Unum castigabis, centum emendabis solevano dire gli antichi romani. Così come Mao Tze Tung, al quale vengono attribuite rigide implementazioni del motto. Ma “punirne uno per educarne cento” è in realtà un insegnamento difficile da connotare storicamente e politicamente: fin quando esisterà una qualunque società di homo sapiens esisteranno i patiboli sui quali esporre i cattivi esempi, così come le medaglie per celebrare le giuste azioni.
Va da sé che in una società terrorizzata da un nuovo virus contagiosissimo, quale era il nostro bel paese annegato dalla “prima ondata” di Covid-19, i comportamenti catechizzati non potevano che corrispondere in toto a quelli impartiti nei canili agli animaletti troppo agitati: “state calmi”, “cercate di non spelacchiarvi”, “andrà tutto bene” – se appendete l’arcobaleno –, ma cosa mostrare per suffragare il tutto con l’esempio?
Qualcuno si sarà accorto che in mezzo alla piazza c’è stato il calcio.
A partire da marzo, a turno, i calciatori più sfigati d’Italia e del mondo hanno iniziato a tacchettare sul legno di un virtuale patibolo social/televisivo, esposti alla pubblica commozione nonché alla voyeuristica attenzione di chi nel frattempo si augurava di non essersi beccato il misterioso male via Zoom, dopo la canzoncina delle 18:00. Tutto il paese pregò quindi per Dybala, il talento juven-argen-tino che fu tra i primi a scoprirsi malato e poi a riprendersi, miracolosamente, qualche tempo dopo. Erano i tempi in cui le covid-celebrities facevano notizia, i loro nomi stimolavano il clickbait più selvaggio e del virus, fondamentalmente, nessuno sapeva nulla (tanto meno i virologi).
Fu poi la volta delle positività a grappoli di Fiorentina e Sampdoria, preludio del cluster genoano che gettò serie ombre sulla ripresa del campionato: diciassette calciatori positivi a fine settembre, con annesso rinvio del match contro il Torino. E così, mentre i virologi facevano ancora a gara di isterismo televisivo e sul web giravano tutorial per lavarsi le mani, sotto gli occhi dei tifosotti ancora in preghiera tornavano a calcare i campi di calcio i positivi della settimana prima, splendidi splendenti, a dimostrare che quel tasso di mortalità di zero virgola qualcosa era cosa vera.
In un articolo del New York Times, pubblicato il dieci maggio dello scorso anno, la giornalista Gina Kolata si chiedeva se le pandemie avessero una fine esplicita: «Gli storici distinguono due momenti conclusivi per le pandemie: la fine sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia». Quindi storicamente parlando, secondo Kolata, è già capitato che una pandemia sia terminata prima socialmente che sanitariamente, «perché la popolazione si è stancata di vivere nel panico e ha imparato a convivere con la malattia».
Considerando il decorso “sanitario” e quello “sociale” della pandemia da Covid-19, va riconosciuto allora il ruolo fondamentale che il “patibolo calcistico” ha svolto in maniera totalmente inconsapevole: il timore di veder morire i propri beniamini è via via sfumato insieme alla percezione generale del pericolo, le positività hanno smesso di fare notizia e si sono anche affievoliti, automaticamente, i pregiudizi verso le categorie di presunti untori (ricordate i tavoli vuoti dei ristoranti cinesi, i runner, o i carabinieri affondare nelle spiagge del litorale a caccia di solitari latitanti in libertà?).
Certo tutto ciò è successo per le motivazioni “sbagliate”, e il calcio non è ripartito per dare un segnale di speranza al Paese bensì per alimentare il business e salvare se stesso. Eppure, il risultato finale rimane.
Il football è stato in tutto il mondo un dispositivo educativo senza pari per raggio d’azione e autorevolezza, un vaccino contro la paura del quale hanno usufruito in Italia più di 30 milioni di persone, ovvero gli appassionati a vario titolo del gioco. Noi stessi i primi tempi, vicini ai tifosi e inquietati dalla deriva squisitamente economica del pallone, avevamo visto nel calcio un qualcosa di superfluo; eravamo però in balia degli eventi e del senso comune, incapaci, in quel momento, di comprendere quanto un “esempio” come quello calcistico – non importa se positivo o negativo – potesse aiutare le persone ad esorcizzare il virus, dunque a conviverci.
Tornano così in mente le parole del ministro Speranza e di chi, come lui, con supponenza parlava di “ben altre priorità” rispetto alla ripresa dei calci al pallone. Parole accolte con sdegno da chi sbandierava, al contrario, le dimensioni dell’industria e gli interessi economici in ballo, già pesantemente colpiti dalla chiusura degli stadi. Col senno di poi, benaltristi gli uni e gli altri.