Intervista a Roberto Gotta, cantore del calcio inglese e giornalista per Fox Sports.
La globalizzazione ormai, lo sappiamo, ha invaso ogni ambito della vita, ed ha evidentemente condizionato anche il calcio. Questo processo si è spinto all’estremo in Premier League, un campionato meraviglioso ma sempre più distante dall’anima inglese e da quel tipo di calcio che – bene o male – avevamo iniziato a conoscere negli ultimi decenni, ormai fagocitato dalla mondializzazione pallonara. Partendo da qui e dalla società britannica abbiamo intervistato Roberto Gotta: folgorato circa mezzo secolo fa dal calcio inglese, e da lì in poi narratore di un mondo che proprio nel football in parte si esprimeva, non si è mai limitato alla cronaca sportiva o all’analisi tecnico/tattica, ma ha raccontato in profondità una cultura al di là degli stereotipi e delle semplificazioni.
Il retroterra culturale e politico della scena calcistica d’oltremanica di fine anni 70 − inizi anni 80, e mi riferisco alle politiche della Thatcher, alla musica di rottura, al boom dell’abbigliamento casual sulle terraces e chiaramente all’entusiasmo esasperato dei tifosi, ha avuto una funzione di attrazione decisiva verso il calcio di quelle latitudini da parte degli appassionati del gioco fuori dai confini britannici, rispetto agli elementi che hanno caratterizzato l’immaginario collettivo legato ad altri periodi cult quali gli anni 60 e 90?
Sì, sono tutti elementi che hanno avuto influenza, ma credo che vada fatta una forte distinzione sui tempi dell’immaginario collettivo. L’attrazione per il calcio inglese anni 70-80 è nata in leggera differita, quella per il calcio anni 90 è nata in presa quasi diretta grazie alle telecronache di Tele+ e Sky mentre quella per il calcio anni 60 è nata nel 99% dei casi a posteriori, come rivisitazione, perché in quegli anni il numero di persone in grado di avere accesso alle partite era così ridotto da non fare testo. Io personalmente non ho mai conosciuto nessuno che si sia appassionato prima del 1970, e conosco solo una persona, anzi due, che lo abbia fatto nei primi anni Settanta. Non era questione di curiosità ma anche di mezzi: nei casi succitati, due più il mio, una radio in grado in qualche modo di captare dalle 17 le dirette dei secondi tempi delle partite, che ovviamente a quel tempo si giocavano solo al sabato e solo alle 15 inglesi.
Di recente all’incontro pubblico di presentazione del libro su Eric Cantona scritto da Phiippe Auclair (della serie “racconti vietati“) proprio uno degli intervenuti, Roberto Melchiodi che cito perché è una persona di grande valore, mi ha detto di avere iniziato così e ci siamo accorti di avere avuto le medesime abitudini, anche se vissute da lui in modo migliore perché ha una manciata di anni più di me (L’età per me è discriminante… in senso positivo: ho 54 anni ma avrei voluto nascere molto prima e vivere così interi segmenti di storia in un periodo in cui ogni goccia di sapere costava fatica e dunque te la assaporavi di più). Ma non erano solo strumenti a fare la differenza: prigioniero di narrazioni autoreferenziali sul calcio italiano, di presunzione che il nostro calcio – anche dopo il tracollo ai Mondiali del 1974 e la successiva autoflagellazione, esagerata come al solito – fosse comunque migliore degli altri, dell’ossessione mediatico-ruffiana per “le grandi curve” e le “coreografie” adorate acriticamente dai nostri giornali, perché mai un appassionato di calcio avrebbe dovuto mettersi a seguire altri campionati? Ci raccontavano sempre che anche dopo l’eliminazione a Germania 1974 solo da noi si giocava a calcio come si doveva…
Quindi, degli anni 60 e 70 si è perlopiù saputo a posteriori, di quelli 80 si è saputo a tratti – e spesso in maniera deviata: non avete idea degli scempi sul calcio inglese e sugli hooligan che sono stato costretto a leggere trent’anni fa, da chi non aveva mai messo piede in uno stadio inglese, e delle critiche alla Thatcher per partito preso, modello peraltro che si mostra tuttora periodicamente nei nostri media – e di quelli 90 quasi in diretta. Certamente nella seconda parte degli anni 70 e in quelli 80 era più facile vedere squadre inglesi, grazie alle rapide sintesi dei mercoledì sera di coppa o alle dirette per scontri con le italiane o per le finali, e la curiosità di alcuni li avvicinò a modelli musicali e stilistici che si stavano affermando, e però non so quanti, vedendo nel 1983 John Taylor dei Duran Duran sul palco con la maglia dell’Aston Villa, sapessero di cosa si trattasse. C’è poi un paradosso: come molti lettori sapranno, per assurdo molti hooligan di un certo periodo vestivano casual italiano, e sono troppi i racconti di tute Tacchini rubate dai tifosi del Liverpool durante la trasferta a Roma per la finale di Coppa dei Campioni del 1977 per credere che sia tutta una invenzione. Per cui si arriva a una sorta di cortocircuito: abiti italiani diventano di moda in un certo segmento – ridotto ma influente – di vita inglese che influenza di ritorno chi segue dall’Italia.
