Sfatiamo in partenza un falso mito; non è vero che Alen Boksic ha vinto meno di quanto avrebbe potuto. La verità, noi crediamo, è che anzi abbia vinto anche troppo. A fare di un calciatore un amor perduto non è (necessariamente) il rapporto tra attesa e risultato (vedasi Guti H.) ma una condizione malinconica di un carattere segnato per sempre.
«Herkunft aber bleibt stets Zukunft 1» («Provenienza resta sempre futuro»).
In Alen Boksic, il fisico da difensore vecchia scuola si sposa curiosamente con una tecnica tanto sopraffina da risultare goffa. Alen Boksic ha vinto molto, lo vedremo a breve. Quel che fa di lui un amor perduto è però materia di teologia negativa: perché non fu il più forte?
In finale di Coppa dei Campioni, dietro a Rudi Völler (Beate Mueller/Bongarts/Getty Images)
Nella classifica per il Pallone d’Oro del 1993, Boksic figura in felice compagnia di mostri sacri quali Maldini, Michael Laudrup, Stoichkov e Gullit. Arriva al quarto gradino del podio dietro a Roberto Baggio, Dennis Bergkamp ed Eric Cantona. Quella è senz’altro la sua migliore annata. Nella stagione 1992/93, quella in cui si mostra definitivamente sul palcoscenico internazionale del gran galà del calcio, accade di tutto.
Boksic gioca nel Marsiglia. Ha esordito nell’Hajduk in madrepatria Jugoslavia (ora Croazia) nel 1987. Qui decide una finale contro la Stella Rossa. Il suo gol è un gioiello raro. Potenza, tecnica, freddezza. Incredibilmente, velocità. Volontà di potenza. Quella finale lì, tra l’altro, assegna l’ultima Coppa di Jugoslavia prima della dissoluzione della Repubblica. La decide il nostro. A Cannes, in Francia, gioca una partita in una stagione (91/92), segnando zero gol. Era solo parcheggiato da mamma OM. Dove ritorna presto.
Un Marsiglia di fenomeni
Chi avrebbe mai scommesso sul fatto che uno stampellone (187cm) venuto dall’Est si sarebbe imposto come uno dei giocatori più forti del pianeta, e in una sola stagione? I mezzi a Boksic non mancavano, fisici come tecnici, ma se diamo una rapida occhiata al suo curriculum vitae prima dell’approdo a Les Phocéens, niente (o pochissimo) faceva supporre che quel principio di genialità e prepotenza si sarebbe abbinato ad un raro (e mai più verificatosi) fiuto del gol. Con l’OM vince la Ligue 1 (da capocannoniere) e la Coppa dei Campioni (da protagonista). Il segno del successo è sulla pelle di Alen Boksic, allora ventitreenne.
Passa alla Lazio la stagione successiva. La sua valigia è sempre pronta per nuove avventure; quattro squadre diverse in quattro anni, tre luoghi agli antipodi (Jugoslavia-Francia-Italia). L’unico bagaglio che un amor perduto può portare con sé negli anni è, banale a dirsi, il ricordo di quel primo amore.
E infatti Boksic viaggia, e vince (vincerà molto), ma lontano da Marsiglia è la moviola di se stesso. Rimangono dei gesti fuori dal comune, ma sono gesti isolati. Orme di un campione, ma soltanto orme. Alla Lazio vincerà tornandoci (nel 97). La prima esperienza in biancoceleste la chiude (male) con l’allora allenatore Zeman, uno che chiamano “Il maestro” e che è riuscito d’un colpo a far “declassare” due geni assoluti come il nostro e Paul Gazza Gascoigne.
Gazza e Alen con la maglia della Lazio
Boksic è l’Alieno. Questo nome lo accompagna per tutta la carriera, ed è azzeccatissimo. Dal lat. alienus, alieno dovrebbe tradursi, primariamente, con «altrui». Nella persona e nel calciatore di Alen Boksic, l’altruismo è una caratteristica fondamentale del suo essere. Non si tratta semplicemente della sua innata dote di mettere i compagni davanti alla porta, proliferando assist come un trequartista puro, ma ancor prima del voto in pagella che viene spesso e volentieri assegnatogli, eccessivamente alto ed enigmatico.
