Italia '90 non è stato il miglior mondiale di Maradona, ma è stato il Mondiale migliore per comprenderne l'essenza.
7 presenze e 0 reti. Va bene che il numero 7 significa raggiungimento della finale, ma la tentazione di parlare di fallimento quando di lavoro fai il miglior calciatore di tutti i tempi è forte. Sì, perché questo è il fatturato di Diego Armando Maradona al Mondiale del 1990. Tuttavia la storia suggerisce una certa cautela nel giudicare l’asso argentino; non solo perché i numeri non potranno mai definire un genio, ma soprattutto perché quando si è al cospetto di un simile illusionista niente è come sembra: ogni riferimento al gol con la mano di quattro anni prima contro l’Inghilterra è assolutamente voluto. Maradona a Italia ’90 non replicò le prestazioni di Messico ’86 per motivi artistici, fisici e ambientali. Come ogni artista che si rispetti anche Diego si uniformò all’orientamento inaugurato da Niccolò Paganini, il celebre violinista che per preservare la vitalità dell’opera d’arte appena realizzata era riluttante alla replica. E allo stesso modo Maradona non aveva nulla da aggiungere rispetto all’arte pedatoria esibita in Messico.
Ma anche se avesse voluto – e in cuor suo voleva –, non avrebbe comunque potuto replicarla. Un problema all’alluce del piede destro, ridotto uno strazio da diversi pestoni subiti nelle amichevoli premondiali, e un infortunio alla caviglia sinistra occorsogli durante il torneo compromisero l’esplosività di un fisico tirato a lucido: fu costretto ad arretrare il suo raggio d’azione, soffocando così la sua propensione al gol. Come se non bastasse, Diego aveva anche esaurito tutti i bonus simpatia garantiti dalle vittorie mancate. Già, fino alla vigilia del mondiale messicano era considerato forte sì, ma un perdente, perciò ‘innocuo’. Ma poi arrivarono in successione la Coppa del Mondo, lo scudetto con il Napoli, la Coppa Uefa e, proprio nel ’90, il secondo scudetto con gli azzurri. Questo palmares tanto inaspettato quanto imperdonabile, sommato alla sua avversione alla diplomazia, fu più che sufficiente a conferirgli in tempi piuttosto rapidi una laurea in pericolosità sociale. Per Maradona e l’Argentina il mondiale italiano si preannunciava durissimo.
Dovranno strapparmela di mano, la Coppa del Mondo.
Non si dovette aspettare molto per avere conferme di questo oscuro presagio. L’8 giugno, allo stadio Giuseppe Meazza di Milano, preceduta da una cerimonia a base di fiori, colori e modelle, e sulle note di “Un’estate italiana”, la sigla ufficiale della manifestazione cantata da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, andò in scena la partita d’inaugurazione di Italia ’90: Argentina-Camerun. Vinsero i leoni indomabili grazie a una rete di Omam Biyik con la complicità del portiere Pumpido, in quella che ancora oggi è considerata una delle più grandi sorprese della storia dei mondiali. Benché fossero state sue le uniche iniziative degne di nota dei campioni del mondo in carica, Maradona non giocò una grande partita; e, cosa ancora più allarmante, ebbe la netta sensazione di non avere in pugno la squadra, che oltre ad essere meno competitiva – senza Valdano e Tata Brown, tra gli altri – rispetto a quella di quattro anni prima sembrava smorta, impaurita e senza mordente. In confronto a questo aspetto i calci e i fischi che pure subì per tutti i novanta minuti – e che promettevano di proseguire per tutto il mondiale – erano dati trascurabili: la squadra veniva prima di tutto.
L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani.
E allora Diego si impegnò per sostituire la sua volontà alla piega negativa che avevano preso gli eventi. Perché se gli arti inferiori erano impossibilitati a produrre creatività a getto continuo, nel resto del corpo c’era qualcosa di eccessivo e inesauribile immune agli infortuni: il carisma. Ovvero quel dono misto a responsabilità che attribuisce agli eletti a capo di una comunità più o meno grande la capacità, attraverso la loro opera, di integrare le qualità mancanti dei seguaci e di far fiorire quelle nascoste. Il primo punto richiedeva il lavoro più gravoso: accantonare la paura per far posto al coraggio, per giunta in tempi così ristretti, era un’impresa titanica. C’era solo un modo: isolare la squadra. Mediante la sua proverbiale incontinenza verbale, Maradona trasformò le conferenze stampa che precedevano e seguivano le partite nel suo mondiale personale. Con la maglia dell’Argentina sempre appiccicata addosso richiamava su di sé tutta l’attenzione mediatica, e sfruttò ogni occasione per esplodere parole al veleno contro tutto e tutti. Il ruolo di nemico pubblico numero uno, nonché di unico responsabile, era tagliato su misura per lui, e in fondo era ben felice di interpretarlo se questo serviva a togliere paura ai compagni. E i risultati di tutto quel provocare non tardarono ad arrivare.