Segnalo altri due elementi: gli articoli del Guerin Sportivo, che hanno segnato almeno due generazioni per la precisione e l’esclusività delle descrizioni delle squadre inglesi, e la trasmissione televisiva Football, please, che nei primi anni Ottanta andava in onda su alcune reti locali italiane, su idea di Michele Plastino. Erano brevi sintesi di partite e a molti aprirono l’idea di un mondo diverso: curiosamente, era il periodo in cui le presenze di pubblico negli stadi inglesi erano calate drasticamente (il West Ham United nel 1987-88 ebbe una media di meno di 20.000 spettatori), eppure persino la visione di vaste parti vuote di stadi, oltretutto con orride recinzioni metalliche, qualche traccia lasciò. C’era qualcosa, semplicemente, di diverso. E il fascino evidentemente passava attraverso le immagini tv e veniva filtrato: il 90% di chi si appassionò in quel periodo non poteva sapere che quelli che allo stadio ci andavano davvero, e senza intenzioni bellicose, possedevano uno spirito positivo, una ironia che ad esempio qui non si sono mai viste. Fu quello che mi colpì in quel periodo andando a vedere partite là: capitai in situazioni non sempre positive, particolarmente in un Arsenal-Tottenham del 30 agosto 1980, ma a parte gli hooligan tutti gli altri erano dotati del classico atteggiamento britannico da stadio, ovvero sarcasmo, battuta pronta, momento di tensione o delusione per un errore o una presunta ingiustizia arbitrale poi il motto di spirito a cancellare tutto. Ecco, chi vedeva solo la tv, chi credeva ai media italiani intenti a definire gli stadi inglesi – per sentito dire – come una specie di girone infernale, tutto questo non poteva capirlo, eppure in qualche modo qualcosa restò e colpì tante persone.
Quali sono stati gli interpreti sul campo che secondo te hanno giocato un ruolo chiave sotto il punto di vista dell’attrazione?
In genere quelli resi popolari dalle partite europee delle loro squadre, o dalle saltuarie apparizioni della nazionale. I soliti. Kevin Keegan su tutti, anche per via del suo stile, della sua capigliatura e della sua escursione tedesca all’Amburgo, Kenny Dalglish, Ian Rush, Terry McDermott, Liam Brady, magari Trevor Brooking. Keegan e Brooking, per inciso, segnarono i gol della vittoria inglese sull’Italia nella partita di ritorno del girone di qualificazione ai Mondiali del 1978, peraltro inutili per sopravanzare l’Italia stessa. Erano tra l’altro gli anni in cui c’era una Scozia ancora decente e dunque Dalglish o Graeme Souness avevano una doppia ribalta agli occhi nostrani. Per paradosso, gli anni 70 in Inghilterra erano stati il periodo dei cosiddetti maverick, calciatori di estro e inventiva superiori alla media, spesso facili da distinguere grazie alle chiome che li facevano assimilare ai protagonisti della scena rock e pop, ma di loro giunse poca traccia in Italia: a parte George Best, ovviamente, che altrettanto ovviamente non era inglese.
Nella nazionale che aveva perso l’andata delle qualificazioni 2-0 a Roma il 17 novembre 1976 – partita giocata alle 14.30 di un giorno feriale, per dire i tempi… – i quattro giocatori di propensione offensiva erano Keegan, Channon, Bowles e Brooking eppure in quella partita non lasciarono particolari tracce, anzi si trattò di una delle peggiori prestazioni inglesi di un decennio che di gare non brillanti ne ebbe molte. Dunque furono le imprese delle squadre di club, principalmente il Liverpool, a fare impressione positiva verso gli appassionati (e i club…) di qui, il Liverpool e qualunque squadra incrociasse il percorso delle italiane in coppa. Il sospetto che la Juventus mai si sarebbe accorta di Liam Brady se non lo avesse incontrato nella doppia semifinale di Coppa delle Coppe del 1980 è forte…
Nel periodo che va dal 1977 al 1984 le squadre di club inglesi hanno sempre primeggiato nelle competizioni europee mentre la nazionale dei Tre Leoni non è mai riuscita a togliersi una soddisfazione, risultando solamente spocchiosa ai più. Che spiegazione daresti?
