Papelitos
05 Luglio 2019

Buffon e la schiavitù dei record

La triste parabola di un ossessionato Gianluigi Buffon.

Solo un anno fa Gianluigi Buffon diceva addio alla maglia della Juventus. Un addio che chiudeva un’era del calcio italiano, l’era dello stradominio bianconero ma anche quella dei Mondiali 2006, i cui pochi reduci sono ormai al crepuscolo della carriera. Buffon aveva allora salutato lo Stadium dopo aver abbracciato Barzagli e in seguito tutti i compagni e avversari; nemmeno l’imbarazzante sfogo nell’eliminazione contro il Real Madrid era riuscito ad intaccare le celebrazioni per il numero uno nazionale. Si era giunti ad un prevedibile romantico finale di un binomio vincente, destinato a rimanere nella storia dei colori bianconeri e della Serie A.

“Con domani si conclude un percorso. Termina un libro che abbiamo scritto insieme. L’emozione è tanta. Troppa”. (Buffon nella lettera d’addio alla Juve)

Ma nemmeno una bacheca piena zeppa di trofei ha convinto Buffon ad accettare questo lieto fine. In quella bacheca infatti mancava la Champions League, un trofeo più volte negato e ancora nella notte di Madrid (come se da lì in poi fosse stata una semplice formalità). Il desiderio di raggiungere l’ultimo vero obiettivo della sua carriera si è trasformato in un pericoloso desiderio di conquista, che ben presto è diventato ossessione: ossessione di ottenere ciò che gli spettava di diritto; il riconoscimento che un calcio, di colpo crudele e senza cuore, non gli aveva consegnato.

Vorrei leggere su wikipedia, accanto al nome di Gianluigi Buffon, che ha vinto una Champions.

Ecco allora il delirio di onnipotenza che lo ha portato a dover tradurre in francese i suoi tweet, dopo lo sbarco sotto la Tour Eiffel. Un anno, quello al PSG, che gli ha regalato altre due coppe. Due coppe sbagliate, la Supercoppa e, soprattutto, la Ligue 1, che già ad ottobre sembrava destinata a Parigi. La Champions sfuggita ancora una volta dai suoi guantoni, come il beffardo pallone poi depositato in rete da Romelu Lukaku nella rimonta che ha spedito i parigini a casa.

 

Quando Buffon perse la testa con Michael Oliver al Santiago Bernabeu (April 11, 2018 in Madrid, Spain, foto di Matthias Hangst/Bongarts/Getty Images)

 

 

Dopo un solo anno dal saluto a Torino, ecco perciò un altro addio. Con il consueto tweet bilingue, Buffon ha detto di non poter accettare il rinnovo propostogli dal PSG e, salutando con le parole di Hemingway i suoi nuovi-vecchi tifosi, si è detto pronto a nuove esperienze umane e nuove sfide professionali. Era il 5 giugno 2019 e nei giorni seguenti si era ipotizzato un finale di carriera alla Del Piero, lontano dal suono ormai sinistro dalla musichetta dei campioni.

 

 

Ed effettivamente potevamo addirittura sentirci in colpa per non aver capito la sua scelta di andare a Parigi: una scelta che, dopotutto, era comunque dettata dalla voglia di giocare, di sentirsi ancora atleta, di sentirsi ancora uno dei migliori portieri al mondo. Come criticare la volontà di un uomo che non sente la necessità di abbandonare e, anzi, è disposto a lasciare dopo sedici anni la sua squadra pur di continuare a competere?

Viaggiare è più bello che arrivare. Battersi è più bello che vincere.

Ebbene ogni sentimento di umana vicinanza nei suoi confronti è stato spazzato via dalla voce, divenuta poi ufficiale, del ritorno, o meglio del rigurgito, alla Juventus: una ripetizione in una storia ormai senza una logica comprensibile. Se n’era andato per continuare a giocare, per non dover indossare giacca e cravatta a fianco di Pavel Nedved, per potersi sentire ancora giocatore. Tornerà, invece, da secondo portiere alle spalle di Szczesny, con un unico freddo obiettivo: superare le 647 presenze in serie A di Paolo Maldini. Gliene mancano solo sette per eguagliarlo, come dargli torto.

 

Non poteva chiudersi con questa immagine, dopo il clamoroso errore sul tiro di Rashford, la carriera di Buffon (Photo by Julian Finney/Getty Images)

 

 

Per alcuni il suo contratto annuale conterrebbe addirittura una specifica clausola con cui la Juventus si sarebbe impegnata a fargli giocare almeno 8 partite di serie A, per mettere definitivamente il suo nome in cima alla classifica di presenze nel massimo campionato italiano. Un successo che alcuni definirebbero di “corto muso”, se non fosse che il cavallo sconfitto è immobile, in pensione da quasi un decennio.

“Possono cambiare gli uomini, possono cambiare i dirigenti, però quello che ha di forte questa società sono i giocatori cui è stata tramandata una voglia di vincere, di primeggiare, che non è pari in nessuna altra squadra”.

Cosa spinge, dunque, uno dei più grandi campioni della nostra storia ad una simile forzatura? L’ossessione di vedere il proprio nome al numero 1, sempre. L’ossessione di vincere una Champions League, anche a costo di vederla giocare da seduto, in panchina. L’ossessione del vincere è l’unica cosa che conta – ma non era più bello battersi che vincere? L’ossessione di mettere alle proprie spalle Paolo Maldini, mica l’ultimo arrivato.

 

 

Il suo è un ritorno dettato esclusivamente da quello che gli americani chiamerebbero “stat padding” (gonfiare le statistiche): nessun romanticismo, nessuna nostalgia, nessun desiderio di rimettersi in discussione, nessuna nuova sfida. Solo la voglia di prendersi ciò che, secondo lui, gli spetta di diritto: il numero uno, la cima della classifica. Uno sbuffo di arroganza prima di salire sul palco per l’ennesima standing ovation.

 


 

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