di tacco (tutt’ora in Russia chiamato “Streltsov”), assist illuminanti e soprattutto 15 gol in 22 partite. Quarto posto finale della Torpedo e titolo di capocannoniere per Eduard. Nel 1955 l’esordio con la storica divisa della Nazionale Sovietica. Al debutto gli basta il primo tempo per infliggere una tripletta alla Svezia.
All’inizio del 1956 ha sette gol in quattro partite in Nazionale. Quell’anno ci sono i Giochi Olimpici di Melbourne. L’esordio è suggestivo: la rivale dell’Unione Sovietica, a soli undici anni dalla fine della guerra, è la Germania, che in quell’occasione, come per le due Olimpiadi successive, si presenta unificata. Eduard segna. Si ripete contro l’Indonesia.
La semifinale contro la Bulgaria diventa materiale da leggenda. I sovietici sono stremati, giocano praticamente in nove a causa degli infortuni del difensore Tishchenko e dell’attaccante Ivanov, compagno di Eduard alla Torpedo. Finisce 0-0. A inizio supplementari, la Bulgaria passa in vantaggio. Eduard pareggia. L’apoteosi arriva al 116esimo, quando Tatushin porta l’URSS in finale. Partita che però Eduard non giocherà. Il dogmatico ct Kachalin è convinto che gli attaccanti debbano essere compagni di reparto nei club di appartenenza.
Essendo Ivanov fuori per infortunio Eduard si accomoda in panchina, dalla quale vede i suoi compagni battere 1-0 la Jugoslavia. Le medaglie, però, vengono conferite solo a chi è sceso in campo. Nikita Simonyan, il centravanti che ha giocato al suo posto, offre a Eduard la sua medaglia d’oro. «Lascia stare, Nikita. Vincerò molti altri trofei». Riceve due voti per il Pallone d’oro 1956, la prima edizione della storia. L’anno seguente segna 12 gol in 15 partite. La Torpedo chiude seconda, e lui, con 12 voti, settimo nella corsa al più ambito premio calcistico individuale. Ha 20 anni, è forse il più puro talento emergente del calcio mondiale e ha un impero che lo adora.
Eppure. La cultura russa, ponte tra il mondo europeo e quello asiatico, prende da quest’ultimo la capacità di scorgere i segni del male nel bene più puro e le prime tracce di redenzione già nel momento stesso del compimento delle azioni più abiette, come se la reale tensione vitale fosse altrove, spesso opposta a quello che facciamo.
E infatti, Eduard, raggiunto il suo picco, si comporta in modo molto rischioso per quei tempi. È come se desiderasse essere punito, redento. Fuori dal campo non si comporta in modo consono alla dottrina sociale sovietica, deviando pericolosamente dai canoni comportamentali della marzialità di allora.
Gli piacciono le donne, l’alcol, la moda occidentale. E poi lui, da buon proletario forgiato da concetti come fedeltà e onore, oppone continui e ostinati rifiuti sia al CSKA (la squadra dell’Armata Rossa) che alla Dinamo (compagine legata al KGB). E poi qualcuno giura che Eduard abbia confidato agli amici quanto sia dispiaciuto di tornare in patria dopo le trasferte all’estero. Hai voglia essere fedeli ai tuoi principi quando non si legano a quelli della tua società . . .
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