Quando il luogo forgia il gioco ed il talento, da Silva a Pedri.
Quando gli chiedevano di che squadra fosse, lo scrittore uruguagio Eduardo Galeano amava definirsi un mendigo del buen fútbol, no importa el equipo (“un mendicante del buon calcio, non importa la squadra”). Una risposta che coglie magistralmente l’importanza del lato estetico del gioco, della fame di bellezza degli occhi che lo guardano. Se avesse potuto veder giocare Pedri, sicuramente Galeano avrebbe regalato parole sublimi: questo teenager canario sta stregando il mondo blaugrana e si è già imposto con invisibile autorevolezza nel Barcellona.
Non è neanche maggiorenne (farà gli anni il 25 novembre), è un ragazzetto gracile di 60 kg per 1,74 cm che però ha già dimostrato di essere pronto per grandi palcoscenici. La sua essenzialità, unita ad una tecnica purissima e all’agilità fanciullesca, rende difficile a Koeman non schierarlo; insieme all’altro enfant terrible Ansu Fati, anche lui tra le frecce nell’arco blaugrana, sperano di raccogliere il testimone che via via stanno lasciando Messi e compagni. Pedri in effetti coglie l’essenza del calcio tecnico, fortemente basato sul possesso e sul mantenimento del pallone tra i piedi.
Un calcio che va a nozze con la filosofia del tiqui-taca catalana, anche se Pedri non viene dalla Masìa: è stato acquistato quest’estate per 5 milioni dall’UD Las Palmas dove l’anno scorso, in Segunda, aveva già dimostrato di essere un prospetto interessante. Egli è un prodotto del calcio canario come Silva, Valerón e Pedro. Seppur molto diversi tra di loro, questi giocatori sono accomunati da un’ottima tecnica di base, un’agilità sempre elegante e una straordinaria capacità di lettura, che sembrano essere un tratto endemico dei calciatori delle islas afortunadas.
LE ISOLE FORTUNATE
Questo arcipelago vulcanico di sette isole è un posto del mondo piuttosto particolare in cui il sole perenne e le temperature miti rendono la vita più lenta, più facile da assaporare. Situate a 400 km dall’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale – la terra continentale più vicina – le Canarie sono geograficamente africane, ma politicamente europee.
Da quando gli abitanti originari, i Guanci, sono stati sterminati e assimilati dai conquistadores, le Canarie sono sempre appartenute al Re di Spagna nonostante Madrid disti tre ore di aereo. Sette isole divise in due province (Tenerife e Las Palmas), meta turistica e variopinto crocevia oceanico, uno di quei posti del mondo in cui le culture si incontrano per dare forma a nuovi sincretismi e paradigmi.
C’è quella castigliana, certo, ma c’è anche l’Africa e persino il Sud America: sono tanti i venezuelani, colombiani o argentini residenti, molti dei quali figli di canari emigrati il secolo scorso e che ora tornano in patria; d’altronde, anche Simón Bolívar aveva sangue guancio. Ci sono inglesi, tedeschi e olandesi che hanno scelto un cambio radicale di lifestyle; ci sono gli italiani, lavoratori stagionali e pensionati che hanno preferito il ritmo oceanico al caos del Belpaese. Ci sono i canari, ovviamente, con quell’accento impegnato a dimenticare la “s” finale e la loro passione per il buen fútbol.
Un cocktail multietnico che si consuma in mezzo all’Atlantico, sotto l’ombra di un vulcano di 3700 metri, con un clima unico al mondo: quell’eterna primavera che coccola e svezza gli abitanti, plasmandone le abitudini tra cui il calcio. Il sole canario arroventa le piazze e le spiagge per tante ore, undici o dodici mesi all’anno, permettendo ai bambini di giocare fino a tardi. E qui si capisce perché il pallone, a certe latitudini, si fonda inscindibilmente con i luoghi e ne sia poi condizionato.
IL PALLONE COME MIGLIORE AMICO
I ragazzini giocano all’aperto, spesso fa caldo: saper gestire i ritmi, riposarsi con il pallone, diventa fondamentale se si vuole giocare. Alle Canarie si forgia l’uso della pausa, la manipolazione dei tempi con continue dilatazioni e contrazioni dettate dalla velocità del tocco. Il calcio di strada, così come fa l’evoluzione, si adatta all’ambiente, e porta alla selezione di calciatori che hanno in comune questo approccio al gioco. Le squadre di club, tra cui spiccano il Tenerife e il Las Palmas – entrambe ora in Segunda – si sono accorte del processo e hanno improntato la loro filosofia agli stessi concetti: il pallone è al centro di tutto.
