Cosa significa il trionfo sul Leverkusen nella finale di Europa League.
L’ultimo trofeo dell’Atalanta risaliva al 1963. Nella finale di Coppa Italia contro il Torino, un giovanissimo bomber di nome Domenghini – all’epoca appena 21enne – entrava nella storia della Dea e del calcio italiano con una tripletta fiabesca. Accadde però che nella notte dei potenziali festeggiamenti morì papa Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, nativo di Sotto il Monte, comune di Bergamo. La scomparsa del “papa buono” fu un colpo durissimo per una città da sempre fortemente legata al cattolicesimo, tanto più con un pontefice nativo bergamasco.
Da 61 anni, più di mezzo secolo, i tifosi dell’Atalanta aspettavano di festeggiare un trofeo. Pochi di quelli che all’epoca interruppero anzitempo la gioia oggi sono vivi. Ma è anche loro, questo trionfo. Lo è non in virtù di una retorica stantia e retrograda, che cerca il mondo simbolico in un universo di segni, ma per come è maturato questo successo. L’Atalanta ha battuto gli invincibili del Bayer Leverkusen non segnando all’ultimo o con un gol di scarto, ma dominando una corazzata dai contorni sovrumani.
Solo una Dea, certo, poteva riuscire in qualcosa di simile.
Nessuno però si aspettava una partita simile. Anche dopo il secondo gol di Lookman, dietro al pensiero collettivo di noi spettatori terzi c’era quella voce della coscienza malefica eppure realissima che sembrava sussurrarci: “non è finita qui, la rimonteranno”.
Era già capitato, diverse volte. Cosa è cambiato allora rispetto ai precedenti? Innanzitutto che la presunzione – perché così va definito l’atteggiamento di Xabi Alonso e i suoi – ha le gambe corte, e prima o poi ti va male per forza. “Purtroppo il nostro piano non ha funzionato”, ha detto Alonso a fine gara. Tobias Rabe su Frankfurter Allgemeine ha criticato il tecnico basco per l’assenza di una punta di riferimento davanti: “forse ce ne sarebbe stato bisogno in questa partita”.
Ma ridurre l’entusiasmante 3-0 dell’Atalanta agli errori di Alonso sarebbe ingeneroso nei confronti dei bergamaschi e del loro tecnico. Rispetto alle altre volte in cui il Bayer ha rimontato la partita, ieri sera l’Atalanta non ha mai smesso di correre (neanche dopo il 3-0), rincorrere, stupire, come un pulcino che scoperto il movimento non può far altro che desiderare il volo. Gasperini non è mai stato davvero teso. Deciso semmai, con quel dito a zittire l’omologo basco, ma sempre felice e divertito.
Il Gasp se l’è meritata tutta questa coppa. E in generale un trofeo che possa finalmente zittire tutti quelli – compreso il sottoscritto – che guardavano con sospetto a un modello senza risultati nel palmares. La verità è che l’Atalanta negli anni ha costruito, mattone dopo mattone, questo straordinario successo. Lo ha fatto con scelte estremamente coraggiose – quali società avrebbero cacciato il loro miglior giocatore (Gomez) anziché l’allenatore (Gasperini) dopo un litigio?
La vittoria di ieri sera in questo senso significa molto più di un evento da ricordare in eterno per la propria storia: da ieri sera l’Atalanta entra in un’altra dimensione, quella dei campioni innanzitutto, ma di quei campioni da cui ci si attende una continuità di risultati. Campioni non in virtù di un miracolo, per intenderci, ma di un sigillo posto sul campo, che ti consacra campione in quanto tale, non per puro caso. L’Atalanta – lo ha sottolineato Gasperini – è una società sana, sicuramente la più sana insieme al Bologna di quelle che parteciperanno alla prossima Champions League.
«Ognuno ha i propri obiettivi: quello che ha vinto l’Atalanta è un titolo straordinario perché l’abbiamo ottenuto senza avere grandissimi debiti. Perché quando hai grandissimi debiti vinci anche tanti titoli. Farlo come lo ha fatto l’Atalanta ha un valore diverso».
Gian Piero Gasperini
Quindi, tre reti al Leverkusen come tre l’Atalanta ne aveva segnate contro il Liverpool ad Anfield (vero turning point della stagione atalantina), e tra andata e ritorno allo Sporting Lisbona – campione di Portogallo. Un 3-0 che premia tutti, da De Roon infortunato a Scamacca eterno (non plus) Peter Pan, ma che ha in Ademola Lookman il nome da consegnare alla Storia di questo sport. Una prestazione così, l’avesse fatta Wirtz, ci avrebbe condotti sulla poetica del Pallone d’Oro. Tre gol, uno meglio dell’altro. Due di sinistro, che non è il suo piede, uno di destro con annesso tunnel a Xhaka, uno dei migliori giocatori della stagione del Leverkusen.
Lo svizzero ieri, poverino lui e gli altri, è stato surclassato dalla Dea e in particolare da Ederson, ultima miccia di quel profeta visionario che è Sabatini. Ederson, signori, è in questo momento uno dei centrocampisti più forti al mondo, e non dobbiamo aver timore di dirlo.
Non dobbiamo aver paura, dopo ieri sera, di accogliere l’Atalanta tra le super top del nostro calcio. Al suo tavolo non sono ad esempio Roma e Lazio, ma forse neanche il Napoli. Questo è il verdetto più pesante scaturito dalla finale di Europa League di Dublino. Un verdetto che di rimando lancia Gasperini nell’Olimpo dei grandissimi nella storia di questo sport. Ora l’Atalanta ha il dovere di puntare allo Scudetto. E i suoi tifosi di festeggiare fino a non ricordarsi il proprio nome di battesimo. Da agosto inizia un’altra storia e senz’altro un’altra vita.