Nell'epoca in cui vi offrono unicamente di diventare consumatori, noi vi proponiamo una battaglia senza quartiere al nulla che avanza: unitevi a noi invece di ingrossare le schiere dei fatalisti!
Siamo tutti matti, come voleva la sigla di un programma che ha ridefinito il concetto di post-modernità. O forse sarà che non riusciamo più a capirci niente: ogni giorno ad esempio ci svegliamo e i misteriosi cinesi del Milan – che non si sa esattamente chi siano – hanno acquistato un nuovo top player. Adesso manca solo che comprino Messi, cosicché Caressa potrà dire che quando lo aveva ipotizzato a Milano, sponda neroazzurra, si era solo confuso; e di più, quando aveva affermato che i nuovi proprietari rossoneri non avevano disponibilità economica, ebbene era nuovamente caduto in un lapsus all’ombra della Madunnina. Ad ogni modo il mercato sta contribuendo a farci diventare tutti matti: so di ragazzi che la sera per seguire Speciale Calciomercato rimandano l’immersione catartica nell’estate italiana, o di altri che durante l’uscita con una ragazza sbirciano dall’immancabile smartphone le notizie semi-live di TuttomercatoWeb. Il calciomercato è diventata una fiction, peggio di Beautiful, nell’epoca in cui le serie tv e le soap opera si sono imposte anche come l’oggetto della filosofia o meglio della popsophia, secondo la quale è più “filosofica” una serie tv americana rispetto alla Fenomelogia dello spirito. Sembra che non sia più importante il fine (il giocatore comperato a peso d’oro) quanto invece il mezzo, ovvero l’estenuante trattativa che aspettiamo si sblocchi con lo stesso misto di eccitazione ed ansia esistenziale che ci spinge a metterci davanti a uno schermo, divorando puntate su puntate come stoccafissi.
“La televisione ha tutte le caratteristiche del farmaco: agisce sul sistema nervoso centrale, crea un’elevata dipendenza, necessita di dosi crescenti e, infine, disorganizza la tua vita” (Andrzej Majewski)
E così, mentre innalziamo idoli d’oro a Gianluca Di Marzio – che sembra un po’ un personaggio uscito dalla Prima Repubblica, con tutto il rispetto per Di Marzio e per la Prima Repubblica, decisamente migliore della seconda – a causa di questo modo di pensare e sentire alienante non ci godiamo mai il momento, non siamo mai nel tempo, ma ci troviamo invece in un cattivo infinito che non raggiunge mai equilibrio e soddisfazione. Anche perché una volta acquistato il giocatore, così come finita la serie TV, ci rendiamo conto che in buona parte il piacere era nell’attesa del piacere stesso, nel desiderio in sé, non nel desiderio appagato.
Meccanismi psicologici delicati e apparentemente irrazionali, fatto sta che la noia è una brutta bestia; che sia quella esistenziale di Baudelaire o Kierkegaard, nostalgica di un Califano o asfissiante ma superficiale di un ragazzo di periferia dopo pranzo con 40 gradi e senza campionato, rimane una brutta bestia. Il punto non è tanto evitarla, o non giungere mai a provarla, quanto piuttosto esperirla e soddisfarla con stimoli nuovi (mentirei se dicessi che non siamo nati un po’ anche per questo). Ma parliamoci chiaro, senza giri di parole: per quanto la noia sia una forza motrice del mondo noi siamo scesi in campo soprattutto per colmare un vuoto, che non è quello della filosofia bensì quello ancora più sterminato del giornalismo sportivo. Sapete dirmi voi, ad oggi, chi fa il mestiere del giornalista sportivo, nel senso più nobile del termine? Quasi sempre chi affronta con più professionalità i “nostri” temi è addirittura estraneo al mondo della narrazione sportiva in senso stretto, essendo invece un giornalista prestato al calcio o allo sport in generale, uno che ci arriva insomma per altre vie. E così le inchieste sui cinesi non le conducono le grandi Pay Tv – giustamente non interessa loro fare inchiesta, vedendo un prodotto e dovendo confezionarlo nel miglior modo possibile – né i grandi giornali sportivi, sempre attenti a non pestare i piedi a gente che non vuole essere disturbata, in un intreccio di rapporti poco chiari, conflitti di interessi e lunghe mani. Spesso il giornalista sportivo si riduce oggi a fare da megafono, senza nemmeno l’attendibilità dell’ANSA; e così i colleghi a loro volta agiscono da megafoni del primo megafono, non domandandosi da chi la fonte abbia ricevuto la notizia né come l’abbia ottenuta. Questa esemplificazione riflette gran parte dell’informazione sportiva, ma se passiamo al campo dell’analisi il quadro non migliora, anzi; l’approfondimento tratta in genere di tattica fino allo sfinimento, analizzando ogni minimo e microscopico aspetto del gioco ma non interrogandosi mai su dove questo gioco stia andando, e su chi lo stia dirigendo.