Enigmatico perché Boksic è un attaccante e segna pochissimo. Ma piace tantissimo. E’ un feticcio estetico, e in questo senso è altro. Stranissimo a vedersi. Ricorda, ma solo alla lontana, un altro possibile amor perduto: Le God, il dio di Southampton, Matt Le Tissier.
Riprendiamo un interessante dettaglio da un articolo uscito sull’Ultimo Uomo nell’ottobre del 2016, dedicato a Boksic attraverso dieci gol “esplicativi” del suo ingombrante talento. La pagella della Rosea su Boksic dopo Juventus – Inter dell’ottobre 1996 riporta: «Difficile dare una valutazione precisa per un uomo dalla doppia faccia. Straordinario per come inizia le azioni, per come le porta a compimento; un vero disastro per come conclude a rete. Ci sarà anche un pizzico di sfortuna e di malasorte, certo. Ma vederlo giocare è davvero un piacere per gli occhi». Voto 7,5, senza segnare né fornire assist.
Suo grande amico alla Juventus è Alex Del Piero (Ben Radford/Allsport)
Passa alla Juventus dove vince uno Scudetto e una Coppa Intercontinentale. Nel residuo statistico di una sola stagione coi bianconeri, Boksic vince tanto, ma avrebbe potuto vincere ancora di più. Anche lui, l’alieno, passa per la maledizione tutt’altro che altra dalle parti di Torino; la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni, questa volta contro il Borussia Dortmund. Tutto farebbe pensare ad un altro anno di Boksic alla Juventus, ma la sua eleganza, qualora ce ne fosse davvero bisogno, è un eccesso che anche la Vecchia Signora sente di non potersi concedere, specie se il lusso che gira per casa si chiama Zinedine Zidane.
Via dalla Juventus, c’è la Lazio ad aspettarlo a braccia aperte. Lui ci si tuffa con grande spirito, ed è subito l’idolo della gente romana. Ritorno del figliol prodigo. In questa seconda esperienza a Roma, Boksic prende parte a quel ciclo straordinario di fine anni Novanta che i tifosi della Lazio ricordano ancora oggi come un sogno impossibile. Il solo Boksic, in questi anni, vince due coppe nazionali (97/98 e 99/00), la storica Coppa delle Coppe in finale col Mallorca (98/99) e lo Scudetto nella stagione 1999/2000. Qui alla Lazio, nel 98, ritrova un vecchio compagno di reparto, Bobo Vieri. Lo aveva già incontrato alla Juventus. Tra i due sottolineiamo una somiglianza dissimile; due dei molti centravanti curiosissimi e irripetibili che hanno fatto la contro-storia del calcio targato anni 90.
Nello derby del novembre 1994, Boksic prende per il collo Carboni (LazioWiki). Nella foto di sinistra, invece, esulta alla Chinaglia dopo un gol. Non crediamo conoscesse quel gesto; il che lo rende ancora più speciale
E’ quasi arrivato il tempo dei saluti. Boksic finisce al Middlesbrough, e il suo atteggiamento in Inghilterra è del giocatore estero che va a giocare Oltremanica per il solo gusto di continuare a giocare. Una specie di calcetto pagato bene. Fino all’avvento delle televisioni, fino alla metà degli anni 2000, il calcio inglese competeva de jure, non defacto, nella scena del grande calcio internazionale.
9 novembre 1997
Il gol che segna contro la Sampdoria, al suo secondo approdo a Roma, è di una bellezza sconcertante. Al punto che se il suo allenatore (Sven Goran Eriksson) non può che applaudire, il portiere blucerchiato Fabrizio Ferron, tra l’amarezza di aver subito un cucchiaio da fuori aerea e l’umiltà di sapersi piegare dinnanzi a chi è più forte, sceglie la seconda opzione. Applauso che s’accompagna a quello di Eriksson. Tributo umano ad un momento divino. Uno dei tanti che Boksic ci ha concesso.
NOTE
1. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (1959)