Chiesa, cultura popolare, stadio: l'evoluzione dei cori in terra anglosassone.
“No one likes us, no one likes us / No one likes us, we don’t care! We are Millwall, super Millwall / We are Millwall from The Den!”
Ci troviamo nel sud di Londra, è una giornata uggiosa, abbiamo qualche pinta di troppo in circolo e in “The Den”, nel cuore della working-class, è appena partito spontaneamente questo perfetto esempio di terrace chant. Oltre ad essere tra i più riconoscibili in Inghilterra, questo coro è tra i più semplici e belli tra quelli (tanti) d’Oltremanica: doctrina, brevitas e labor limae.
No, non siamo a Roma nel I secolo a.C. tra i poetae novi, anche se i primi a cantare per gli atleti sono stati proprio i romani, che durante le corse delle bighe accompagnavano i carri al traguardo con il grido ritmato “Nika! Nika!”. Nessuno quindi intende accostare la corrente letteraria al tifo inglese, anche perché come diceva qualcuno in Fascisti su Marte: “Inglesi, gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare”. Eppure, anche i cori da stadio sono una forma di poesia e, per caratteristiche, c’è un sottile filo che li lega al più alto genere letterario, in particolare allo stile neoterico.
Infatti, se si ha intenzione di creare qualcosa che permanga nella mente di chi ascolta, la melodia e la brevità sono importanti ma è la doctrina, come per i neoterici, a fare la differenza. Senza la conoscenza della propria storia, l’orgoglio verso i colori sociali e allo stesso tempo l’irriverenza e un po’ di sano veleno verso l’avversario, si rischia di creare una semplice filastrocca.
Il Tottenham segna la rete del 3-0, e i tifosi del Millwall cantano più forte di prima
La prima volta non si scorda mai
Quando da bambini si entra per la prima volta allo stadio, ciò che cattura la nostra attenzione non è il riscaldamento dei nostri beniamini ma il lento e costante riempirsi di quel settore che durante la partita sarà protagonista tanto quanto i giocatori. L’aumentare costante del volume dei cori è un’emozione che non lascia indifferente nessuno: dal semplice spettatore al più sfegatato dei tifosi.
Pier Paolo Pasolini dichiara: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. […] Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo.”
L’autore di Ragazzi di Vita sottolinea due concetti, che nonostante siano stati pronunciati 50 anni fa restano estremamente contemporanei: l’importanza dell’interazione tifoso-giocatori e il calcio come rito sacro. Anche i più scettici, abituati a guardare la partita a casa, si saranno accorti in questi mesi di stadi chiusi che un “immergiamoci” di un telecronista (a caso) o una coreografia computerizzata non vale quanto un singolo urlo di un tifoso. Tutti i riti sacri poi, che si tratti di cristianesimo, islam, paganesimo, hanno i propri rituali da seguire, diversi per ognuno, ma con un’azione comune a prescindere dal credo: il canto. Agostino d’Ippona, passato alla storia come Sant’Agostino, nel Sermo336 scrive: “il cantare è proprio di chi ama”, frase poi modificata nei secoli con “chi canta prega due volte”.
Dalla guerra agli Skinhead
Così, come il fedele canta per Dio (o gli dèi), anche il tifoso canta per la propria squadra del cuore, senza snaturare il motivo di fondo che lo lega agli altri culti: l’amore. I cori da stadio nascono in Inghilterra alla fine dell’Ottocento e sia da studiosi che da musicisti vengono considerati “the one surviving embodiment of an organic living folk tradition” (Martin Carthy).
Inizialmente si tratta di canzoni di guerra rivisitate come il “Yi! Yi! Yi!” dei tifosi del Southampton o “Rowdy Dowdy Boys” dei supporter dello Sheffield United, ma l’unica ad essere arrivata alle odierne gradinate è “On the Ball, City” composta da Albert T Smith, dirigente del Norwich City. Il più antico insieme a “I’m forever blowing bubbles”, inno ufficiale del West Ham, che però non ha nulla a che fare con la guerra in quanto è ripreso da un musical di inizio ‘900, The Passing Show, e poi adottato dagli Irons grazie a Charlie Paynter, loro tecnico.
