L'eredità di Djordjevic è un tricolore conquistato grazie alla fede nello spirito di spogliatoio.
La sera di venerdì 11 giugno gli archi dei portici della capitale italiana del basket hanno finalmente rieccheggiato di quelle urla d’esultanza che, anni fa, erano state così frequenti per la gente bianconera, che ha fatto della vittoria una tradizione. Sì, perché alla Segafredo Arena della Fiera di Bologna, la Virtus ha conquistato con un secco e clamoroso quattro a zero lo scudetto, vent’anni esatti dopo l’ultimo successo, funestando una Milano favoritissima, ma giunta esangue a fine stagione. I festeggiamenti che hanno illuminato per una sera il Nettuno in Piazza Maggiore, con la rossa luce crepitante delle torce, sono la degna conclusione di una serie finale, che si potrebbe dire abbia opposto una pallacanestro moderna e “cibernetica” ad una visione più classica ed “umana” del gioco.
Come anticipato, si presentava con i favori del pronostico l’Olimpia Milano, forte della perfetta organizzazione costruita dentro e fuori il parquet da Ettore Messina, consacratosi nel Vecchio Continente, ma specializzatosi in seguito ad una lunga militanza nella NBA. Per i meneghini, un sistema fatto di minuziosa preparazione gestionale prima ancora che sportiva, in cui si è inserita una rosa con esperienza europea (Rodriguez, Hines, Datome) e composta da giocatori perfetti per il basket attuale, perché versatili nell’inventiva offensiva e allo stesso tempo coriacei nella metà campo difensiva; sedici uomini sotto contratto per coprire ogni ruolo ed assicurare rotazioni ampie, in modo da gestire il doppio impegno campionato – Eurolega. Lo stesso concetto di gioco è fortemente improntato sulla corrente modernista: Messina non ha imposto una struttura troppo complessa, in modo da lasciare campo libero allo straripante talento offensivo dei singoli, liberi così di esprimersi fuori da eccessivi schemi e rigidità.
Le due menti della Vu nera (Facebook)
Nell’angolo dello sfidante invece, la Bologna bianconera, ispirata da una filosofia opposta. Se dal lato biancorosso si insegue un’ impostazione americana, invece la squadra bolognese è costruita sul modo balcanico di intendere lo sport e quindi la vita: Sasha Djordjevic in panchina a orchestrare il talento cristallino di Milos Teodosic e l’intensità asfissiante di Stefan Markovic. Una trinità tecnica serba per un basket “vecchio stampo”, fedele ad un’interpretazione canonica dei ruoli sul campo: centri di stazza, guardie atletiche e specialisti difensivi; soprattutto una cultura del playmaker inteso come creatore di gioco prima che realizzatore, un’intelligenza cestistica dalle cui mani passa ogni pallone, destinato poi al compagno libero nella miglior posizione per segnare. L’altruismo infatti è uno dei valori propedeutici alla concretizzazione della parola d’ordine del sistema bianconero: il gruppo.
Una squadra, con la s maiuscola, Djordjevic lo sa bene, è una costruzione che va decisamente oltre una rosa ben equilibrata sulla carta. In un gruppo tutti i giocatori si sentono responsabilizzati nel proprio ruolo, ci si sostiene dopo ogni errore e si festeggia il compagno che ha appena fatto una grande giocata; di più, lo spirito di gruppo si costruisce anche fuori dal campo, andando a cena fuori e facendo giocare i figli assieme, ridendo e scherzando in compagnia finito l’allenamento. Perciò quando il gruppo è davvero unito, lo spogliatoio è impenetrabile: alle critiche di giornalisti o tifosi, alla pressione del pubblico in trasferta, alla tensione dei possessi finali che fa tremare le gambe. In altre parole, quando c’è il gruppo, quello con la g maiuscola, si vince. Sin da quando nel 1987 si preparava per i Mondiali Under 19 di Bormio, sotto la guida del leggendario Svetislav Pešić, Djordjevic ha imparato bene che il compito di un allenatore vincente è in primis quello di costruire un collettivo, che condivida valori e comportamenti, e non semplicemente accostare “figurine” sull’album.
