Tantissime sono le curve che, da Nord a Sud, si sono attivate durante l'emergenza.
In questi giorni così difficili per il nostro Paese, che si trova a dover combattere una guerra imprevista, in molti si sono mossi con aiuti e donazioni: influencer e musicisti, calciatori e sportivi, presidenti di club, società, attori, attrici e via discorrendo; insomma, il mondo dello star system si è nobilmente mobilitato per offrire una mano in una situazione davvero delicata.
Ma in questa orribile situazione, c’è anche una categoria che nonostante le varie – e forse troppe – accuse, ha deciso di offrire un contributo importante che sta passando in sordina; stiamo parlando degli ultras. Da Nord a Sud sono numerosi i gruppi che hanno raccolto il grido d’aiuto, mettendosi in diversi modi a disposizione della comunità: dalla donazione e raccolta di materiali utili per gli ospedali al servizio in prima persona, con compiti utili per la cittadinanza. A chi rimane stupito bisogna ricordare che ciò dovrebbe rappresentare la normalità per il movimento ultras, non l’eccezione (usiamo il condizionale perché i primi a tradire la “mentalità”, in tante occasioni, sono stati loro stessi).
Porte chiuse, cuore aperto
Lo scorso dieci marzo, all’Estadio de Mestalla, l’Atalanta ha scritto una delle più belle pagine del calcio bergamasco qualificandosi ai quarti di finale – sempre se verranno giocati – della Champions League. Quella andata in scena in Spagna sarebbe dovuta essere una vera e propria festa per i tifosi orobici ma, come sappiamo, così non è stato. Per quanto sembri passata una vita, parliamo di solo sue settimane fa: il calcio era ancora convinto di poter andare avanti a porte chiuse, e la situazione doveva ancora diventare drammatica.
In una storia dal sapore più amaro che dolce, però, il gesto più importante lo hanno compiuto i 1.200 tifosi dell’Atalanta, decidendo di devolvere all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo quelli che dovevano essere i loro rimborsi, per un totale di ben 60.000 euro. Una cifra che, se per alcune celebrità può non pesare, per i “comuni mortali” rappresenta invece uno sforzo enorme, uno sforzo già allora sentito, dal profondo.
Quello dei tifosi dell’Atalanta però – e fortunatamente – non è stato l’unico gesto nobile da parte degli ultras. A Roma infatti i tifosi della Curva Nord laziale hanno organizzato una raccolta fondi in favore dell’ospedale San Paolo di Civitavecchia, con lo scopo di rifornirlo di mascherine, autorespiratori, occhiali e materiale di protezione; dall’altra parte del Tevere invece, sponda giallorossa, i tifosi romanisti hanno seguito l’esempio dei bergamaschi, proponendo di donare i soldi della trasferta (saltata) di Siviglia e mettendo su una raccolta fondi.
Anche a Frosinone si è agito nello stesso modo, prima donando in beneficenza i rimborsi che la società avrebbe dovuto elargire per Frosinone-Cremonese giocata a porte chiuse, e poi organizzando una raccolta fondi in favore dell’ospedale locale Fabrizio Spaziani di Frosinone (come nella vicina località di chi scrive, Alatri, in cui il gruppo Armata Alatrese ha nel suo piccolo agito allo stesso modo).
Ma all’appello hanno risposto tantissime altre curve del Paese: Brescia, Pescara, Triestina, Bologna, Como, Reggiana, Ternana, Carpi, Spezia, Salernitana, Napoli e potremmo continuare all’infinito (non limitandoci unicamente al calcio). Insomma non solo criminali e violenti, capro espiatorio perfetto di stampa e politica: gli ultras nel momento del bisogno si sono attivati ma, come detto, ciò deve far parte del loro modo di stare al mondo.
Il senso di comunità
Questa infatti non è la prima occasione in cui i tifosi si sono mostrati solidali con le comunità in difficoltà. In occasione del terremoto che nel lontano 2009 scosse profondamente la conca aquilana, moltissimi gruppi si organizzarono nel giro di pochi giorni; dalle raccolte fondi per effettuare donazioni all’invio di furgoni carichi di generi alimentari e di beni di prima necessità, con pieno sostegno alla protezione civile. Stessa cosa nel territorio di Amatrice quando, tre anni fa, un terremoto rase al suolo l’intero comune: ad aiutare il ritorno, con gran fatica, alla normalità, c’è anche un intero campo sportivo finanziato e “tirato sù” dagli ultras d’Italia.
Ebbene questo è il lato migliore del movimento, che affonda le radici in un codice morale non scritto: esso nasce con intento aggregativo e comunitario, e questo stesso senso di comunità è un valore che gli ultras sono chiamati a preservare in un tempo così individualista e menefreghista. Perciò le curve che cedono alle sirene della criminalità, ancor prima che alla violenza, tradiscono gli stessi ideali per i quali sono nate: dove c’è criminalità ci sono loschi interessi particolari, e dove ci sono interessi particolari – ancor di più se loschi – non ci dovrebbero essere gli ultras.
Proprio un tifoso atalantino, nel 2016, scriveva una lettera aperta all’Eco di Bergamo su cosa significasse essere ultrà. Ne riportiamo qui un breve estratto:
“Una fredda, freddissima sera invernale in un paesino perso tra le valli sopra Bergamo. Una quindicina di ragazzi si avvicina in silenzio ad un’abitazione, espongono uno striscione, accendono qualche torcia, parte un coro. Si affaccia qualcuno, scende. Un abbraccio, forte, lungo, sentito. Muto. È un frammento. Nascosto e segreto. È l’essenza del movimento ultras. I ragazzi tornano da dove sono venuti. Le loro macchine, i loro paesi, la loro vita”.
Ebbene il calcio ha bisogno degli ultras, ma ne hanno bisogno anche i giovani e la società. Serve però la vera mentalità, quella del terremoto de L’Aquila, di Amatrice, quella che spinge i tifosi del Parma a rifiutare la trasferta troppo costosa allo Juventus Stadium e ad organizzare una colletta per il reparto di oncologia pediatrica; quella che si attiva durante le emergenze, come sta accadendo questi giorni, per il sacro valore della comunità. Ecco la prima regola da tenere a mente, la legge fondamentale da rispettare: se sei un ultrà fai parte di qualcosa che è immensamente più grande di te e, come un soldato, devi metterti a disposizione della causa.