È però alla fine degli anni ’60 che si ha il vero sviluppo dei terrace chant. Uno dei motivi è l’affollamento delle football ends, nome delle gradinate dietro il portiere, da parte degli hooligan, ragazzi “violenti, indisciplinati e ribelli”. I tifosi pacifici vengono cacciati dai più facinorosi creando così un feudo skinhead, i primi tifosi ad essere considerati hooligans.
Gli Skinhead sono una sottocultura che prende piede agli inizi degli anni ‘60 tra ragazzi anarchici, che provengono da quartieri popolari e odiano visceralmente chiunque sminuisca la classe operaia. La loro passione si trasforma in lotta contro le ingiustizie sociali. Nonostante oggi esistano più tipologie di skinhead (Skin88, S.H.A.R.P., RedSkin) tutte estremamente politicizzate, in origine gli Skinhead sono fuori da qualsiasi frangia più o meno politica.
La loro forza si trova nel codice di comportamento. La loro estetica, ovvero la testa rasata e le Dr. Martens con la punta in metallo, dalla quale viene rigorosamente tolta la parte in pelle, non è una semplice questione di moda ma il tipico abbigliamento di un operaio di fabbrica. Dopo il pub, è lo stadio il loro luogo di ritrovo principale. Blood sweat and beers è il motto che li accompagna ogni domenica. La musica punk, ska e Oi, carica di vivacità e protesta, prende il posto del punk sociale e impegnato politicamente. “War on the terraces” dei Cockney Rejects o “I hate cops car” dei The Exploited sono solo alcuni esempi musicali.
Gli Skin sono così i pionieri del fenomeno delle Firm, un movimento giovanile proveniente dal ceto popolare che ha come unico scopo la ribellione. Inevitabilmente si uniscono a loro in pochissimo tempo altre sottoculture. Cominciano così a far parte degli hooligans, in Inghilterra, terreno da sempre fertile per ogni tipo di disubbidienza giovanile contro il sistema, anche i Mod, i Rude boy e gli herbert. Diversi per abbigliamento, musica ascoltata e stile di vita ma uniti dalla fede calcistica.
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Dai cori di chiesa ai chant degli stadi
Se fuori dallo stadio ci si fa riconoscere con la violenza, dentro lo stadio si avverte e spaventa l’avversario di ciò che avverrà più tardi, attraverso la voce. Non è possibile farlo però se si cantano canzoni punk, in quanto solo una minoranza dei tifosi potrebbe far parte dei cori. Vengono quindi abbandonate le canzoni di guerra in favore di motivi più riconoscibili anche al grande pubblico. Inoltre, non va sottovalutato che proprio negli anni ’60 le bande musicali composte da ottoni abbandonano il terreno verde in favore degli altoparlanti, i quali riproducono le hit del momento. Musica, cultura popolare inglese e calcio si fondono indissolubilmente. Canzoni sacre e profane vengono rimodellate con il fine di sostenere la propria squadra o di insultare l’avversario, anche per motivi extra-calcistici, principalmente razziali e religiosi.
“Glory, glory, Man United
Glory, glory, Man United
Glory, glory, Man United
As The Reds Go Marching On On On”.
Inno, non ufficiale, ma canzone più famosa associata ai Red Davils; è ripresa da “Glory, glory Halleluja”, canzone che deve la sua diffusione alle chiese cristiane. Ne farà una cover anche Elvis Presley e ci è impossibile non citare la versione rivisitata dai fratelli Gallagher, noti tifosi del Manchester City, i quali ad ogni concerto degli Oasis non perdevano occasione per intonare “Who the fuck are Man United? (x3) And the reds go marching? On! On! On!”.
