L'illusione che i successi potessero evitare il collasso.
Secondo molti, i successi nello sport, in particolar modo quelli legati al calcio avrebbero anche potuto salvare la Jugoslavia dalla dissoluzione e dal conflitto etnico. Si pensa un po’ troppo comunemente che se la Nazionale avesse vinto i Mondiali di Italia ’90 si sarebbe rinsaldato un sentimento unitario tale da scongiurare la diaspora nei Balcani Occidentali. In realtà lo sport avrebbe potuto molto poco. Anzi, nulla. Nell’estate di 30 anni fa tutto era pronto per la guerra e nemmeno a dire che fosse una fase storica di scarsi successi per la Jugoslavia sportiva. Affermazioni nel basket, nel tennis e nel calcio che aggiungono solo rimpianto per una nazione che presto si trasformerà nella somma (e nella sottrazione) delle parti che la componevano dal 1945.
IL BASKET
Il 29 giugno 1991 a Roma è una giornata di inizio estate. Un sabato come altri. In serata, al Palazzo dello Sport dell’Eur Italia e Jugoslavia si giocano il titolo europeo. Gli Azzurri fanno il possibile ma i 15 punti finali di differenza parlano chiaro: troppo più forti i vari Divac, Rađa e Toni Kukoč; con l’ennesima vittoria internazionale la Jugoslavia consolida il ruolo di potenza cestistica. Già campione d’Europa (1989) e del mondo (1990), il quintetto slavo può temere solo gli Stati Uniti. Tuttavia lo sport non sarà il collante di un popolo, diviene semmai testimone inerme di un processo in atto.
Durante la kermesse romana il playmaker sloveno Jurij Zdovc lascia la squadra all’improvviso. È ciò che vuole? No, è ciò che deve. Ordini superiori: vietato gareggiare sotto la bandiera jugoslava, rientrare subito a casa. Quattro giorni prima della finale di Roma, Croazia e Slovenia hanno dichiarato l’indipendenza. D’ora in avanti Zdovc e gli altri gareggeranno ciascuno per la propria repubblica d’origine. In Jugoslavia la pallacanestro ha una popolarità non inferiore rispetto al calcio, ma il titolo 1991 sarà più un evidente canto del cigno che un successo di tutti i balcanici occidentali; infatti, anche attraverso il basket, si erano manifestate da tempo alcune palesi insofferenze nei confronti dell’assetto consolidato della Terra degli Salvi del Sud.
Nell’agosto 1990 la Nazionale si laurea campione del mondo in terra argentina, e nell’occasione la tv mostra ciò che non sarebbe dovuto accadere e forse nemmeno essere mostrato.
Al termine della finale con l’URSS un tifoso festante entra in campo con la bandiera croata, allora il serbo Divac lo allontana in maniera piuttosto decisa. Non esiste la Croazia, c’è solo la Jugoslavia, sembra dire il gigante al ragazzo; ma tanto basta per accendere gli animi. Da quel momento tra Divac e il fuoriclasse croato Dražen Petrović si rompe un’antica amicizia e a nulla servirà la vittoria jugoslava nei Goodwill Games 1990. La pallacanestro non potrà fortificare lo spirito unitario della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, si limiterà a prendere atto di una situazione insanabile e a riflettere tutte le immagini più preoccupanti del momento storico. Intanto, lontano dagli allori sul parquet si intuiscono i più foschi scenari.
IL TENNIS
All’inizio degli anni ’90 la star mondiale della racchetta è una jugoslava di Novi Sad, sia pure di origini magiare. Nel marzo 1991 Monica Seles è numero 1 del ranking, ancora minorenne, e nel mondo dello sport è considerata a ragione una “enfant prodige”, un mito. Ma qual è il suo Paese d’appartenenza? Mentre la parola “Jugoslavia” è già quasi tabù, in Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro non la sentono “una di loro”; la apprezzano ma non ci si identificano.
È una campionessa serba, ma nemmeno per tutti i serbi.
Nel suo anno di grazia, in cui la Jugoslavia si sfalda, Seles vince US Open, Roland Garros e Australian Open; come se non bastasse, in carriera rimarrà al vertice della classifica WTA per 178 settimane, ma niente da fare, nemmeno lei sarà ambasciatrice di pace e di unità nei Balcani. I croati preferiranno stringersi intorno alla potenza del servizio di Goran Ivanišević, mentre in Bosnia-Erzegovina di lì a poco lo sport più praticato sarà il “si salvi chi può”. Per chi se lo stesse domandando, nel 1991 Novak Djokovic è un bambino serbo di 4 anni e ha ben altro cui pensare.
