La compassione, per uno come Sinisa, sarebbe l'affronto peggiore.
Chiariamo subito, noi adoriamo Sinisa Mihajlovic. Lo stimiamo e rispettiamo profondamente, oltre ad averlo sempre difeso quando (quasi) tutti lo attaccavano. Non ci permetteremmo mai e poi mai di dargli lezioni, noi da dietro lo schermo di un pc a bacchettare un uomo al cui cospetto potremmo solo balbettare: sarebbe non solo ingeneroso ma anche assolutamente patetico. Come quelle schiere di moralisti e progressisti che gli allestivano gogne virtuali, condite a volte dai peggiori “auguri”, per aver sostenuto la Lega in Emilia Romagna o per la sua amicizia con Arkan: certe cose può capirle solo chi ha vissuto la guerra, comunque non certo un esercito di moralisti cresciuti nella bolla del benessere e in quella dei social network, aspiranti magistratucoli abituati a dare giudizi e a sputare sentenze se chiunque e qualsiasi cosa.
“Non condividerò mai quel che ha fatto (Arkan, ndr), e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita”.
Sinisa Mihajlovic
Ciò detto, permetteteci di essere sinceri e brutali: il Bologna ha fatto bene ad esonerare Sinisa Mihajlovic. E anche lui, che è un uomo vero, siamo sicuri che con il tempo lo capirà. Nelle ultime ore abbiamo letto molti commenti, provenire tanto da giornalisti quanto – soprattutto – dagli isterici e immancabili social network, che criticavano la società per l’esonero del tecnico lasciando intendere (più o meno esplicitamente) che il club non si fosse comportato nel migliore dei modi verso una persona in determinate condizioni. C’è chi ha parlato di “vergogna” , e chi di più autorevole sul Corriere dello Sport di scelta sbagliata: il direttore Zazzaroni in particolare, vecchio bolognese e storico amico di Mihajlovic, scrive di una “fine inaccettabile” e di “dolore forte, avvilimento che sfiora la vergogna“, addirittura di uno “scempio” che solo l’ad Claudio Fenucci avrebbe provato ad evitare.
Ha diverse ragioni, soprattutto quando afferma che Mihajlovic avrebbe potuto centrare la salvezza e ancor di più quando ricorda che il club “ha venduto tre pezzi importanti (Hickey, Svanberg e Theate) incassando 45 milioni, acquistando seconde e terze scelte e dovendo – con il ricavato delle cessioni – coprire il buco creato da alcuni obblighi d’acquisto scaduti“.
Eppure, almeno secondo chi scrive, ciò non esaurisce il discorso. D’accordo, il club non ha messo nelle mani di Sinisa la migliore squadra possibile, ma il lavoro di Mihajlovic non è solo quello di salvare una squadra come il Bologna, per di più in un campionato mai così mediocre. Per questo non ce la sentiamo oggi di unirci al coro di biasimo verso Saputo e i “nordamericani” del Bologna, dipinti un po’ troppo sbrigativamente come cinici businessmen interessati unicamente al profitto e al rendimento, e che anzi pure troppo hanno aspettato per una scelta ormai inevitabile. Ci fosse stata un’altra proprietà, probabilmente, avrebbe mandato via Mihajlovic da tempo.
Il problema è che a maggio è stato riconfermato un allenatore non più in grado di dare il 100% alla squadra, e che alla lunga stava tenendo il club troppo legato a sé, alla propria malattia, in quello che piano piano (non per sua colpa, ma per una prassi inevitabile) era divenuto una sorta di ricatto sentimentale. Si era creata quella spiacevolissima situazione in cui si vorrebbe lasciare una persona malata, e non lo si fa per senso del dovere. Con la sola differenza che qui stiamo parlando di un club di Serie A e di un allenatore, non di un rapporto tra due persone.
Sappiamo che Mihajlovic è rimasto per amore, che non ne ha voluto sapere nulla di accordi e risoluzioni consensuali perché convinto, ancora, di poter fare il meglio per il Bologna e la sua gente. Ma ormai, almeno secondo chi scrive, non era più così. Il problema di questo inizio campionato d’altronde non sono stati tanto i risultati, con tre pareggi e due sconfitte in cinque gare, quanto invece i segnali lanciati dal Bologna: una squadra spenta, che dà la sensazione quasi di andare avanti per inerzia (e per Arnautovic) e in un limbo ormai costitutivo. Ancora legata al suo allenatore, così come una parte della piazza, ma in una relazione che stava finendo per svuotare tutti. In queste situazioni uno scossone, uno shock, è inevitabile, e probabilmente è stato anche tardivo.
D’altronde il calcio è così, va avanti con i risultati non con la morale. E questo vale soprattutto per gli allenatori. «Nel calcio, come si suol dire, ci sono allenatori esonerati e quelli che saranno esonerati», parola di Sinisa.
Quanto in fretta uno viene mandato via lo decide la proprietà, valutando i risultati e i progressi della squadra, non lo stabiliscono – per quanto sia brutto dirlo – i sentimenti e l’attaccamento, che restano forti come prima. Per questo i due piani, quello professionale e quello umano, vanno tenuti ben distinti. Secondo la proprietà del Bologna Mihajlovic non era più il tecnico migliore e l’unica responsabilità, se vogliamo, è stato non esonerarlo prima (un’indecisione in buona fede, dettata dalle circostanze). Ma lasciateci chiudere con un pensiero: per chi intende la vita come noi, per chi la vive come Mihajlovic, il modo migliore per rispettare un uomo “malato” è non trattarlo come tale. Ecco perché, se dobbiamo, critichiamo l’esonero da un punto di vista tecnico, ma non da un punto di vista umano. Che la compassione, per uno come Sinisa, sarebbe l’affronto peggiore.