Pur zoppicando, l’Argentina nelle due successive gare – contro URSS e Romania – riuscì a qualificarsi agli ottavi con una vittoria (2-0) e un pareggio (1-1). In entrambe le sfide, giocate al San Paolo di Napoli, Maradona riassaporò l’ebbrezza degli applausi ma non quella dei complimenti: le sue caviglie furono oggetto di attenzioni tutt’altro che amichevoli. Era il prezzo da pagare per essere un fuoriclasse, e Diego negli anni aveva imparato a convivere con quegli attestati di stima. Riuscì comunque a dare tutto se stesso alla causa, ovvero mani e piedi. Già, contro i sovietici si produsse nella versione difensiva della Mano de Dios intercettando con il braccio destro – si era sul punteggio di 0-0 – un colpo di testa da calcio d’angolo destinato a finire in rete: in fondo anche il portiere Goycochea, entrato a freddo per sostituire l’infortunato Pumpido, aveva bisogno di una mano. Mentre contro i romeni tenne una lezione su come vanno calciati gli angoli, facendo recapitare in purezza il pallone sulla testa di Monzon, che non poté esimersi dal marcare il momentaneo vantaggio. Pur tra mille difficoltà gli argentini, trascinati dal loro capitano, a poco a poco cominciarono a ricompattarsi, ma quella qualificazione stentata raggiunta attraverso la porta di servizio – l’albiceleste passò come migliore terza – non poteva essere premiata dal sorteggio per gli ottavi. A Maradona e compagni toccava il Brasile.
Sono pronto a prendermi i fischi di Torino e tutto il resto. Ormai siamo arrivati ai limiti della maleducazione, è stato messo anche in dubbio il mio infortunio. Ecco qua la mia caviglia: potete vederla tutti. Però, claro, tutti preferiscono parlare del pallone che ho tirato fuori con la mano contro l’Unione Sovietica piuttosto che della gomitata di Murray, preferiscono dire che la mia lesione è inventata piuttosto che riconoscere che nel Mondiale del Fair Play i camerunesi ci hanno massacrato di calci tutto il tempo. Certe volte credo che mi vogliano colpevole ad ogni costo.
Teatro della madre di tutte le partite era lo stadio Delle Alpi di Torino, un impianto costruito per tenere la gente lontana dal campo e che rappresentava il manifesto del fallimento di Italia ’90 sotto il profilo infrastrutturale. Ma nonostante l’autostrada a dieci corsie che separava le tribune dal terreno di gioco, i fischi raggiunsero ugualmente le orecchie degli argentini. Che per la verità iniziarono a fischiare anche per colpa dei brasiliani, i quali avevano tutta l’intenzione di confermare i favori del pronostico e fare un sol boccone degli odiati rivali. Careca e compagni colpirono ben tre legni e si divorarono occasioni colossali, con gli uomini di Bilardo che in pochi minuti ripiombarono nella paura gettando alle ortiche i progressi che pure avevano fatto. Urgeva ancora una volta l’intervento di Maradona. Un Maradona che era stato in dubbio fino all’ultimo, e che per via del gonfiore alla caviglia sinistra fu costretto a giocare infiltrato. Poco male. Per battere il Brasile era disposto a tutto, persino a violare il patto tra artisti stipulato idealmente con Paganini. Ricordate il violinista che “non ripete”? Bene. Quella storia ebbe luogo proprio a Torino, nel 1818, al Teatro Carignano. Nella città in cui non erano ammesse repliche, Maradona a dieci minuti dal termine si prese gioco delle tradizioni locali e seguitò ad effettuare un rimando all’arte calcistica già mostrata in Messico.
Ricevuta palla nel cerchio di centrocampo prima colse di sorpresa Alemao – compagno di squadra nel Napoli e fino a quel momento suo marcatore di successo –, dopodiché in accelerazione costante infilzò come una lama nel cuore tutto il centro-sinistra del Brasile. Le maglie gialle erano in balìa del numero 10 argentino tornato improvvisamente ai fasti di Messico ’86, e nel vano tentativo di arginarlo commisero l’errore fatale di non seguire il taglio di Caniggia verso il lato destro ormai sgombro di uomini. Diego quasi in scivolata riuscì a servire – con il piede destro – il numero 8 mettendolo a tu per tu con Taffarel, e, carponi, lo guidò con lo sguardo affinché completasse il lavoro. Claudio, orgoglioso dell’investitura, con freddezza scartò l’estremo difensore verdeoro verso sinistra e depositò in rete il pallone che decise il match. Quel gol confezionato ad arte non solo qualificò l’Argentina ai quarti di finale, ma ebbe l’effetto di galvanizzare tutto l’ambiente albiceleste. Il coraggio prese possesso dello spazio lasciato libero dalla paura; i giocatori argentini adesso credevano nelle loro possibilità di vincere il Mondiale. Per la prima volta dall’inizio del torneo si sentivano una squadra vera, che sapeva soffrire ma anche far male.
