Il trionfo dell'Atalanta è la vittoria dei belli e dei giusti.
È un entusiasmo antico e autentico quello che viviamo grazie all’Atalanta. Un sentimento difficile da trasmettere a parole come ha testimoniato Gasperini, giunto ai microfoni del post-partita raggiante, sorridente, ma ancora apparentemente inconsapevole della portata storica di questo risultato: era impaziente, fremeva, tremava, cercava di razionalizzare nel momento stesso del discorso. Come se gli mancasse nell’immaginario e nel vocabolario (che per alcuni linguisti e filosofi sono la stessa cosa) il modo per spiegare tutto ciò: ed effettivamente, a quasi 62 anni, nulla di simile gli era mai successo.
Noi siamo allergici alla retorica nel pallone, allo storytelling smielato tanto in voga per rendere le macerie dell’epica calcistica, ma ieri sera ci siamo letteralmente commossi. Ecco perché questa non è un’analisi tattica, tecnica, una cronaca del miracolo sportivo o un’interpretazione della partita: il nostro è un dovere di testimonianza nei confronti di una squadra capace di riportarci a mondi lontani, all’innocenza delle cose belle e giuste, due concetti che vanno insieme come già sapevano i Greci antichi.
Il nostro è un dovere di testimonianza.
Anche le sliding doors della partita, la super parata di Gollini su Moraes, il mezzo piede che tiene in gioco il Papu, il mancato rosso a Muriel (qualcuno molto in alto, o magari solo l’arbitro, tifava Atalanta) e l’espulsione diretta a Dodò – quanto meno discutibile -, per finire con le speranze dello Shakhtar e di Ismaily infrante sulla traversa. Ma che importa di tutto ciò, il copione era già scritto: quasi un piano divino, il Fato degli stoici, un ordine provvidenziale, intimamente razionale; insomma ieri sera doveva trionfare la giustizia calcistica per tanti di quei motivi che non avrebbe senso qui tornarci.
Tutto era iniziato così, il 26 maggio 2019: Atalanta v Sassuolo 3-1, terzo posto e qualificazione in Champions (Foto di Alessandro Sabattini/Getty Images)
D’altronde di cosa dovremmo parlare, di una squadra in cui il difensore centrale Djimsiti, all 89 minuto, fa uno scatto di trenta metri per sovrapporsi a Castagne nella metà campo avversaria? Veramente vogliamo impantanarci in disocrsi sulle assenze di tre pilastri come Zapata, Ilicic e Toloi, o ragionare sui precedenti favorevoli alle squadre con 7 punti nel girone? Ieri e oggi, noi siamo oltre. Al massimo possiamo riprendere poche parole del maestro Beccantini, che ha celebrato l’Atalanta come
«la ventunesima squadra della Premierche gioca, per domicilio geografico e scelta tecnico-strutturale, nel nostro campionato. Morde e non fugge. Marca a uomo avanzando. Vive il calcio come una sfida e non una scommessa».
Parliamo di forze in movimento talmente più grandi di noi che ci hanno anche permesso di apprezzare Pep Guardiola, dimostratosi sportivo nel senso più profondo del termine, e persino Fabio Caressa, autore di una telecronaca-talismano come ai fulgidi tempi di Germania 2006: anche le performance sfoderate da quest’ultimo sono state provvidenziali, in concomitanza o addirittura ad inaugurazione dei due gol bergamaschi. Dalle esitazioni sulla prima rete nerazzurra:
“Occhio occhio! Attenzione al piede! Ci metteranno molto a decidere… ah no c’hanno messo poco… no anzi, ancora OCCHIO! OCCHIO! GOL! È così, ce l’avrei messo un euro!” (?),
al commento immediatamente precedente al raddoppio su punizione di Pasalic: «fatemi andare sull’altro campo, sì sempre 3-1 con tripletta di JUAN JESUS» (neanche ad accendere un cero alla Vergine Maria, avranno pensato i tifosi romanisti). E poi zio Beppe, innocente come un bambino, che ammetteva con voce esitante di essersi commosso.
Insomma è stata una serata leggendaria e ve lo confessiamo, tradendo il primo comandamento del calcio (non avrai altra squadra al di fuori di me, il monoteismo del tifo): ebbene oggi vorremmo essere tifosi dell’Atalanta, e in piccola parte lo siamo. Per il resto possiamo solo vagare con il pensiero fino ad arrivare al gelo ucraino, alla nottata memorabile di quei 500 fedeli che speravano nel lieto fine. È questa la forza più grande del calcio: redimere la vita di tutti i giorni, sempre più claustrofobica, e darci sempre la speranza di entrare in un qualcosa di più grande.