Beh, spocchiosa non più, in quel periodo. È una falsa impressione derivante da una lettura italiana della situazione, quindi tendenzialmente antagonista: il livore liberato dal celebre 1-0 del 1973, col gol di Fabio Capello, ci ha messo molti anni a spegnersi. Leggendo molto e ascoltando molto, in quel periodo, la percezione era invece di un ambiente della nazionale disorientato per i costanti fallimenti – l’assenza dai Mondiali del 1974 e del 1978 – e incapace di trovare rimedi concreti. I club vincevano giocando un calcio diverso, anzi il Liverpool giocava un calcio diverso: un calcio in cui teneva molto palla accelerando all’improvviso, e con l’apporto – già segnalato – di scozzesi di grande qualità, mentre la nazionale era prigioniera di una situazione invalicabile. Ovvero, giocando all’inglese – mi scuso per il termine generico – e dunque con impeto costante finiva prima o poi col perdere la palla e farsi trovare in imperfetta posizione difensiva, mentre cercando di giocare alla continentale – avesse mai provato a farlo – non avrebbe avuto i giocatori adatti.
È perfetto l’accenno, nel libro di Gabriele Marcotti e Gianluca Vialli, a campi e condizioni climatiche che in passato impedivano di fatto un certo tipo di calcio: ora i campi sono in buonissimo stato tutto l’anno e a livello di club si vede qualcosa di meglio, ma all’epoca era tutto più difficile. Aggiungo che fino a buona parte degli anni Novanta valeva come impronta tattica federale il celebre manuale di Charles Hughes, un tecnico a due facce: era stato tra i primi a studiare in modo analitico le partite, ma la conclusione che ne aveva tratto era che la maggioranza dei gol venissero da azioni di tre passaggi o meno, e di conseguenza a livello di Football Association si ritenne che far arrivare più velocemente possibile la palla nei pressi dell’area avversaria fosse la base per aumentare le possibilità di segnare. Non proprio il tiki-taka, insomma. Ma se i difetti fossero stati sistemici e pure gravi l’Inghilterra non avrebbe mai vinto una partita, e non è così. E infatti era più che altro l’assenza di fuoriclasse veri a danneggiare la nazionale di quegli anni: Keegan ancora ancora vinceva da solo (usando un cliché) contro la Spagna nel gironcino dei quarti di finale dei Mondiali 1982, ma finì 0-0 e passò la Germania. Inglesi fuori con 3 vittorie su 3 al primo turno e 2 pareggi al secondo, entrambi per 0-0: per dire.
Raccontaci come hai vissuto quella che forse è la partita che più ha segnato il tuo lungo cammino nel mondo del calcio made in UK: FA Cup Final 1980, West Ham vs Arsenal. A distanza di decenni, hai mai provato emozioni equiparabili a quelle?
Non vorrei fare torto alle altre finali che hanno segnato in modo profondissimo la mia vita, però. 1974, la prima di cui sia stato a conoscenza, da misteriosa mini-sintesi apparsa su Rai2; 1975, la prima in diretta sulla tv della Svizzera Italiana – canale che adoravo, era un mio punto di riferimento per il modo compassato e non isterico con cui si seguiva lo sport, contrapposto al fanatismo dei media italiani – ; poi 1976 la più sorprendente; 1977 la più roboante nei nomi (e con il Liverpool che quattro giorni dopo si sarebbe ripreso vincendo quella Coppa dei Campioni a Roma); 1978 la più noiosa; 1979 la più esaltante, quella che mi convinse a insistere con i miei genitori per mandarmi a studiare l’inglese a Londra in estate.