Un po’ per la fiducia riposta nei compagni rinsaviti, un po’ per gli acciacchi che lo tormentavano ormai da un mese, il 30 giugno a Firenze contro la Jugoslavia (l’ultima Nazionale prima della dissoluzione) Maradona tirò il fiato. Contro gli slavi disputò la sua peggiore partita del mondiale, non prima però di aver subito i soliti ‘attestati di stima’ e procurato, al minuto 31, l’espulsione di Sabanadzovic. Quel cartellino rosso riequilibrò le forze in campo, dal momento che la compagine slava per cifra tecnica era superiore alla rappresentativa sudamericana. Basti pensare a giocatori affermati come Stojkovic, Prosinecki, Katanec e Hadzibegic, e a stelle nascenti quali Savicevic, Boksic e Suker, senza contare che il giovane Boban non prese parte alla spedizione in Italia per via della squalifica di 6 mesi comminatagli per i noti e drammatici fatti del 13 maggio allo stadio Maksimir di Zagabria. Una partita equilibrata, seppur con l’Argentina in superiorità numerica per ben 90 minuti, compresi i due tempi supplementari, non poteva che essere decisa ai calci di rigore. Per Maradona quello fu il momento del raccolto.
Quegli stessi compagni che aveva trascinato fin lì – in campo e fuori – contro tutte le avversità, si strinsero attorno al loro capitano sostenendolo in una situazione in cui era lui ad aver bisogno del loro aiuto. Perché la brutta esibizione di Diego fu certificata dal suo errore dagli 11 metri. Quando si presentò sul dischetto, manco a dirlo, fu subissato dai fischi. Ma ormai c’aveva fatto il callo, per cui prese la rincorsa tranquillo come sempre. Nel momento in cui stava per calciare però accadde qualcosa. Si ricordò che il portiere Ivkovic gli aveva parato un rigore in un Napoli-Sporting Lisbona della Coppa Uefa 1989-90 (alla fine passarono gli azzurri, ndr.) tuffandosi alla sua sinistra (alla destra di chi calcia), che poi era il lato preferito da Maradona. Così, con questo pensiero fastidioso nella testa, Diego cambiò decisione proprio all’ultimo istante optando per il lato opposto. Ma deviare con efficacia dall’idea iniziale era un azzardo anche per un asso come lui: gli uscì fuori un appoggio moscio e centrale raccolto con facilità da Ivkovic, che passò alla storia come il portiere che parò due rigori a Maradona. Sebbene non avesse segnato la Fiorentina, quella parata venne salutata dal Franchi con un boato che acuì la disperazione del pibe de oro, il quale mentre faceva ritorno a centrocampo incrociò Goycochea. Il numero 12 argentino, memore della mano che gli tese Diego contro l’URSS, rassicurò il capitano promettendogli che ne avrebbe parati due. E fu di parola. A farne le spese furono Brnovic e Hadzibegic, i cui errori resero ad un tempo vana la realizzazione del giovane Savicevic e decisiva la segnatura di Dezotti. Maradona poteva esultare. La sua incertezza dal dischetto non pregiudicò la qualificazione dell’Argentina alla semifinale, mentre la Jugoslavia forse perse l’ultima occasione per non implodere.
Mi disgusta che ora tutti chiedano ai napoletani di essere italiani e di tifare contro la Selecciòn. Napoli è stata sempre emarginata dal resto d’Italia, l’hanno condannata al razzismo più ingiusto.