A volte è impossibile e inutile attribuire la paternità di un football chant ad una singola tifoseria, tante sono le volte che viene utilizzato da supporter differenti. È il caso della più che conosciuta “When the Saints Go Marching in”. La canzone originale è uno spiritual, un gospel, dalle origini sconosciute, utilizzata ai cosiddetti funerali jazz, in particolare a New Orleans, Louisiana. La sua versione più famosa è stata composta da Luis Armstrong. Entra negli stadi come inno sia del Tottenham che del Southampton per poi essere cantato nelle arene di tutta Europa. È considerato tra i più suggestivi da ascoltare. Si parte cantando la strofa molto lentamente per poi aumentare gradualmente la velocità.
Un coro che ha fatto scuola
Il legame con la terra anglosassone
Se non ci interessa stare ad indagare sulla genealogia è necessario però sottolineare lo stretto legame che questi cori hanno con la propria terra. La stragrande maggioranza prende infatti le sue melodie da canzoni popolari che hanno a che vedere con il mondo anglosassone.
I tifosi del Middlesborough, ad esempio, hanno fatto loro una canzone uscita nel 1962 dei Petula Park, precisamente Chariot. La sua versione più conosciuta è I will follow him di Little Peggy March e deve la sua fama al film Sister Act, di cui sarà colonna sonora. Ovviamente il tutto splendidamente riadattato in:
“We love you, We love you, We love you,
And everywhere we’ll follow, We’ll follow, We’ll follow,
Coz we support the Boro, The Boro, The Boro,
And that’s the way we like it, We like it, We like it,
Oh oh oh oh oh oh […]”.
A volte la fama dei cori riesce a superare quella delle canzoni stesse. Difficilmente Richard Rodgers e Oscar Hammerstein avrebbero immaginato che quella che avrebbe dovuto essere la colonna sonora di un musical, sarebbe poi stata reinterpretata nel 1963 da Gerry and the Pacemakers e già dal 1964 avrebbe cominciato a infiammare Anfield, casa del Liverpool e i suoi 60 mila spettatori al suon di:
“Walk on through the wind
Walk on through the rain
Though your dreams be tossed and blown
Walk on, walk on
With hope in your heart
And you’ll never walk alone
You’ll never walk alone”.
L’inimitabile ironia dei cori inglesi
La vera bellezza però che hanno la maggior parte dei cori inglesi è la spontaneità. “Let’s pretend we scored a goal (x3)” con tanto di finta esultanza, oppure “we lose every week, we lose every week, you are nothing special, we lose every week” dei tifosi del West Ham contro il Manchester City, sono qualcosa di semplicemente straordinario, impossibile da vedere se non in Gran Bretagna.
Il Tottenham perde 4-0 in casa del Liverpool: ed è qui che il genio entra in campo, gridando dagli spalti
Un coro, molto pragmaticamente, è buono se viene cantato da tutti. In Inghilterra per far cantare 3 mila persone in trasferta, ad una partita di terza divisione, basta ripetere fino allo sfinimento “He is eating a pie, does he want some sauce? He’s got some brown!” semplicemente perché un tifoso sulle tribune sta mangiando un pezzo di torta.
La partita è altrove, sugli spalti
In fondo è proprio questo che rende magici gli spalti inglesi. Nessuno come loro ha un’identità così marcata. Ciò non vuol dire che non esistano bei cori se non oltre lo stretto della manica, tutt’altro, ma nessuna nazione, come la loro, sugli spalti, è così riconoscibile.
Per questo motivo, agli occhi di chi scrive, c’è da inorridire quando si legge che in Inghilterra stanno prendendo piede i cori registrati e gli striscioni digitali. Il calcio è un rito sacro, lo stadio è il suo tempio e cantare è una dimostrazione di fede. Parafrasando Ezra Pound, ciò che è sacro non è in vendita e senza dubbio è arrivato il momento per i tifosi inglesi, come in realtà già stanno già facendo i supporter del Manchester United, di protestare: lo stadio non è un teatro eppure qualcuno in Premier League sembra esserselo scordato. Abolendo il tifoso e il suo ruolo si sta cancellando una parte, piuttosto significativa, della cultura popolare inglese (oltre che del football nella sua essenza profonda).