Ero simpatizzante dell’Arsenal, nella maniera banale e infantile in cui si tifa per chi ha vinto (la coppa nazionale però, non il campionato o una coppa europea) ma colori, maglia e nome del West Ham United mi avevano conquistato, per cui quella finale fu un inimitabile compendio di tutto ciò. La maglia bianca del West Ham di quel giorno e quella gialla con bordi blu dell’Arsenal restano per me tra le più belle mai viste e stringerle tra le mani – le ho entrambe, degli Irons anzi due perché una autografata da Trevor Brooking – mi inonda di sensazioni. Quasi tutte positive, ma una bella fetta di esse è negativa, perché il contrasto tra come si stava (o stavo io) all’epoca e adesso è lancinante. Non ho più provato emozioni simili semplicemente perché quella combinazione è irripetibile, ma ne ho provate tante.
La prima finale di FA Cup del vivo con un gol di Ian Wright che a me faceva impazzire per il fiuto della porta, un gol dello stesso Wright al 90° per un 1-0 a White Hart Lane, lo spettacolo surreale di un Crystal Palace-Middlesbrough 5-3 dell’agosto 1980 – pochi mesi dopo, quindi, la finale 1980 – nel settore dietro la porta di Selhurst Park che ora sarebbe quella a sinistra della visione televisiva, la prima partita in assoluto in Inghilterra, Charity Shield a Wembley nell’agosto del 1979, pochi mesi dopo quella finale 1979. Non ricordo quasi nulla di quella partita, ero troppo emozionato. Ricordo un’immagine dalla mia prospettiva, nella “curva” dell’Arsenal, e un lungo tragitto in auto con il padrone di casa della famiglia che mi ospitava, ahilui tifoso Spurs costretto a seguire la gara tra supporter dei Gunners. Ricordo una sciarpa di nylon – andavano di moda all’epoca – tutta sfrangiata che un amico del padrone di casa mi regalò, dicendo “questa l’ho ridotta così tenendola fuori dal finestrino mentre tornavo a casa dopo la finale contro lo United, è una reliquia”.
Ma la cosa più divertente è che la finale 1980 non l’ho mai vista: quel giorno ero in gita con la scuola al Cern di Ginevra e pur gettando a ogni sala lo sguardo in giro, sperando di cogliere un televisore acceso, non trovai nulla e seppi il risultato solo al ritorno in hotel, chiedendolo al portiere. Che – tifoso juventino – si dimostrò contento per la sconfitta dei Gunners, i quali poche settimane prima avevano eliminato la sua squadra nella già citata e memorabile semifinale di Coppa delle Coppe decisa al 90° al Comunale di Torino da un gol del carneade Paul Vaessen. Quel mese – semifinale europea, semifinale FA Cup Arsenal-Liverpool che venne decisa solo al terzo replay, semifinale FA Cup West Ham-Everton, finale FA Cup, finale Coppa delle Coppe (0-0,Valencia vittorioso sull’Arsenal ai rigori) – è stato senza dubbio il più emotivo della mia vita da appassionato di calcio inglese. Ancor più perché di tutto questo ho visto solo le tre partite europee e ascoltato alla radio le prime due semifinali di Coppa d’Inghilterra: delle altre ho saputo il risultato solo nei notiziari delle 23.45 (se non erro) italiane, accumulando così la trepidazione dell’attesa. Ora, ovviamente, svanita.
La Premier League di oggi ha soppiantato totalmente l’anima della vecchia First Division o rimane ancora qualcosa di autentico di quegli anni? La Championship conserva il vero spirito del calcio inglese o trovi che chi sia di questo parere faccia solo retorica?
Il problema della Championship, non intrinseco ma nell’interpretazione, è che viene vista appunto come baluardo di un calcio antico contro quello moderno ma in realtà è una copia della Premier League. Con l’aggravante che i club che la compongono non vedono l’ora di salirci, in Premier League. Ho sempre trovato grottesco veder premiate prima, seconda e vincitrice dei playoff di Championship dai dirigenti della Football League, scena ipocrita che copre il fatto che chi consegna il trofeo sa benissimo che il premiato non vorrebbe più vederlo per anni. Non è che vedere il raccattapalle che abbraccia l’allenatore del Bristol City per la vittoria sul Manchester United in coppa di Lega indichi che in quel club vige una genuinità contrapposta a quella della Premier League. La stessa scena si poteva vedere a Burnley, club che ormai è di Premier League in modo stabile. Non so, fatico a conciliare la visione di un calcio di Championship, League One e League Two come genuino, che io stesso ho, con la consapevolezza razionale che il 99% di quei club preferirebbe essere in Premier League e globalizzato nel tifo, ovvero rovinato, snaturato.