Il 3 luglio, allo stadio San Paolo di Napoli, si giocò Italia-Argentina, una sfida che in realtà iniziò molto prima. Così come in campo mirava a rubare il tempo ai difensori, allo stesso modo Maradona amava giocare d’anticipo in sala stampa, altro suo terreno d’elezione. In una sorta di populismo ante litteramDiego richiamò all’ordine il popolo napoletano, la sua gente, spendendosi affinché non fischiasse l’inno argentino, diversamente da quanto era successo negli altri stadi. Questa almeno era l’interpretazione ufficiale; ma Diego non si accontentava del rispetto – sapeva bene che ne avrebbe ricevuto a volontà –, ambiva ad avere il tifo a favore. Senza troppi giri di parole aveva ricordato ai napoletani il loro stato di emarginazione rispetto al resto della penisola. Già, per battere l’Italia delle notti magiche trascinata dalle prodezze di Totò Schillaci e Roberto Baggio occorreva un elemento esterno che colmasse il divario tecnico: gli azzurri, insieme alla Germania, avevano espresso il miglior calcio e puntavano dritti alla Coppa.
Quella macchinazione psicologica collocò la persona di Maradona al centro di un rapporto inverso tra il gradimento dei napoletani e quello del resto d’Italia, peraltro già ai minimi storici. Ma la partita si giocava a Napoli, alle conseguenze delle sue dichiarazioni avrebbe pensato in un secondo momento. Ancora oggi non è dato sapere quanti partenopei portò dalla sua parte, certo è che Diego sfruttò tutte le occasioni che aveva a disposizione facendo ricorso anche al linguaggio del corpo. Le squadre guadagnarono il terreno di gioco attraverso il tunnel ubicato sotto la curva B, e mentre raggiungevano il centro del campo, Diego, che nella mano sinistra stringeva il gagliardetto dell’AFA, alzò il pugno destro in una sorta di mini-esultanza come a dire: “lo so che siete con me.” Non solo. Durante l’esecuzione dell’inno argentino, accertatosi di essere inquadrato dalla telecamera, accompagnò con cenni di gratitudine misti a fierezza gli applausi del pubblico provando allo stesso tempo a persuadere gli ultimi indecisi. Il suo sguardo di sfida andava ben oltre gli spalti, mirava a seminare conflittualità all’interno delle case degli italiani. Che erano affollate come non mai, basti pensare che con 27 milioni di telespettatori ed uno share pari all’87% Italia-Argentina del ’90 è ancora oggil’evento più seguito della storia della televisione italiana.
La situazione ideale per uno come Maradona, abile com’era a far sì che il corso degli eventi si piegasse alla sua volontà. Quanti più erano gli occhi puntati su di lui, nel bene e nel male, tanto più aveva la possibilità di decidere. Il match non era ancora iniziato, ma l’Argentina pareva messa bene. La partita fu molto simile a quelle precedenti, ovvero con gli argentini sul piano del gioco inferiori agli avversari. Ma ormai i sudamericani erano una squadra che aveva i suoi punti di forza nella consapevolezza dei propri limiti e nella pazienza. Maradona giocò da centromediano metodista pronto a smistare palloni e a dare un contributo a chiunque ne avesse bisogno, non disdegnando il gioco di rimessa e la conquista di falli utili.
L’ambiente non ostile che era riuscito a creare e la sicurezza che irradiava fece sì che i compagni non si perdessero d’animo dopo il vantaggio di Schillaci, e il pareggio di Caniggia nella ripresa – su uscita a vuoto di Zenga – ne fu la prova. Gli azzurri ebbero le occasioni migliori anche nei tempi supplementari, tuttavia scontarono un po’ di brillantezza anche a causa dell’atteggiamento ostico degli argentini, che puntavano chiaramente ai calci di rigore. Che ottennero. Stavolta Diego non fallì dagli 11 di metri, e anzi realizzò il rigore decisivo. L’errore con la Jugoslavia non aveva alterato il suo approccio all’esecuzione dal dischetto. Spiazzò Zenga con il solito rasoterra tanto lento quanto imparabile, con la palla che andò ad insaccarsi senza che il manto erboso se ne accorgesse. Al resto pensò il Goyco, intercettando i rigori di Donadoni e Serena. L’Italia era eliminata, l’Argentina era la prima finalista del Mondiale, una prospettiva impensabile solo quindici giorni prima e che proprio per questo mandò in estasi Maradona e compagni.
Cominciammo a correre come pazzi, abbracciandoci. Andai verso lo spogliatoio imboccando quel tunnel che conoscevo così bene, alzando il braccio e salutando la tribuna: mi risposero con un applauso. Giunto sulla scala, mi appoggiai al Profe Echeverria e mi baciai la maglia: “Ti amo! Ti amo!”, le gridavo appallottolandola.
