Il più grande truffatore della storia del calcio inglese.
L’allenatore argentino Cesar Luis Menotti amava definire il gioco del calcio, in estrema sintesi, come il connubio di tre concetti, divenuti capisaldi: “tempo, spazio e inganno”. Proprio l’inganno, l’arte di eludere ed abbindolare, ne rappresenta forse il lato più fascinoso, aspetto che rende il futbol così imponderabile ed etereo. Ma non sempre gli inganni del calcio avvengono dentro al campo di gioco. Non sempre si tratta di una finta disarmante o di un gioco psicologico. A volte, infatti, l’inganno esula dai novanta minuti, distaccandosi ed assumendo la dimensione tragicomica del raggiro. A volte, un raggiro talmente ben architettato da sfociare in vicende epiche, ai confini del mitologico.
Come quella di Ali Dia, il più famoso – dopo Re Giovanni – impostore d’Inghilterra; o, per dirla con i giornali inglesi, il “più grande truffatore della storia del calcio”. Riavvolgiamo il nastro.
È il novembre del 1996 ed il Southampton di Graeme Souness, dopo un inizio stagione negativo, naviga nei bassifondi della Premier League. I Saints hanno bisogno di una scossa, tecnica ed emotiva, per risollevare il morale dell’ambiente. Un giorno lo stesso Souness riceve una telefonata autorevole: è George Weah. Sì, proprio il neo-pallone d’oro, che dopo i convenevoli di rito svela il motivo della telefonata: in veste di referente, Weah propone a Souness di mettere sotto contratto il cugino, tale Ali Dia. A dire di Weah, Dia sarebbe il colpo perfetto per il Southampton: è un centravanti navigato di trent’anni, rapido e molto mobile, che vanta esperienze di caratura come quelle al Paris Saint-Germain e in Bundesliga, oltre che nella Nazionale senegalese.
Souness, alla disperata ricerca di ossigeno per rianimare la classifica, vede nella proposta di Weah una potenziale opportunità e decide di accettare il consiglio. Così, Dia viene ingaggiato con un contratto mensile. Quando si presenta al campo di allenamento di Staplewood è già venerdì, e c’è poco tempo per valutarne la reale tenuta. La partita della squadra riserve contro l’Arsenal viene rimandata a causa di un nubifragio, così Souness, carente di giocatori offensivi, decide di fidarsi del suo istinto e lo convoca in vista dell’importante match casalingo contro il Leeds del giorno dopo.
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Come prevedibile, Dia parte dalla panchina. Ma ecco che al minuto 32’ Matt Le Tissier, leader ed indiscutibile leggenda del club, comincia a lamentare un fastidio muscolare. C’è poco da fare: deve essere sostituito. E indovinate un po’ chi è l’unico attaccante disponibile che può sostituirlo? Proprio lui, Ali Dia, che subentra con il numero 33 sulle spalle, acclamato da un pubblico totalmente ignaro, ma al contempo fiducioso, delle sue qualità.
Certamente esordire sostituendo il giocatore più influente della storia del club non deve essere facile in termini di gestione della pressione e di ricerca di occasioni. Ma il destino sembra avere qualcosa in serbo per Dia. Dopo neanche un minuto dal suo ingresso, ecco che su una ripartenza veloce dei Saints Berkovic si incunea al limite dell’area e apparecchia un pallone perfetto sulla destra, proprio per l’attaccante senegalese, totalmente solo in area. È la sua occasione. Dia colpisce di piatto, neanche in maniera eccessivamente goffa o scoordinata, ma senza la forza sufficiente per battere il portiere, che respinge.
L’azione sfuma e, come un incanto che si rompe, anche l’inganno di Dia finisce per smascherarsi in tutta la sua assurdità. Nei restanti minuti che passa in campo, infatti, Dia farà capire a tutti di essere molto distante non solo dal livello del millantato cugino Weah, ma proprio dal livello di un giocatore professionista. Il tocco di palla rozzo ed impacciato, la totale assenza del senso della posizione, il costante ritardo nel capire dove andrà il pallone: a headless chicken, come dicono gli inglesi, totalmente in balia di se stesso, che girovaga per il campo senza capo né coda.
