Quando Pantani fece inginocchiare la più grande “truffa” dello sport: Lance Armstrong.
L’ultimo zenit. Lontano, perso nel talento, che ha abbagliato gli anni ’90 del pedale, Marco Pantani si presenta al via della dodicesima tappa del Tour de France 2000 in ventiquattresima posizione nella classifica generale. Il calendario dice 13 luglio 2000, il percorso di giornata recita Carpentras-Mont Ventoux, 149 chilometri per abbracciare l’inferno del Monte Calvo. L’estate toglie il respiro e quando mancano nove chilometri alla vetta per il Pirata lo spettacolo è un calvario. La sua è una bautta di sudore. L’espressione ricurva disegna sul suo volto una maschera giapponese, una fatica antica che solo il ciclismo riesce ancora ad abbracciare.
Davanti a lui, a circa 10″, Jan Ullrich, Santiago Botero, Joseba Beloki, Roberto Heras, Richard Viranque e l’americano Lance Armstrong. Il Gigante della Provenza, incluso nel patrimonio mondiale dell’Unesco, ottiene ogni volta il sommo sacrificio dai ciclisti che lo affrontano. Nel 1967 chiese la vita ad uno di loro. Thomas “Tom” Simpson, atleta britannico, morì sui ripidi pendii di Francia a causa della canicola e dell’abuso di anfetamine. Qui prende vita, tra le spire del Maestrale, il papavero d’Islanda in un luogo che ricorda la faccia oscura della Luna. Auro Bulbarelli, dai microfoni di Rai3, recita un vecchio adagio:
“Non è folle chi sale sul Ventoux. È folle colui che ci ritorna”.
In studio assieme a lui Davide Cassani, l’attuale commissario tecnico della nazionale italiana di ciclismo, e Felice Gimondi uno che sul luogo del delitto ci è tornato tre volte. Pantani arranca, ai -8 dalla vetta il distacco dal gruppo dei migliori è di 24″ gli ormeggi, ormai, sembrano essere stati mollati. L’ultimo corridore capace della doppietta Giro-Tour alle corde, la squalifica non ancora digerita e i soli 23 giorni di corsa con i quali si era presentato al via della Gran Boucle una sentenza. La grandezza di un mito può essere concepita solo attraverso il suo supplizio. Ai -7 la lunga pietraia si apre davanti agli occhi dei professionisti, Ullrich davanti, con la sua cadenza da passista, mette tutti in fila.
La strada viene inghiottita dai battistrada, le immagini fisse sui gladiatori pronti a giocarsi la maglia gialla e la frazione alpina, quando ad un tratto appare una casacca rosa che non ha tempo per i convenevoli. Il Pirata ai -5,5 rientra, si accoda al trenino e respira. Il tempo di una preghiera poi si alza sui pedali. Uno scatto, Heras gli si incolla alla ruota. Secondo scatto, il vento contrario lo rimbalza. Terzo scatto, Viranque molla. Quarto scatto, il preludio. A questo punto si sfila, passa terzo e lascia agli altri il compito di tirare, mentre Gimondi è ammutolito.
“Ho finalmente staccato l’americano. Da ieri mi era rimasto sullo stomaco, che fosse scattato quando io ero davanti, mi era rimasta la rabbia, per quella sua azione un po’ troppo esuberante, anche se si e’ il leader della corsa bisogna aver rispetto”
Mancano solo 3 chilometri all’arrivo, tutto si decide in pochi istanti. Pantani pedala a favore d’orgoglio, contro il passato, contro la squalifica e contro il doping. La rabbia delle origini, cantata da Emil Cioran, è qui. Il figlio del mare e dell’inverno rinasce al tramonto dell’umiliazione. Quinto scatto, in piedi, adunco, ma questa volta il numero 71 saluta e fugge verso il traguardo. Dietro si osservano, alzano bandiera bianca. Botero ci prova, mentre Armstrong parla alla radio. Telecomandato il texano raggiunge il fuggiasco di Cesenatico. Siamo a 1700 metri d’altitudine e Bulbarelli si lascia andare:
“Il più grande scalatore degli ultimi 20 anni”.
I due si uniscono, danzano, le biciclette fluttuano nell’aria. Mancano ancora 2400 metri al traguardo. Lo statunitense appena raggiunge il romagnolo gli dice qualcosa, i telecronisti provano a dedurre, il mistero di quelle parole rimarrà in eterno. L’astio supera ogni limite, una rivalità che doveva sbocciare l’anno prima e che è stata fermata da una provetta.
Da una parte Robocop dall’altra l’elefantino – i soprannomi che Armstrong e Pantani si erano rispettivamente scambiati – ma in salita il pensiero si squaglia come neve al sole e il capitano della US Postal Service alza il ritmo e crea margine. La maglia rosa della Mercatone Uno non molla, manca un chilometro alla fine e si entra nella zona transennata. Ultima curva sono fianco a fianco, il Pirata sprinta e torna alla vittoria. «Troppo bello»: Gimondi esulta come se la vittoria fosse sua. L‘agonia abbreviata ancora una volta mettendo le proprie ruote davanti a quelle di tutti gli altri.