CALCIO (E DINTORNI)
L’11 ottobre 1990 un primo gruppo di ultrà della Stella Rossa Belgrado giura fedeltà a Željko Ražnatović, presto universalmente noto come “Comandante Arkan”, e sposa la causa della guerra contro tutti i “non serbi” di Jugoslavia. Ciò avviene proprio quando giungono le prime voci secondo le quali Croazia, Slovenia e Bosnia starebbero decidendo di staccarsi dalla Federazione. Il piano è stato inaugurato da almeno un anno: il comandante sta trasformando con metodo ultrà calcistici e detenuti di Belgrado in futuri genocidi. Nel frattempo i Plavi hanno ben figurato ai Mondiali di Italia ‘90: si sono arresi ai quarti di finale contro l’Argentina, beffati ai calci di rigore, dopo aver dominato gli avversari per quasi tutta la partita.
La rappresentativa slava possiede un livello tecnico di primo piano, e in quel momento sono in molti a sperare che un’impresa della Nazionale possa indurre l’opinione pubblica balcanica a rivedere posizioni separatiste e a ripensare un modo per convivere. La squadra annovera grandi talenti e buona parte della stampa internazionale è convinta che, per tasso tecnico, la Jugoslavia sia seconda solo al Brasile. Tuttavia Arkan, plenipotenziario informale del presidente serbo Slobodan Milošević, è a buon punto con l’organizzazione della milizia irregolare, le famigerate Tigri, e non saranno certo le eventuali imprese della Jugoslavia a fargli cambiare progetti. Il Comandante è anche l’uomo di punto del tifo della Stella Rossa dal 1989: un successo della squadra di Belgrado sarebbe uno straordinario veicolo promozionale.
Ma non certo per un’eventuale causa jugoslava: “Serbia, non Jugoslavia e solo l’unità salverà i serbi”, gridano da anni i tifosi sugli spalti. Il corrispettivo croato di Milošević, Franjo Tudjman, la pensa allo stesso modo. Certamente non ha vinto le elezioni nel 1990 con un programma sovranista e indipendentista per poi dover convivere con i fantasmi del passato prossimo e remoto. E poiché il calcio significa consenso politico, oltre a essere il presidente di tutti i croati è anche quello della Dinamo Zagabria; allora le gesta della Stella Rossa Belgrado possono solo essere sgradite.
Il 29 maggio 1991 a Bari, al termine di una partita incerta fino al novantesimo e oltre, la squadra serba sconfigge ai calci di rigore i francesi dell’Olimpique Marsiglia.
Nella formazione campione d’Europa compaiono i nomi di molti giocatori che, con alterne fortune, approderanno negli anni successivi al campionato italiano: Jugović, Mihajlović, Savićević e Pančev. Invece coi francesi gioca un altro slavo, forse il più dotato in assoluto: Dragan Stojković; anni dopo anche lui verrà a giocare in Italia, a Verona, senza però incontrare la fortuna e il riconoscimento che a un campione sarebbero stati confacenti. Ma il periodo d’oro dello sport jugoslavo, e in particolar modo quello della Stella Rossa di Belgrado, non è terminato. L’8 dicembre 1991 a Tokyo i biancorossi conquistano anche la Coppa Intercontinentale: è la prima (e anche l’ultima, fino a questo momento) volta che il trofeo dei trofei va alla squadra di un Paese appartenente al blocco comunista (o ex tale).
La partita non ha storia: gli avversari cileni, i giocatori del Colo Colo sono ridotti a spettatori non paganti del monologo biancorosso; il risultato finale è un impietoso 3-0 per la squadra slava. Al ritorno, quelli della Stella Rossa trovano Arkan in persona ad attenderli all’aeroporto di Belgrado e ad accoglierli come deljie, come eroi. Il futuro comandante delle Tigri, all’epoca ancora “semplice” capo dei tifosi della squadra, ha per loro un pensierino molto particolare: dona a ciascuno dei neocampioni del mondouna zolla della contesa terra di Slavonia, con una promessa in allegato; tempo al tempo tutta la regione sarà liberata dalla presenza dei non-serbi. I giocatori accettano il “regalo” e non sono certo tutti serbi.
Hanno compreso l’aria che tira e non è esattamente un’aria salubre. Infatti, nel giugno 1991, la secessione della Slovenia è la scintilla che accende la miccia della bomba; Milošević invia l’esercito jugoslavo che combatte per una decina di giorni prima di ritirarsi. Date le premesse esplosive, l’effetto domino è solo una questione di tempo: la Croazia decide di fare la stessa cosa ma, diversamente da Lubiana, a Zagabria dovranno affrontare anni di guerra civile prima di poter issare la propria bandiera e coniare la kuna.
Flashback finale: 30 giugno 1990, stadio “Artemio Franchi” di Firenze. Si sfidano per i quarti di finale dei Mondiali Argentina e Jugoslavia. Dopo i tempi supplementari il risultato è ancora di 0-0, si va ai rigori: il difensore bosniaco Faruk Hadžibegić sbaglia il penalty decisivo. Passa l’Argentina, sarà l’ultima apparizione della Jugoslavia a un Mondiale. Davvero volevamo illuderci che se la Nazionale fosse andata avanti, il Paese avrebbe trovato un motivo per restare unito?