«Correva per il campo come Bambi sul ghiaccio. È stato molto, molto imbarazzante da guardare. Ci siamo detti: “Cosa sta facendo questo? È senza speranza”».
Matt Le Tissier, nel documentario dedicato
L’imbarazzo inizia a palesarsi inondando lo stadio, fino al punto in cui Souness decide di sostituirlo – da sostituto – con un difensore, chiudendo quella che verrà ribattezzata come “la peggior prestazione della storia della Premier League”. Sarà l’ultima volta in cui i compagni lo vedranno. Infatti, dopo un’altra mezza partita giocata con la squadra riserve contro il Chelsea, improvvisamente Dia scompare, senza nemmeno saldare il conto all’hotel dove soggiornava. Finirà la “carriera” tra i meandri delle serie minori inglesi, segnando appena quattro goal in nove anni, ma con all’attivo quella leggendaria presenza in Premier League.
«Di certo non gli mancava la fiducia. Ricordo di essermi seduto con lui mentre parlava dei suoi giorni al Paris Saint-Germain e di come fosse amico di David Ginola. Un’altra persona del club, che conosceva Ginola, era seduta lì nello stesso momento e lo chiamò. Quando rispose, Ali scappò via. Era ovvio che era molto bravo a raccontare storie!».
Egil Johan Østenstad, ex giocatore del Southampton
Non si saprà mai chi fosse a celarsi dietro quella cornetta, spacciandosi per George Weah e inventando il curriculum di Ali Dia – che, prima di sbarcare al Southampton, aveva giocato una ventina di partite professionistiche in carriera principalmente tra le serie minori francesi, inglesi e finlandesi (prima dei Saints la trionfale esperienza con i Blyth Spartans nella settima serie del calcio inglese, condita da ben una presenza). Certo il dubbio che si trattasse di una truffa avrebbe potuto instillarsi in Souness, considerando che Weah è liberiano e il presunto cugino senegalese. Ma sono simili dettagli a rendere questa storia ancora più romantica, figlia di un contesto d’altri tempi, di una Premier League vintage, lontana anni luce dalla mastodontica macchina da soldi che è ora.
Un contesto dove il mondo non era ancora così interconnesso, in cui truffe di questo tipo erano possibili perché non si poteva googlare, e lo scouting era spesso limitato alla visione di videocassette – o alla sana e vecchia raccomandazione di qualcuno. Un contesto in cui Ali Dia, che nel frattempo si è laureato e lavora in Qatar come businessman, si incastona perfettamente, diventando personaggio di culto. “Ali Dia, is a liar, is a liar”, cantano ironicamente i tifosi dei Saints ancora oggi, quando ripensano a questa vicenda entrata di diritto negli annali della Premier League. Certo più di qualcuno, di certo anche lo stesso Dia, si starà chiedendo cosa sarebbe successo se avesse segnato quell’occasione facile, dopo un minuto dal suo ingresso.
Forse sarebbe cambiato tutto, ancor più probabilmente nulla, magari la storia sarebbe stata ancora più surreale. Anche perché i confini di questa storia, nel racconto popolare che la tramanda, tendono sempre più a sfumare nella leggenda. Perciò qualcuno ogni tanto si impegna per ricordarci che fu tutto vero, come Kelly Naqi. Nel 2016, quest’ultimo andò per Bleacher Report alla ricerca di Ali Dia, fino a giungere a Dieuppeul-Derkle, nella periferia di Dakar. Qui parlò (ovviamente con traduttore al seguito) con amici, parenti, genitori di Ali Dia, e la mamma lo fece anche entrare e accomodare.
«Qualcuno ce l’ha detto (del Southampton, ndr) e poi sono andata su internet e l’ho visto. Ma [Aly] non ce ne ha mai parlato. Ancora adesso non ne parla mai. Non ce l’ha mai detto, non ce ne ha mai parlato. È come se fossimo stati soffocati da questa storia».
Naqi poi non troverà Ali, che però lo contatterà dopo qualche giorno spiegandogli che lui ora è concentrato su altro, che ha grossi lavori per le mani, che ha cambiato vita. E comunque, che lui non ha mai mentito: «Ho la coscienza pulita. Dio sarà il nostro giudice». Forse solo lui potrà spiegare l’incredibile storia di Ali Dia da Dakar.