La squadra è tutto e io sono parte di essa. Lo abbiamo vinto insieme e io non ho molto da dire se non che sono davvero contento – Milos Teodosic, dopo la vittoria dello scudetto
Nella stagione 2019/20 la filosofia di gioco della Virtus aveva stupito un po’ tutti, forse anche a causa di un’indole così diversa dal resto del basket contemporaneo; all’interruzione del campionato dovuta alla pandemia, la Virtus era prima, avendo sconfitto in campionato tutte le dirette contendenti al titolo. Ma, dopo la cocente delusione di una annata fermata sul più bello, nella stagione successiva le “Vu nere” hanno faticato e non poco. Allora, per spiegare perché alla fine è stata proprio la V nera a mettere in bacheca il tricolore 20/21, si possono individuare tre momenti chiave in cui il gruppo Virtus è diventato, attraverso le difficoltà, il più forte d’Italia, ed ha concluso un percorso iniziato nella primavera 2019. Il primo di questi momenti arriva senza ombra di dubbio a fine Novembre: la società, in linea con le sua crescenti ambizioni, annuncia l’ingaggio di un Italiano di lusso, Marco Belinelli, di rientro dalla NBA con anello 2013/14 al dito.
A inizio dicembre l’aspettativa per il suo esordio nella gara casalinga con Sassari è altissima, addirittura Mamma Rai concede la diretta in chiaro, ma le cose non vanno come previsto: il numero 3 subisce un piccolo infortunio a poche ore dalla gara, non c’è comunicazione con la dirigenza sulla sua possibile indisposizione ed i sardi corsari rovinano la festa per l’esordio, che comunque sarà rimandato. Il giorno dopo volano parole grosse in sede Virtus e scoppia la bomba: Coach Djordjevic e il fidato vice Bjedov vengono sollevati dall’incarico, senza nemmeno tanti complimenti. Nell’immediatezza dell’esonero accade però qualcosa di eloquente: tutti i giocatori, nessuno escluso, si stringono intorno all’esonerato allenatore, affermando che si deve andare avanti insieme “senza se e senza ma” e, si vocifera, arrivando anche a minacciare uno sciopero.
La coesione dello spogliatoio si coglie nei piccoli gesti (Facebook)
Risultato: reintegro dopo meno di 24 ore e dichiarazioni di facciata di società e coach, che millantano una ritrovata comunione d’intenti. In realtà è evidente che la bufera sia tutt’altro che passata, infatti in campionato la V continua a mostrarsi nervosa, svagata e a tratti supponente, arrivando a perdere 6 partite di fila tra le mura amiche. Poco male in realtà, perché l’obiettivo dichiarato dalla società a inizio stagione è di orizzonte continentale: arrivare in finale di Eurocup per accedere all’Europa che conta, l’Eurolega.
In effetti fuori dai confini nazionali il cammino è perfetto: dopo una stagione regolare e un primo turno di playoff da 19 vittorie e 0 sconfitte, a inizio aprile in semifinale la Virtus si trova di fronte l’Unics Kazan. La rosa dei russi è allestita dall’amato ex Claudio Coldebella e ha le tipiche caratteristiche di una squadra “moderna”: otto stranieri in rosa, altissima pericolosità offensiva e la predilezione per il tiro da fuori; tutto ciò ovviamente condito dall’autentica cifra stilistica dello sport contemporaneo, ovvero uno spiccato atletismo. Ecco, il secondo momento chiave della stagione: in gara 3 la V matura un’eliminazione cocente, non tanto perché rimanda l’agognato appuntamento con l’Eurolega, ma soprattutto perché il fallimento europeo lascia la sensazione di un progetto già finito e di un gruppo a cui rimane solo da vivacchiare ancora un paio di mesi, tra la fine della regular season ed i playoff, in attesa di una radicale rifondazione estiva.