Il duello Pantani-Armstrong sul Ventoux
Il trionfo è dolce e crea dipendenza. Pantani è tornato prepotentemente sulle prime pagine, ma il suo intento è quello di ridimensionare il cowboy Lance. C’è una sottile linea rossa che collega questo successo con Madonna di Campiglio, la volontà di potenza – tema centrale negli studi di Friedrich Nietzsche – applicata alla bicicletta. L’eterno ritorno di un campione che non può sparire davanti alle difficoltà. Il Tour de France ha sentito un brivido e vuole riviverlo, gli italiani si incollano davanti al teleschermo. Il giorno dopo lo spagnolo Vicente Garcia-Acosta vince sul traguardo di Draguignan, mentre a Briançon alza le braccia al cielo Santiago Botero.
Terzo il Pirata che mentre scatta sull’Izoard ottiene il 40% di share. La miccia è accesa. 16 luglio 2000. Quindicesima frazione da Briançon a Courchevel 173,5 chilometri. Prima dell’asperità finale la corsa si infiamma sulla salita della Madeleine che risveglia, come nell’opera di Marcel Proust, antichi sapori di uno sport fuori dal tempo. La fuga ha margine, mentre dietro gli uomini di classifica controllano. Pantani viene affiancato dal compagno di squadra Enrico Zaina che lo tiene al riparo nel gruppo dei leader. La cima arriva e Botero prova la sortita solitaria per raggiungere la testa della corsa.
La telecronaca della televisione di Stato non riesce ad essere imparziale, il ciclista di Cesenatico è un magnete di forza inesauribile, sublima ogni parola, esalta il linguaggio.
La salita verso Courchevel 2000 prende vita, il colombiano in maglia a pois raggiunge la fuga ed attacca. Dietro il romagnolo inizia i suoi assalti. Siamo ai -16 e la bandana è sparita, il rituale della battaglia può avere inizio. Il primo ad andare in affanno è il Kaiser Ullrich, si stacca e sale con il suo passo. Le gambe smilze del Pirata sentono il sangue dei rivali e girano, pedalata dopo pedalata, sempre più forte. Ora con lui sono rimasti solo Viranque e Armstrong. Lo statunitense ha sentito il campanello d’allarme e prova la contromossa. Lancia un affondo, ma nulla da fare Pantani è ancora lì, mentre tutti gli altri vanno fuori giri. Sono davanti, insieme, come sul Ventoux. Imperscrutabili, si dissetano e forzano l’andatura. Roberto Heras si accoda quando la fuga dista solo 1’30”.
La telecronaca della televisione di Stato non riesce ad essere imparziale, il ciclista di Cesenatico è un magnete di forza inesauribile, sublima ogni parola, esalta il linguaggio. I fuggiaschi rompono gli indugi, José Maria Jimenez – altro eroe tragico delle due ruote – attacca e lascia tutti in mezzo alla strada cercando la vittoria. Pantani incede con uno scatto permanente che ricorda, applicata al ciclismo, la rivoluzione permanente di Lev Trockij. Maestosa concentrazione di nessun rimorso. Il forcing crea il vuoto, Armstrong e Heras si guardano. Quando mancano -5 alla vetta il divario si dilata, per la prima volta il Pirata ha staccato Robocop e lo ha fatto come nessuno mai farà nella storia del Tour. Storia poi riscritta dalle aule giudiziarie.
Sinuosa la figura dell’atleta in rosa rappresenta le novelle Forme uniche della continuità nello spazio. Umberto Boccioni raccontato attraverso i rapporti di una bicicletta, un fluido movimento che lascia estasiati.
“Contro Pantani in questa condizione non c’è nulla da fare”,
Bulbarelli è laconico e ai -3 Marco aggancia El Chava – il “selvaggio” – Jimenez. Accelera, nessuno può competere con l’autorevolezza dell’uomo venuto del mare, l’ottava vittoria al Tour de France dista un chilometro. Gli avversari stroncati, mentre un improbabile spettatore vestito come Javier Pascual Llorente si mette alla ruota del capitano della Mercatone Uno. Verrà fermato. Il Pirata taglia il traguardo senza perdersi in esultanze, alza solo il braccio destro. Armstrong si deve piegare, quarto a 51″. Un necessario punto esclamativo.
Due giorni dopo verso Morzine Marco Pantani attacca ai -129 dall’arrivo, prova a far saltare il banco restando in fuga per 81 chilometri di cui 25 da solo. Lo fermerà la dissenteria. La Rai, piegata al volere di un’azione d’altri tempi, si collegò anticipatamente con la Grande Boucle per seguire l’azzardo di una personalità mai doma. Quello resterà l’ultimo acuto del corridore romagnolo, poi l’oblio ed il buio segnato da uno squarcio lucente al Giro d’Italia del 2003. L’unico capace di mettere in discussione la supremazia artificiale del bionico d’America. L’unico capace di rimanere visione indelebile negli occhi dei tifosi quando la strada punta verso il cielo.
“Chi è Pantani? Uno che ha sofferto tanto. E che in bici si è divertito e, soprattutto, ha divertito” (Alessandra De Stefano)
Il vento. Nel salto con gli sci, deve essere leggermente contrario per sostenerti, mentre in bicicletta - se non ti è a favore - da lui cerchi di nasconderti. Primož Roglič su quel vento sta costruendo non solo la sua carriera, ma la sua vita.