A Las Palmas, ad esempio, la cantera ha l’obiettivo esplicito di proteggere questo modo di giocare così primordialmente tecnico a discapito di altri stili e caratteristiche più “fisici”, muscolari. Gli appassionati – e sono tanti – riconoscono e apprezzano questo sforzo nella conservazione del piacere di giocare, anche se a volte si rivela poco utile o eccessivamente lezioso. Il calcio canario si è specializzato in tali aspetti: solo a Barcelona, con le dovute proporzioni, vi è un’impronta così marcata sullo sviluppo dei talenti.
Ha contribuito alla formazione di tanti professionisti (358 in Liga), attraverso lo sviluppo di un unicum nel modo di interpretare il gioco. Alcuni di loro, come Mauro Icardi e Salomon Rondón, sono cresciuti qui nonostante siano nati altrove; altri – negli ultimi anni Vitolo, Jonathan Viera e Guayre, oltre ai già citati Valerón, Pedro e Silva – sono arrivati in nazionale spagnola. Nel caso del Chino, si potrebbe dire che è la selección ad essere arrivata a lui: il suo ciclo coincide con il periodo d’oro del calcio iberico, che ha trovato in Silva una delle sue migliori rappresentazioni.
MADE IN GRAN CANARIA
David Silva è certamente il miglior prodotto calcistico delle isole (anche se qualche tifoso del Depor potrebbe avere qualcosa da ridire, ricordando l’incanto di Valerón): 125 partite con la Roja, con cui ha vinto tutto, una vita a incantare la Premier con il suo mancino. Silva tecnicamente rappresenta alla perfezione il prototipo del calciatore canario: i suoi primi controlli al velluto, le movenze eleganti e l’innata fantasia hanno l’imprinting che las afortunadas gli hanno regalato.
El Chino, così chiamato per la madre giapponese, prima di passare al Valencia cresce e sboccia a Gran Canaria in un villaggio di pescatori chiamato Arguineguin. È in questi luoghi, dove le onde dell’Atlantico scandiscono il ritmo del pallone per tutti i mesi dell’anno, che si produce la nascita dei futuri professionisti. Quando nel documentario sulla sua vita, Made in Gran Canaria, chiedono al padre – anche lui ex calciatore – il segreto che si cela dietro a questi posti, lui risponde: Seràn la playa y el pescado, “saranno la spiaggia e il pesce”.
LA MALEDICENZA PENINSULARE
Ma c’è un’altra cosa che nella Penisola si dice sui calciatori canari. No tienen huevos. Mancano di grinta, lontano da casa tendono a evaporare, non possiedono il carisma giusto per imporsi in palcoscenici blasonati. Per quanto siano bravi, fuori dalla singolarità, dalla comfort zone della terra natia, non riescono ad adattarsi.
E qui il lato meramente calcistico della questione si lega al cliché sul canario medio. Chi abita queste isole conosce bene la questione, finendo spesso vittima di pregiudizi riguardanti l’approccio alle cose della vita, giudicato non solo troppo tranquillo, ma finanche molle, amorfo, troppo fiacco per imporsi nel Continente. E quindi il canario lontano da casa diventa debole, un gattino spaurito e timido, incapace di esprimersi distante dal mite sospiro delle onde dell’Atlantico.
La cultura insulare in generale è soggetta a preconcetti affini, ma per l’arcipelago in questione si tratta di una spada di Damocle sempre più gravosa, che ha portato all’utilizzo del termine dispregiativo “godos” per definire gli spagnoli peninsulari che assumono un simile ed arrogante atteggiamento.
EL MILAGRO DEL FÚTBOL
La standardizzazione “didattica” nel calcio professionistico tende ormai a limare le diversità, a limitare la fantasia per il rendimento (e per compiti tattici da svolgere fin dall’adolescenza), impostando sempre di più la crescita dei nuovi calciatori sulle medesime caratteristiche, specialmente fisiche. La straordinarietà del particolare perde d’importanza di fronte all’ordinarietà del generale, che impone e non asseconda. Ma il calcio, si sa, è lo sport dell’inganno, e con maestria riesce a sfuggire alla tirannia dell’omologazione. Lo stile di gioco e la maniera di intenderlo rivelano il profilo delle comunità in cui si sviluppa, e rivendicano il diritto alla differenza.
Il calcio canario non fa eccezione, anzi rimane uno splendido esempio di identità collettiva definita e singolare. L’unicità geografica a cui è soggetto hanno caratterizzato lo stile calcistico di questo arcipelago in una maniera ben riconoscibile, ed ogni buon canario la esprime con orgoglio. Così il piacere della giocata non cede di fronte all’utilitarismo, il gusto del tocco resiste all’imposizione. E ogni tanto tira fuori un Silva, un Valerón o un Pedri a dimostrare al mondo del pallone che la diversità è una risorsa inestimabile. Uno dei tanti milagros del fútbol, che i palati fini non possono che apprezzare.
Copertina a cura di Matteo Viotto per Rivista Contrasti.