“Il calcio è cambiato in modo sconvolgente. A partire dagli anni Novanta esso è stato attraversato da una netta svolta modernizzatrice che ha trasformato uno sport dalla radice fortemente ludica in un fenomeno dall’elevato profilo industriale. La mutazione genetica da rito collettivo animatore di passione popolare a complesso d’attività altamente razionalizzate e finalizzate alla produzione di utilità è collettivamente percepita, oltreché generalmente vissuta, come un arretramento qualitativo e sentimentale rispetto alla versione originaria del gioco” (Pippo Russo)
Così si vedono scene di centinaia di tifosi milanisti festanti per decine di acquisti, ma nessuno preoccupato circa il magico sblocco dei capitali da parte dei cinesi che avevano fatto diventare il closing una sorta di barzelletta. Nessuno che si chieda cosa succederà se questi stessi cinesi non salderanno il debito di 303 milioni con il fondo americano Elliottentro Ottobre 2018, stipulato con un tasso di interesse che definire usuraio sarebbe eufemistico (d’altronde Elliott è un hedge fund, che vive e lavora a fini speculativi). A quel punto il Milan mandarino finirebbe zampe all’aria ed Elliott non andrebbe a rivalersi sui cinesi stessi, ma acquisirebbe interamente il club potendo poi disporne come meglio crede, dallo spacchettamento alla rivendita alla gestione indiretta. Ma che importa di tutto ciò, l’importante è avere i top players! Che poi la proprietà passi dai cinesi agli americani, in una successione di squali del capitalismo finanziario e trans-nazionale, o che i soldi per il suddetto closing non arrivino dalla Cina ma da un fondo statunitense che fa della speculazione il suo mestiere, al momento non interessa a nessuno. Così come non interessava alle migliaia di tifosi romanisti giunti a Fiumicino ad accogliere Dzeko – non Messi, roba dell’Inter/Milan, ma Edin Dzeko – che la nuova proprietà si stesse interessando ai giocatori solo in quanto funzionali al progetto stadio, e dunque a non scontentarli prima della realizzazione della nuova Arena a stelle e strisce, una crociata messianica di civiltà decisiva per il futuro del calcio romano. Gli Americani insomma hanno liberato Roma una prima volta nel 1945, una seconda nel 2011.
Passi la presentazione di Pellegrini che giocava alla Play Station, ma l’annuncio di Defrel è la classica americanata che rasenta il ridicolo
Adesso perdonerete forse l’eccessivo sarcasmo di cui sopra, ma i mercanti sono entrati irrimediabilmente anche nel tempio del calcio, e un po’ ci girano i coglioni per questo. Ciò non significa che faremo le barricate contro un processo storico inevitabile, né che intendiamo combattere la corrente del fiume o lottare contro i mulini a vento; significa però che vogliamo tirarci fuori dal loro gioco, ovvero il farci credere che il calcio si esaurisca in quel che avviene nel rettangolo verde. Ebbene ci dispiace smentirvi ma, con buona pace dei cultori della tattica, servi sciocchi e ignari della deriva nichilista del calcio contemporaneo, questo gioco non si è mai limitato né mai si limiterà unicamente ai fatti di campo.
