Il calciomercato ai tempi del realismo capitalista.
Il sogno è un’illusione, chimera passeggera. Inconsistente eppure tangibile. Come il calcio d’agosto, come il calciomercato. O meglio: come era il calciomercato, prima che ce lo facessimo portare via dai risultati della crisi economica permanente in cui viviamo dal 2008. E non parlo degli effetti sull’economia reale, cioè dei milioni che mancano alle squadre del nostro campionato per comprare campioni, ma delle conseguenze sulla nostra percezione, malata, per cui tutto è innanzitutto una-questione-di-economia e necessariamente su ogni cosa il primo discorso da fare è legato ai soldi, ai bilanci.
Questa idea per cui la freddezza dei numeri è preferibile alla febbre del sentimento ci racconta una società che si è lasciata depredare della propria fantasia, che ha preferito i grafici sulla rassicurante (e brutta) quantità alle liriche sull’inquietante (e bella) qualità. E se questo può avere ancora un senso nelle cose della vita, anche se ne potremmo discutere, nel gioco, nelle cose che riguardano lo Homo ludens, nel calcio quindi, questo è davvero un abominio. Ma di chi è la colpa? Ora ci arrivo – ma prima un chiarimento.
Non si tratta, qui, di un inno al passatismo che strizza l’occhio, magari per qualche operazione di marketing, ai Peter Pan di ogni età – e neanche del colpo di coda di una retroguardia nostalgica che sogna il ritorno in auge dell’Italia attraverso la Serie A. Niente a che vedere, per esempio, con la retorica da boom economico, macchina in fila sull’Autosole e Cornetto Algida; o con la narrazione da anni Novanta, capelli ingelati e Festivalbar. Parlo, al contrario, di una mancanza più abissale a causa della castrazione che il tifoso di calcio italiano ha subito ingiustamente senza neanche accorgersene e, per la quale, bisogna cercare rimedio per vivere questo gioco non come si vive la vita ordinaria – ma sognando.
Cioè, appunto, giocando.
Il calcio è otium non negotium– che è la sua negazione; è la ricreazione, non sono le ore di lezione. E il suo tifoso è trascinato nel refrain di analisi economiche che non solo non capisce, ma che spesso non capisce neanche chi le riporta. Scosso, destato, tirato giù dal letto nello stato più bello in cui ci si può trovare: il dormiveglia estivo della speranza.
Il sogno è qualcosa di profondamente radicato, di costitutivo – eppure scarseggia. Oggi viene meno il tentativo di andare oltre, di migliorare la propria condizione attuale attraverso una costruzione inconscia, abbandonata al desiderio. “Quelli che sognano a occhi aperti conoscono molte cose che sfuggono a chi sogna addormentato”, diceva Edgar Allan Poe. E al di là della retorica, è proprio questo il punto: del sogno come fantasticheria creatrice, che aiuta a trovare soluzioni, a capire meglio la realtà, è stato privato il tifoso. E la fantasticheria non solo è importante per giocare, ma addirittura fonda il gioco.
Senza questo elan vital niente è possibile nello sport. E non sarebbe bello giocarlo, se non in una prospettiva di rendita lavorativa, e non sarebbe bello guardarlo (o almeno non di più di fissare le variazioni azionarie della borsa in diretta). Già l’idea di capirci qualcosa del calcio, e della vita, solo attraverso la cultura è qualcosa di limitante – figuriamoci quando la cultura si limita all’informazione economica. Eppure questa è la condizione cui l’economizzazione sfrenata ci ha portato – regalando al mondo del calcio, tra l’altro, una nuova figura professionale: l’esperto di bilanci.
Giornalista, con o senza patentino, comunque in gran parte privo della capacità di spiegare bene faccende complesse come quelle finanziarie (a volte anche di comprenderle), con la sua falce devasta la beatitudine dell’utopia estiva. Lui è il becchino davanti al quale fare scongiuri. Legge numeri senza capirli e con questi detta legge senza mai andare oltre. E così indottrina tifosi che pensano di diventare esperti attraverso i mass media, non sapendo che proprio quello è il luogo in cui il gufo ha fatto il nido.
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meglio di Contrasti.
Facciamo l’esempio della Roma. Le ultime settimane hanno coinciso con l’indiscrezione de Il Romanista secondo cui, controintuitivamente, la Roma dovrebbe investire molto ancora sul mercato perché sarà costretta, a giugno del 2026, a creare 100 milioni di plusvalenza per rispettare il Fair Play Finanziario. Quindi: comprare molto per poter vendere di più (e bene). L’articolo di Daniele Lo Monaco, che ha fatto e ancora fa il giro del mondo romanista, ha scatenato un profluvio di risposte, commenti inappropriati, sentenze di tifosi convinti di capire la gestione di una grande azienda grazie a due o tre link su internet e di interviste a esperti del settore economico, tutti grandi ‘esperti di bilancio’ – che in parte confermano, in parte smentiscono le disastrose prospettive disegnate dal giornalista.
