Esiste ancora, il Totocalcio, quasi anonimo e nascosto tra i meandri dell’offerta infinita delle scommesse odierne. Anziano e zoppicante, fa fatica a tenere il passo coi giovani virgulti che nei tempi d’oggi lo sovrastano dall’alto della loro freschezza, e che lo guardano con un’espressione che sa quasi di scherno. Dimenticando che lui, il Totocalcio, è un po’ il padre di tutti loro.
Nata nell’immediato dopoguerra, la “schedina” ha attraversato in gloria gli anni del boom economico, poi quelli di piombo, poi ancora quelli del “calcio più bello del mondo” degli anni ottanta, quando Maradona, Zico, Falcao e Platini ce li avevamo noi e solamente noi.
“Due cose importammo dalla Svizzera in quei primi anni del secondo dopoguerra: il catenaccio e il totocalcio. Il destino volle che entrambi gli importatori fossero non solo triestini ma anche coetanei: Nereo Rocco, 20 maggio 1912, e Massimo Della Pergola, 11 luglio.
Con questa prima differenza. Che si discusse a lungo, all’epoca, se a tradurre per prima in catenaccio il verrou elvetico fosse davvero stata la Triestina del parón o non piuttosto la Salernitana di Gipo Viani.
Mentre nessuno poté mai mettere in dubbio la primogenitura del giornalista. E con quest’altra. Che se il catenaccio rappresentò, per qualche decennio, il marchio di fabbrica del calcio italiano ma anche il suo limite, il Totocalcio finì per diventare il volano dell’intero movimento sportivo nazionale” (Gigi Garanzini).
Il filo conduttore, per tutti coloro che la domenica pomeriggio prendessero in mano quel tagliandino che il giorno prima il tabaccaio aveva tagliato con un banale righello, e in attesa che le voci di Ciotti e Ameri squillassero dagli altoparlanti di vecchie radioline piazzate nella sala da pranzo, era sempre lo stesso: sognare. Sognare provincialmente di diventare miliardari con un pezzetto di carta pagato mille lire, o anche solo provare l’ebrezza di una piccola vincita con la quale si faceva a malapena il pieno alla Fiat 126 pagata a rate.
E pazienza se la domenica pomeriggio dopo le partite, tutte rigorosamente alla stessa ora, il sogno veniva infranto da un Sandro Ciotti il quale, su Tutto il calcio minuto per minuto (irrinunciabile bibbia parlata per chi volesse conoscere i risultati in tempo reale) annunciava il clamoroso pareggio dell’Avellino sul campo della Fiorentina che faceva sfumare persino un misero dodici. Tanto la domenica dopo c’era un altro giro di giostra, per fuggire il logorio della vita moderna.
Qualcuno c’è riuscito, a diventare miliardario, e lo stanno ancora cercando; per esempio, nella pazza giornata del 20 novembre 1988, con una schedina zeppa di “2” e tante sorprese in serie A, tutte insieme, come la vittoria dell’Atalanta (2-1) sul campo del Milan, del Napoli a Torino (5-3 alla Juve), dell’Ascoli (2-1) a Lecce o del Pescara che batte (2-0) in casa il Torino. In quella occasione tre fortunati anonimi di Trieste, Fermo e Cagliari portarono a casa ciascuno più di 4 miliardi e 300 milioni di Lire.
Il record venne superato cinque anni dopo, sempre a novembre, quando l’unico tredici portò a casa oltre 5 miliardi e mezzo di Lire. Anonimo, naturalmente. Non come il minatore sardo Giovanni Mannu, il quale nel 1950 fece un tredici da 77 milioni di Lire (una gran somma per i tempi) e chissà, dopo quella vincita, quanti parenti nascosti si saranno mostrati tanto “amorevoli” nei suoi confronti. Ma erano i tempi in cui i più mettevano il proprio nome nel retro della giocata. Poi, con gli anni, gli scommettitori si fecero più scaltri e preferirono restare nell’anonimato.
Il Totocalcio è nato nel 1946: l’idea fu di Massimo Della Pergola che con Fabio Jegher e Geo Molo creò la Sisal, per poi cedere il brevetto nel 1948 ai Monopoli di Stato. I primi anni le partite da indovinare erano dodici, poi passate all’iconico tredici nel 1951, e ampliatesi a quattrodici nell’agosto del 2003, quando già l’appeal della schedina cominciava a scemare.