Anche la Germania Ovest passò ai calci di rigore – a Torino contro l’Inghilterra –, così l’8 luglio allo stadio Olimpico di Roma era in programma la replica della finale di quattro anni prima in Messico. Ma anche questa sfida iniziò a giocarsi con qualche giorno d’anticipo. Il conto che Maradona aveva in sospeso con gli italiani arrivò puntuale e salato, ma non tutto insieme: in più tranche. Il primo assaggio fu offerto dai wantedposter travestiti da giornali che il giorno seguente l’eliminazione dell’Italia esibivano a caratteri cubitali titoli del tipo: “Maradona è il diavolo”. L’odio che permeava la marcia di avvicinamento alla finale era davvero palpabile, al punto da sospendere la civiltà. La mattina del 6 luglio, a Trigoria, nel centro sportivo che ospitava i sudamericani, sul pennone che prima sosteneva la bandiera argentina, adesso non vi era che qualche lembo: era stata strappata.
La cosa mandò su tutte le furie Maradona, che per manifestare la sua rabbia organizzò appositamente una conferenza stampa al limite dell’incidente diplomatico: era convinto, Diego, che il responsabile di quel gesto fosse qualcuno dall’interno, della Roma, e non perse l’occasione di rincarare la dose denunciando il clima ostile che accompagnava i sudamericani sin dal loro insediamento al Fulvio Bernardini. Coerentemente con le premesse l’odio verso gli argentini raggiunse il suo apice proprio nella finale, in particolare durante l’esecuzione dell’inno, che più delle altre volte – se possibile – venne violentato dai fischi. Stavolta gli sguardi amici erano pressoché inesistenti, Maradona e i suoi avevano la sensazione di stare per giocare contro 80.000 persone. Ma Diego reagì trovando un alleato nella tecnologia, che per pochi secondi ristabilì la parità numerica: appena si accertò che il suo volto fosse proiettato sul maxischermo con un labiale inequivocabile sferrò la sua controffensiva: “Hijos de puta.” E per scongiurare possibili fraintendimenti lo ripeté ancora una volta: “Hijos de puta.” Ora che tutti avevano recepito il suo messaggio, era pronto a sfidare la Germania.
Quasi da solo e con la caviglia malandata. Perché al di là delle ostilità, gli argentini affrontarono i tedeschi senza gli squalificati Giusti, Olarticoechea, Batista e soprattutto Caniggia, il fido scudiero di Maradona; mentre Beckenbauer poteva contare su tutti gli effettivi, a cominciare dal leader Matthaus: per l’albiceleste le premesse tecniche erano quasi peggiori di quelle ambientali. La partita passò alla storia come la finale più brutta di sempre. Pur producendo un grosso volume di gioco i tedeschi non impensierirono mai Goycochea, creando molti pericoli sì, ma potenziali. Dal canto loro gli argentini, pur battendosi degnamente, si tennero alla larga anche dalla mera potenzialità di realizzare una rete, eccettuata una punizione sopra la traversa calciata da Maradona; il quale, pur tenuto a vista d’occhio per tutto il match dal roccioso Buchwald, fu l’unico a tentare qualcosa che assomigliasse a una giocata. Perché anche in finale l’obiettivo della Selecciòn era arrivare ai calci di rigore. E quasi ci riuscì.
La deliberata tattica funzionò fino al minuto 84, quando l’arbitro Codesal assegnò un rigore per un fallo (dubbio) di Sensini su Voeller. Una decisione granitica immune alle proteste di Maradona e compagni, costretti ad affidarsi ancora una volta al loro portiere. Che però riuscì solo ad intuire il rigore perfetto calciato di destro da Brehme. Il cronometro offriva una timida speranza agli argentini, ma quei sei minuti non erano reali, non erano mai esistiti. La Germania era campione del mondo per la terza volta nella sua storia: aveva vinto la squadra migliore del torneo. Tutto secondo pronostico. Ma vi era molto di più. La vendetta era stata consumata, l’Argentina aveva perso, e più di tutti Maradona aveva perso. C’erano volute 6 partite e 84 minuti, ma Il più fischiato, il più odiato, il più picchiato era stato sconfitto, e i suoi detrattori italiani potevano finalmente festeggiare. Eppure non lo fecero. Non smettevano di staccargli gli occhi di dosso, perché se da un lato godevano per la sua sconfitta, dall’altro erano perversamente attratti da Diego: cercavano di vivisezionarlo chiedendosi come avesse fatto a trascinare, infortunato, una squadra claudicante e così brutta da vedere a un passo dalla seconda gloria consecutiva. Anche i flash e le inquadrature non riservarono alla Coppa del Mondo issata da Matthaus che attenzioni di circostanza, attratti com’erano dal volto di Maradona rigato dalle lacrime. L’ennesima dimostrazione di carisma.
Il deprezzamento del Pipita nella percezione calcistica collettiva segue quello sul piano economico. L'approdo al Chelsea come ultima spiaggia per tornare a sorridere.