Competere e dare il meglio di sé, il giocatore deve fare quello. Altrimenti parliamo di tiri liberi sbagliati, di palle perse, che non c’è il gioco, il sistema di qua e di là…Balle!!! – Sasha Djordjevic, dopo la sconfitta in semifinale di Eurocup con Kazan
I giornalisti sono scatenati, iniziano già a circolare i nomi dei nuovi possibili allenatori e dei contratti rescissi; si paventa un vero repulisti di carattere più emotivo che razionale. Insomma, a metà aprile l’unica ambizione rimasta sembra quella di salvare la faccia, limitando le figuracce sul parquet, per poi seguire da sotto l’ombrellone la probabile finale tra Milano e Brindisi, fin lì imbattibili. In questo clima di pessimismo però, il gruppo è vivo, eccome. Lontano dalla tempesta mediatica che infuria sui giornali e le gogne già approntate dai tifosi sui social, i 12 bianconeri, guidati dai propri leader, si compattano dentro e fuori dal campo. E così, iniziati i playoff, arriva il terzo e ultimo momento chiave della stagione. L’accoppiamento al primo turno di playoff è contro Treviso, ma la V, nonostante sia ampiamente favorita, vince a stento le prime due gare in casa.
Gara 3 al PalaVerde vede un primo tempo disastroso della difesa ospite: 61 punti subiti in due quarti; nel gergo metaforico si potrebbe parlare di “telepass alzato” nella metà campo virtussina, per uno svantaggio di 15 punti che sembra dare ragione a chi sosteneva che la squadra fosse giunta al capolinea. In verità, quello che succede all’intervallo è l’ultimo trauma necessario a forgiare una squadra vincente: nello spogliatoio volano gli stracci, non solo tra i giocatori, ma anche verso l’allenatore. Dopo dieci minuti di psicoterapia di gruppo però, le facce dei ragazzi in maglia bianca sono irriconoscibili. L’energia e l’intensità, soprattutto difensiva, della Virtus che esce dallo spogliatoio di Treviso è devastante.
L’intervallo sul -15 a Treviso è stata una chiave. Ci siamo guardati in faccia, anche alzando la voce tra di noi. Sappiamo cosa siamo, e cosa non siamo. E lì abbiamo svoltato – Giampaolo Ricci, capitano della Virtus
La squadra sembra trasformata e non solo recupera poi vincendo quella partita, e la serie, ma elimina 3-0 Brindisi in semifinale, prima del già citato 4-0 in finale alla favoritissima Milano, in entrambi i casi con il fattore campo a sfavore; a suggellare lo scudetto, un record di 10 vittorie e 0 sconfitte ai playoff, che non si vedeva da oltre dieci anni e non si era mai compiuto senza avere il favore del campo di casa. Allora, ai cori sotto i portici ed i fumogeni che hanno acceso Piazza Maggiore, meritata festa del popolo virtussino, si potrebbe aggiungere la soddisfazione degli appassionati all’idea tradizionale di sport e agonismo.
È stata la vittoria della fede nel gruppo, comandamento della pallacanestro balcanica, faro della palla a spicchi europea. A cedere il passo, almeno questa volta, un concetto più contemporaneo e forse troppo “mercenario”, si passi l’iperbole, tipico del basket a stelle strisce; il parquet come l’ufficio, cifre e statistiche individuali più scintillanti rispetto ai trofei di squadra, per poter tornare quanto prima di là dall’Atlantico. In questo caso la vittoria del sentimento e dell’intangibile che sovrasta l’incontrovertibilità teorica del calcolo e del pronostico. Ma, soprattutto, il prevalere della vecchia scuola, che riconosce nelle emozioni e nella partecipazione dell’Uomo dentro ogni giocatore la scintilla del successo. E pensare che l’essenza di questa vittoria inconsciamente l’avevano già vista tutti, leggendo, ad ogni suo tiro, il tatuaggio inciso sul braccio sinistro di Marco Belinelli: the will must be stronger than the skill, ovvero la determinazione deve sorpassare il talento. Una leziosa preziosa, che Scariolo dovrà saper cogliere.
Copertina e foto via Facebook – Virtus Pallacanestro Bologna