Poi, mosso dalla solita voglia di sperimentare ed imparare, quest’anno ho visto dal vivo i due derby di Sheffield, fortunatamente sottovalutati dal pubblico del resto del mondo e soprattutto dai media del resto del mondo: e dico fortunatamente perché dai media non britannici verrebbero annacquati, banalizzati, volgarizzati. La seconda partita è stata mediocre (0-0) ma è stata molto britannica in campo – specialmente nello Sheffield United – e sulle tribune, pressoché prive di stranieri: per me la perfezione, anzi la quasi perfezione perché la perfezione vera, 100%, sarebbe per coerenza – concetto estremo ma già espresso nel mio libro Addio West Ham – quella in cui a vedere la partita non ci fossi nemmeno io, straniero e dunque estraneo all’atmosfera di quella grande città di calcio.
Ti aspettavi qualcosa in più dalle duellanti di Manchester sotto l’aspetto dell’equilibrio? Il campionato ha già preso una direzione ben orientata.
Mi aspettavo moltissimo dal Manchester City, dopo una campagna acquisti estiva tatticamente mirata come poche nella storia (nuovi tutti i laterali di difesa e il portiere), e il City sta mettendo in pratica le intenzioni di Pep Guardiola in modo splendido. Possesso palla ma anche (o… di conseguenza) accelerazioni, due numeri 10 (teoria di Michael Cox, noto giornalista-tattico inglese, che reputo affascinante) come David Silva e Kevin De Bruyne in campo assieme, difficoltà a volte a capire se la difesa sia a 3 o 4, dal movimento incessante dell’uomo che spariglia. Impressionante, anche sconfortante a tratti. Lo United aveva iniziato molto bene e con l’aria di aver saputo andare oltre il gioco tradizionale di José Mourinho – che mi sembra comunque fuori posto a Old Trafford, anche se prediletto da Alex Ferguson, così come secondo me non c’entra niente Zlatan Ibrahimovic – ma c’è qualcosa di sempre macchinoso e pesante nelle partite decisive.
È un vero peccato perché si son viste cose eccellenti: un gol in contropiede da corner avversario, quest’anno, con Paul Pogba e Ashley Young che in pochi secondi hanno coperto più di 80 metri di campo per andare a raccogliere nell’area avversaria i frutti di tale sforzo, un momento atletico davvero sublime. Ma lo United stenta ad essere… lo United che vorrebbe e secondo me dovrebbe essere: capisco che da spagnolo David De Gea vorrebbe un giorno giocare nel Real Madrid, ma chi è al Manchester United con uno status come il suo non dovrebbe nemmeno sognarsi di guardare altrove. Per questo ho citato Ibrahimovic: ha giocato in tante squadre e non verrà certo ricordato per i due anni a Old Trafford, mentre un club così ha bisogno e dovere di avere giocatori suoi, di nascita o perlomeno formazione (lo era, per assurdo, Cristian Ronaldo), senza citare la famosa leva del 1992, argomento ormai consumato dall’uso eccessivo che se ne fa.
Cosa succede al West Ham United?
Scelte sbagliate nella costruzione della squadra, primi mesi al nuovo stadio vissuti in un clima incerto. Devo essere sincero: avendo vissuto il 2015-16 al Boleyn Ground credo che nostalgia e affetto verso di esso siano giustificati al 100% ma non utilizzabili per spiegare il rendimento inferiore attuale. Semplicemente, quella stagione in cui per molti mesi la squadra è stata vicina alla Champions League è stata irrobustita dalle prestazioni iniziali di Dimitri Payet e di Michail Antonio da quando è entrato tra i titolari, oltre che dall’eccellenza di un Lanzini ancora poco noto agli avversari. Partito Payet, che non ha fatto bella figura col suo comportamento nell’estate del 2016, è mancato un giocatore in grado di creare e spaventare anche sui calci piazzati e l’intera armonia tattica è calata. Adoro Mark Noble per quello che rappresenta, perché per me una squadra di calcio dovrebbe avere solo giocatori (e tifosi) nati nei dintorni, ma mi sembra davvero un centrocampista modesto, di passo invariabile, poco creativo. Dolorosamente, più gioca, peggio è per il progresso della squadra, ma di fatto progresso è parola grossa, perché siamo a una stasi se non a un regresso, ad eccezione del numero di abbonati. Il timore, la percezione, sono quelle di una dirigenza che a volte non sembra agire al cento per cento con nitidezza o pulizia, forse troppo influenzata dai consulenti di mercato che hanno drammaticamente in mano troppe decisioni nel calcio di oggi. Andrebbero ignorati, e invece spesso diventano figure mediatiche riverite, ovviamente per interesse di chi li rende tali.