“Il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco” (Simon Kuper)
Che poi, in effetti, fosse solo il futbol.Tanti altri sport sono diventati obiettivo mirato di speculatori travestiti da uomini d’affari, condividendo il destino di divenire strumenti nelle mani di Capitani di Ventura della finanza, se non di veri e propri Stati nazionali (credete forse che dietro agli investitori cinesi non ci sia il governo di Pechino? Tutto ciò è stato accertato, da diverse inchieste ovviamente non pervenute dal mondo del giornalismo sportivo in senso stretto). Anzi che proprio in questi giorni Re Roger VIII ha messo il suo ennesimo sigillo nei verdi prati della regina, che ci hanno ricordato di come si possa far coesistere la tradizione con il progresso. L’All England Club è da questo punto di vista un’oasi felice, o in termini più apocalittici il katèchon che argina la venuta dell’Anticristo. Un luogo incantato dove tutti sono tenuti a rispettare il dress code – rigorosamente in bianco – e dove persino un Nadal in canotta appariva fuori contesto, figurarsi un coatto come Kyrgios o tanti di questi millennials cresciuti nella società liquida (gli stessi che a proposito di Inghilterra hanno votato contro la Brexit, e per fortuna sono stati praticamente solo loro e i cittadini delle grandi metropoli, matricole in serie del Progresso). Nell’edizione di due anni or sono ad esempio Lewis Hamilton – non l’ultimo arrivato – si presentò al Royal Box con camicia floreale e cappellino: ebbene, non fu fatto entrare. Ma tralasciando l’eccezione, la regola dice che anche il tennis così come la Formula 1, il MotoGp e tanti altri sport sta diventando un mondo che non ragiona più in termini di passione bensì per logiche finanziarie (avremmo accettato la via di mezzo delle logiche economiche). Il modello americano ha aggredito e svuotato pian piano il Vecchio Continente, senza possibilità di reazione: l’attacco congiunto tra i nuovi ricchi speculatori e la propaganda dello spettacolo spettacolarizzato ha inevitabilmente condannato a morte lo sport per come lo conoscevamo.
Al di là delle solite frasi retoriche sull’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, certamente lo sport esprime l’ultimo grande momento comunitario di un’epoca che si è liberata di dei, ideologie, santi ed eroi. Il problema è che pero un’ideologia resiste ancora ma è quella calata dall’alto, piegata alle esigenze di una propaganda che si infila sottopelle: dalla retorica del top player a quella dello show, dall’esaltazione del singolo alla proposizione di modelli studiati a tavolino, precarizzati e privi di identità. Il giovane odierno altro non è di base che un coacerbo di pubblicità, il cui immaginario è colonizzato da immagini fluide e semplici. Non tanto viene trasmessa la leggerezza quanto l’impossibilità di approfondire: è il paradosso dell’individualismo contemporaneo costruito su basi di argilla e senza retroterra (i social network in questo senso rappresentano il degno compimento di un processo, lo strumento che finisce per impiegare chi lo utilizza, ridotto ormai ad essere impiegato del meccanismo e quindi di un linguaggio e di un pensiero da 140 caratteri). Ebbene molte di queste valutazioni ci hanno portato a fondare Contrasti; ci siamo soprattutto proposti di riprendere l’elemento originario del gioco, di tornare a casa nel pallone e, quando ciò non si fosse rivelato possibile, almeno di indagare, approfondire.
“Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio” (Albert Camus)
Ribellarci allo Zeitgeist senza sparate da bar contro il calcio moderno, ma diventando noi stessi giornalisti sportivi partendo dal basso, con tanta passione ed altrettanta umiltà. Questo comportava innanzitutto assimilare il metodo, basato su una ricerca bibliografica che partisse dal cartaceo per finire con i siti sportivi esteri (e lo diciamo da italianissimi anti-esterofili, ma spesso negli altri Paesi i giornalisti sportivi fanno il proprio lavoro decisamente meglio che da noi). Ci è voluto tempo per definire un’identità, ma siamo pronti alla nostra rivoluzione; abbiamo formato un gruppo di redazione stimolato e stimolante – che è forse il risultato migliore di questi sette mesi di “lavoro” – con l’obiettivo di sostituire alla propaganda la narrazione e l’approfondimento, per quanto possa risultare difficile. Nell’epoca in cui vi offrono unicamente di diventare consumatori, noi vi proponiamo una battaglia senza quartiere al nulla che avanza: unitevi a noi invece di ingrossare le schiere dei fatalisti! Se proprio amate lo sport nella sua globalità e nelle sue origini, vivete insieme a noi di sogni infranti. Senza nostalgia, ma senza neanche farci intossicare da una visione claustrofobica del mondo e dello sport. Saremo un movimento di opinione che nell’epoca del nichilismo finale si prepara a pensare e a lottare, ad arrivare a più persone possibili, a portare avanti una narrazione da un differente e più naturale punto di vista. Chiudiamo quindi la stagione con una chiamata alle armi indirizzata a tutti voi: avremo bisogno di una redazione ribelle, istruita, agitata ed organizzata. Non tutto è perduto e alla lunga avremo ragione noi, generazione maledetta che dal suo vuoto tirerà fuori nuove forme.