Ma per tanti anni è stato un vero rito pagano: partita, calcio alla radio e schedina erano il “must” della domenica pomeriggio, prima di tuffarsi nelle prime immagini dei gol con Novantesimo Minuto e il primo piano di Paolo Valenti. Persino un bambino di 10 anni poteva giocare la sua schedina con le monetine dategli dal papà. E spesso quegli infanti ancora inesperti di calcio azzeccavano, nella loro beata ingenuità, il 2 impossibile del Catania al Comunale di Torino che faceva svoltare tutta la famiglia.
Già, il 2 del Catania in casa della Juve, come il muto “Parola” suggerì coi gesti ad uno scettico Lino Banfi nel film “Al bar dello Sport”, facendogli vincere una somma miliardaria, poi dilapidata al Casinò. Si, perché anche nel cinema italiano ruspante e a volte un po’ trash di quegli anni la schedina, vera icona dell’epoca, ispirò o comunque apparve in alcuni film che erano sì sceneggiature ma che potevano essere tranquillamente storie reali di vincitori nascosti nel buio dell’anonimato.
Come per esempio uno degli episodi del film cult del 1982, “Eccezzziunale… Veramente”, quando un Abatantuono dagli occhi sgranati chiese all’odiata suocera la conferma della X di Carrarese-Pro Patria, pensando di aver vinto una grossa somma, in realtà rivelatasi uno scherzo goliardico degli amici bontemponi. Più indietro nel tempo, nel 1959, Totocalcio ancora protagonista nel film “L’audace colpo dei soliti ignoti” con Gassman e Manfredi.
Anche il Guareschi, nel libro (e poi film, rigorosamente in bianco e nero) “Il compagno Don Camillo” volle dire la sua sull’argomento, quando il prete che parlava con la statua di Cristo rimproverò il sindaco Peppone di aver giocato al Totocalcio e vinto la bellezza di dieci milioni. Lui, un proletario che cadeva in una delle debolezze dei borghesi:
«…Tu sei un capo, uno di quelli che debbono guidare la lotta del proletariato. Il totocalcio è una delle più subdole armi inventate dalla borghesia capitalista per difendersi dal proletariato. Un’arma efficacissima e che non costa niente alla borghesia. Anzi le dà dei grossi guadagni. Un buon comunista non aiuta, ma combatte fieramente il totocalcio!»
Eccola, la subdola arma borghese per svuotare la coscienza di classe del proletariato! Per dividerlo, disinnescarlo, conquistarne l’immaginario e portarlo dalla propria parte! Un punto di vista che nuotava dentro il mare del dualismo politico e ideologico in auge a quei tempi, gli anni sessanta, ma che confermava quanto giocare la schedina fosse un qualcosa che “fanno tutti”, come rispose non senza sensi di colpa l’onorevole Peppone a Don Camillo per difendersi dall’infamante accusa.
Un estratto da “Al Bar dello Sport”: il tredici di Lino Banfi
Tempi andati, ed è normale che gli anni passino e le cose si evolvano, non in meglio o in peggio a seconda del punto di vista di progressisti o nostalgici, ma semplicemente perché il mondo e la società sono in continuo mutamento, e non si può fare nulla per frenare il corso del tempo. Eppure oggi, le scommesse, fatte dallo scommettitore oppure on line, camminano di pari passo con l’immediatezza e la velocità nonché la saturazione di informazioni e strumenti digitali del mondo moderno.
Tutto più facile, più immediato, e più vincente: non si vinceranno i miliardi, ma giocando una o due partite anche quei 10 euro netti ricavati scommettendone altrettanti su un singolo “over” del campionato finlandese possono regalare l’effimera ebbrezza di aver vinto qualcosa. Il problema è che allo stesso tempo il gioco online diventa disumano anzi post-umano: dal tabaccaio di fiducia alla luce di un monitor, la quale accompagna la nostra solitudine che spesso si trasforma in ludopatia.
Niente più spontaneità, strapaese o folclore, solo un perfido algoritmo disponibile 24 ore su 24.
Anche perché tornando a noi, per chi quegli anni e quel tipo di calcio li ha vissuti così com’erano, nulla può avere lo stesso celestiale sapore del ricordare un improvviso: “Scusa Ameri, ti interrompo da Firenze”; da lì le successive emozioni di quei due interminabili secondi che sancivano il confine tra il saltare, urlanti di gioia, da una sedia e lo strappare in mille pezzi, imprecanti di rabbia, la malefica schedina.
In copertina Massimo Della Pergola e il “suo” totocalcio in una ricevitoria milanese, nel lontano 1973