Altri Sport
15 Luglio 2024

Alcaraz ci ha mostrato il futuro

Carlitos ha vinto, dominando, il suo secondo titolo a Wimbledon.

Esattamente dodici mesi fa, Carlos Alcaraz alzava le braccia al cielo sul Centre Court di Wimbledon dopo una battaglia di 4 ore e 42 minuti, assicurandosi per la prima volta il trofeo più importante del mondo della racchetta. Lo faceva contro Novak Djokovic, il tennista più vincente di sempre, a caccia dell’ennesimo record (l’aggancio a Federer per numero di Championships vinti, quota 8) e imbattuto da 45 partite sui prati di Sua Maestà. Così, nella rivincita andata in scena ieri, quando abbiamo assistito a un primo game di gioco durato 14 minuti, 7 parità e 5 palle break, tutti abbiamo fatto scoppiettare i pop corn, pronti ad assistere a un nuovo Blockbuster di questo sport.

Invece, quanto è incredibile questo sport, quel primo game drama è stato l’unico sussulto di una finale a senso unico. Carlos Alcaraz ha dominato il serbo, come raramente era successo in una finale slam, senza mai concedergli realmente l’occasione di entrare in partita. Una situazione che può trovare delle analogie alla finale persa da Djokovic nel 2021 contro Medvedev, quando Nole non seppe reggere emotivamente l’appuntamento con la storia apparecchiato a New York, in cui fu distante solo 3 set da completare il Grande Slam, forse l’impresa sportiva più difficile di tutte. Una debacle più netta si ricorda solo a Parigi, ma per mano di un Nadal inavvicinabile su quella superficie, e quindi tecnicamente comprensibile.

Qui nessuna delle componenti in gioco, né quella emotiva, né quella tecnica potevano giustificare quello cui si è assistito nel pomeriggio londinese. Ci potevano essere piuttosto delle incertezze relative alla tenuta fisica del serbo, in grado di giocare una finale ai Championships dopo appena 35 giorni da un intervento subito in seguito alla lesione del menisco del ginocchio destro. Eppure la tenuta fisica è sembrata, non solo ieri, ma nel corso di tutto il torneo, praticamente ottimale. Nole non è mai apparso in difficoltà nei recuperi in allungo che l’hanno reso celebre, né nelle corse in avanzamento a recuperare le micidiali palle corte marchio di fabbrica del suo avversario.

È invece sembrato spaesato proprio nel suo terreno di conquista. Quel gioco psicologico di equilibri che orientano solitamente le partite di tennis in una direzione, spesso in quella di Djokovic. Ha subito dall’inizio l’esuberanza tecnica dello spagnolo, non riuscendo a imbastire contromisure. Si è mostrato frastornato dalla varietà di colpi di un giocatore che non ha più il rispetto verso autorità dell’avversario e non si è fatto scrupoli ad attingere a piene mani alla riserva infinita di talento che possiede. Ci aspettavamo almeno un urlaccio, una diatriba dialettica con qualche malcapitato nel pubblico. Abbiamo atteso con ansia di vedere volare le fibre della sua racchetta in giro per il campo, come l’anno scorso quando in finale compì l’oltraggio di schiantarla contro i pali di legno sacri a sostegno della rete.

Niente, nulla di tutto ciò. Anzi, negli ultimi game del match, il serbo è parso addirittura sbrigativo nelle pause, quasi a volersi liberare di quella finale e voler andarsene quanto prima da quell’erba che l’ha visto trionfare ben sette volte. Nemmeno quando il braccio dello spagnolo ha tremato, sciupando 3 match point consecutivi, abbiamo visto lo scintillio negli occhi di Nole, l’odore del sangue che tolse dalla racchetta di Federer il nono titolo a Wimbledon nel 2019, tanto per ricordarne uno. Anche lì invece, al primo break ottenuto nel momento più critico per il suo avversario, l’elettrocardiogramma è rimasto piatto. A quel punto il the break è stata solo la formalità che ha sancito il terzo e conclusivo set dell’incontro.

Ovviamente non si gioca da soli, e dall’altra parte della rete questa volta il fenomeno Alcaraz si è liberato dalle scorie della sua, breve invero, gioventù e ci ha mostrato il futuro. Lo spagnolo non ha giocato un grande torneo, anzi, è stato a un soffio dall’eliminazione durante la prima settimana. Ma proprio come i campioni di cui, con erronea modestia, dice ancora di non appartenere, il suo livello si è impennato la domenica decisiva. Non ha sbagliato quasi nulla al servizio, si è presentato consapevole e aggressivo negli scambi, tenendo sempre salde le redini dello scambio e non lasciando mai al suo avversario la possibilità di trovare il suo ritmo usuale. Nei pressi della rete mostra una sensibilità rara anche per un doppista e pesca colpi che sembrano usciti da un’era in cui la parte consumata dell’erba stava nei pressi della T e non a fondo campo.

Viene da pensare che anche il migliore Djokovic di questi anni avrebbe fatto fatica a vincere contro il tennis unico di Carlitos, ma l’arrendevolezza mostrata sui prati di Church Road, ci fa chiedere se questa possa essere la svolta verso la via del tramonto che pareva non dovesse mai arrivare per il serbo. La sua ostinazione e la sua classe ci fanno propendere per una risposta negativa, consci che già ai Giochi di Parigi sarà di nuovo uno degli uomini da battere. Ma il futuro l’abbiamo ammirato ieri, ed è avvisato anche il numero 1 al mondo nelle classifiche computerizzate, ma non in quelle di valore. Perché dopo la doppietta Roland Garros – Wimbledon è chiaro che il giocatore più forte del pianeta è lo spagnolo e Jannik Sinner ora è chiamato a una continuità a livello Slam che in questi anni si è vista solo in Australia. Altrimenti, oltre ai titoli, il sorpasso anche in classifica mondiale sarà solo una questione di tempo. Poco tempo.

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