Qual è la squadra che ti ha impressionato di più finora in Premier League? Top 4 escluse.
Lo ammetto: ci ho messo un po’ a rispondere a queste domande e la risposta è sfasata. All’epoca avrei detto Burnley per il calcio essenziale e pieno di energia, non casualmente frutto di un roster con molti giocatori delle isole britanniche. Ma presto la squadra è tornata alla normalità, che va benissimo. Al momento non male il Brighton per le ultime partite fatte, ma si fa presto a perdere impeto in una lega a mio avviso mediocre, con poca differenza di valore tra la decima posizione in Premier League e la sesta in Championship, con tante squadre frutto di miracoli tattici perché costruite di anno in anno con pezzi diversi. Che senso ha un Huddersfield Town composto da giocatori in stragrande maggioranza stranieri e per i quali giocare lì o all’Espanyol o al Bayer Leverkusen è la stessa cosa, se non per la diversa lingua che si parla sugli spalti? È vero che il calcio inglese – Guardiola lo sa e lo ha ammesso – conserva una sua specificità anche tattica e ambientale, ma ha perso tanto delle sue caratteristiche. Ma piace molto alla maggioranza e dunque va bene così, immagino.
Come giudichi i Tre Leoni in vista dei Mondiali in Russia?
Ho smesso da tempo di seguire con interesse la nazionale inglese. Un po’ perché faccio sempre più fatica ad affezionarmi a chi appartiene a un mondo così lontano, un po’ perché il calcio delle nazionali mi sembra purtroppo privo di senso nell’era attuale in cui magari la tua squadra italiana ha più giocatori in un’altra nazionale che nell’Italia. Privo di senso e gestito ipocritamente: vogliamo parlare dei nostri politici al governo che in questi anni hanno fatto di tutto per cancellare l’identità italiana – pur se difettosa, spesso meschina, tendenzialmente disonesta – salvo gettarsi a corpo esanime su qualsiasi successo sportivo di un nostro atleta o una nostra squadra per esaltarlo? A parte questo, è semplice prevedere che i soliti limiti tecnici e tattici impediranno all’Inghilterra di andare oltre gli ottavi, o i quarti se incrociano un’avversaria impreparata al turno prima. Poi, è vero che questa nazionale ha giocatori anomali rispetto al recente passato, come Dele Alli e Harry Kane, cioé giocatori di altissimo livello internazionale e in grado di vincere partite con un colpo improvviso, ma anche senza conoscere – il mio lavoro non me lo permette – le altre squadre ho la solita sensazione che qualcosa possa andare storto al momento decisivo, e non parlo neanche dei rigori che in passato spesso sono stati fatali, anche all’epoca dei secondo me sopravvalutati Gerrard e Lampard.
Consideri galvanizzanti i recenti ottimi risultati delle nazionali inglesi giovanili per la nazionale maggiore?
Potrebberlo essere ma i giocatori per primi sono consapevoli delle differenze. Prima o poi a livello senior incontri una Spagna, un’Argentina, una Germania, persino un Portogallo. Il salto dalle nazionali giovanili alle nazionali maggiori è davvero grande e pochi sanno farlo senza traumi. Troppi ragazzi sono diventati improvvisamente famosi, sono passati ad altri club per cifre esagerate – 30 milioni per un Luke Shaw nemmeno ventenne, nel 2014 – poi si sono spenti, o sono rimasti mediocri. Alcuni di quelli che hanno vinto negli ultimi mesi, mostrandosi addirittura freddi nei rigori (!), sembrano più smaliziati, avanzati tecnicamente e tatticamente dei loro predecessori, ma rischiano la solita fine: trovarsi cioé chiusi nei propri club da giocatori più esperti e pronti, magari stranieri, e dover andare in prestito, senza mai trovare una stabilità che permetta loro di crescere. Tammy Abraham ad esempio a che punto è? Buon inizio con lo Swansea City poi un calo, e anche se 4 mesi fa Antonio Conte descriveva lui e Ruben Loftus-Cheek come parte del futuro del Chelsea i dubbi persistono, anche perché per diventare tali devono poter essere considerati non solo giocatori da rosa ma giocatori potenzialmente titolari per ogni partita. E al momento non è così.