Bene, bravo, bis. Risultato raggiunto. Eppure, il pezzo di Lo Monaco ha due problemi: uno tecnico, perché fa solo un accenno indistinto a chi ha creato questa difficoltà di bilancio che attenta alla vita della Roma, non indica davvero i responsabili e le cause, non punta il dito (cosa, invece, essenziale – perché comprendere bene le cause di un disastro è fondamentale per evitarne un altro in futuro); l’altro quasi metafisico, perché è una mannaia sul sogno: “è giusto che i tifosi sappiano che ci sarà comunque da soffrire e che presto o tardi qualche partenza non preventivata bisognerà accettarla”. Seppure fosse vera – rimane un tipo di narrazione terribile.
Per carità, il richiamo alla realtà dei fatti, il passaggio dal bello al vero, è cosa sana nella vita di tutti i giorni. Ma a forza di trattare il calcio con adultità abbiamo scambiato la causa con l’effetto. Ci dispiace che il calcio sia diventato industria, algoritmo e borsa, strategia aziendale e grigiosità, che quando si parla di ‘rigore’, nel calcio, si pensi sempre più alle lacrime e sangue di montiana memoria e sempre meno agli undici metri, che il pallone non sia più solo un gioco e, in una parola, che sia diventato berlusconianamente moderno – eppure noi stessi per primi abbiamo smesso di trattarlo come un gioco.
Un libro che ci sentiamo di consigliare a tutti, sul gioco come fondamento della società
Ma non è che (ecco l’effetto che si rivela causa) a forza di non trattarlo come un gioco, il calcio ha smesso di esserlo? Un gioco è cosa seria, non c’è bisogno di attaccarci sopra discorsi apparentemente maturi per nobilitarlo. Un gioco è già nobile di per sé. Il tifoso ha dimenticato che il succo del calcio è primariamente infantile. Chi si occupa poeticamente del pallone viene compatito se non deriso, additato come un simpatico fanatico, un fenomeno da circo. Viene trattato, appunto, come chi non ha mai letto poesia tratta i poeti – osservati come allo zoo, creature strane, belle solo se rimangono dietro le sbarre.
Ma il fatto che i siti di calcio siano pieni di discorsi economici, presi come prolegomeni di un neo-calcio, non vale solo per il giallorossi.
Ormai tutti i tifosi sono devoti ai mantra di ‘Calcio e Finanza’, testata giornalistica nata nel 2013, legata al ‘Il Sole 24 Ore’, che si occupa di sport industry mettendo insieme, come il nome spiega molto efficacemente, pallone ed economia (sì, sto usando inappropriatamente ‘finanza’ ed ‘economia’ come sinonimi). Ma i meritevolissimi giornalisti diretti da Luciano Mondellini, che sanno di essere “una guida per il grande pubblico di tifosi e appassionati, sempre più attenti agli aspetti economici e finanziari del calcio e dello sport”, sanno altrettanto bene che la finanza non solo è una parte del mondo del calcio – ma anche un mondo a parte nel calcio.
Nel senso che è difficile, che non può essere presa à la carte, e soprattutto non completa lo sfaccettato panorama del pallone. I tifosi, al contrario, davvero vittime dell’economizzazione del mondo intero, sono diventati aridi analisti che non vedono più al di là delle cose, oltre il dato. Dimenticano la bellissima variabile del caso che si mescola a tutto il resto. Scordano che, come detto già da Roger Caillos nel 1967, nello sport si mescolano, oltre all’agon, la competizione, oltre al ludus, la regolamentazione, oltre alla mimicry, l’imitazione – anche l’alea, l’azzardo, l’ilinx, la vertigine, la paidia, la spontaneità. E che tutta questa complessità non è risolta affatto nell’economia.
Non ricordano più che nel calcio un tiro sbagliato può trasformarsi in un gol proprio perché è sbagliato, ciccato, fatto male – perché diventa imprevedibilmente bello. E questo perché il calcio è una cosa seria, serissima come solo il gioco sa essere, eppure anche infantile, straordinariamente legata a una delle parti di noi che devono sempre essere preservate – quella, appunto, fanciullesca. I neo-tifosi, invece, seguendo pedissequamente gli slogan brutali dell’economia, assolutizzandoli, hanno abbandonato il sogno bambinesco anche nel momento dell’anno in cui sarebbe naturale lasciarsi andare all’illusione: il calciomercato. Per il nostro bene, sarà meglio riappropriarcene, e di corsa.