Ma cosa c'è di vero nella presunta correlazioni tra le morti recenti e le sostanze proibite?
Le lacrime sgorgate dal mondo del calcio italiano per le morti di Gianluca Vialli e Sinisa Mihajlovic sono state – in quasi tutti i casi – sinceramente intrise di dolore, lealmente rispettose dell’angoscia della malattia. A distanza di mesi, però, ecco emergere un retrogusto aspro, un riverbero virulento che ne inquina il ricordo. La contiguità – temporale ed eziologica – delle due scomparse ha infatti catalizzato l’attenzione verso il grande, vecchio elefante della stanza del calcio italiano: il doping. Un vaso di Pandora tornato ad aprirsi, a vomitare le ombre di un periodo – quel ventennio d’oro a cavallo degli anni ’80 e ’90 – ancora difficili da diradare.
Soprattutto i diretti interessati, ovvero gli ex calciatori – tra cui Dino Baggio, Marco Tardelli e Massimo Brambati – hanno interpretato la scomparsa di Vialli e Mihajlovic come un pericoloso, potenziale segnale per la loro salute. La paura che l’abuso incondizionato di sostanze dopanti, tipico di quel periodo, possa in qualche modo aver favorito l’insorgere di malattie è legittimamente presente nei loro pensieri. Ma al di là delle dietrologie, c’è davvero un possibile legame tra i due fenomeni? Cosa sappiamo davvero a riguardo?
Nell’epoca della tecnica, la preparazione fisica degli atleti sportivi – calciatori inclusi – ha subito miglioramenti vertiginosi nell’arco di qualche generazione. Confrontare una partita di anche solo trent’anni fa con una attuale può risultare quasi ridicolo per le abissali differenze espresse dal punto di vista atletico. Questa transizione verso l’efficienza fisica ha vissuto uno sviluppo troppo spesso incontrollato ed incurante della salute dei diretti interessati. Se aumentare la performance diventa l’unico mantra, il prezzo da pagare smette di essere importante. Così, l’abuso di sostanze che incrementassero le prestazioni è stato – ed è – uno strumento abbondantemente sfruttato da molte società.
I principi attivi continuamente sfornati dalle case farmaceutiche venivano somministrati ai calciatori come fossero caramelle per cavie, senza curarsi dei possibili – ma al tempo sconosciuti – effetti collaterali. Dorelan, Neocromaton, creatina, corticosteroidi, anfetamine, epo: fiumi di pasticche e soluzioni iniettabili – alcune di esse verranno dichiarate illegali di lì a qualche anno – assunte con noncuranza dei dosaggi. Proprio l’eccessivo sovraddosaggio, come confermato anche da Lamberto Boranga, ex portiere divenuto medico specializzato in medicina sportiva, sembrerebbe essere il nucleo della questione.
«Il medico era incapace di tenere sotto controllo la situazione. Poi erano gli stessi calciatori che una volta percepiti gli effetti positivi di dosaggi standard sceglievano di prendere quantità del tutto arbitrarie, e non certo al ribasso».
Un meccanismo nocivo perpetuatosi per decenni in tante squadre, prima che le denunce di Zeman iniziassero a farlo venire a galla. Proprio lo stesso Zeman però, interpellato a riguardo, non condivide la connessione tra le morti di Vialli e Sinisa e il doping: «Le malattie arrivano a tutti. Strano però che certi calciatori si spaventino ora e non quando prendevano certe sostanze». Dato per assodato l’uso massivo di integratori ed altre sostanze nella serie A di quel periodo, affermare che esista una correlazione con l’insorgere di patologie – tumori, nello specifico – è tutto un altro discorso.
La letteratura scientifica – ovvero la raccolta di ricerche sull’argomento – è scarna di risultati che confermino questa associazione, in primo luogo per la mancanza di elementi da analizzare. Mentre esistono numerosi lavori che hanno evidenziato un rischio superiore, per i giocatori di movimento, nel contrarre malattie neurodegenerative come la SLA (individuando tra le cause principali i colpi di testa), la produzione scientifica è arida sul tema tumori-doping. Sono presenti studi che hanno analizzato retrospettivamente la prevalenza di certi tipi di malattia nei calciatori italiani, ma nessuno ha mai dimostrato un rapporto causa-effetto con l’abuso di farmaci, in primis non avendo sufficienti dati sul consumo.
Solo uno studio del 2005, analizzando i casi di 350 calciatori italiani in attività tra il 1960 e il 1996, ha evidenziato un rischio doppio di contrarre alcuni tumori specifici (fegato, pancreas e colon). Troppo poco per poter parlare di una vera correlazione con il doping, che ha bisogno di basi molto più solide. D’altra parte però, il metodo scientifico ci dice che anche escluderla tassativamente sarebbe un errore. Dimostrare a priori gli effetti collaterali che certe sostanze possono avere a lungo termine sul corpo umano è infatti difficile, e la storia della medicina è piena di esempi che vanno in tal senso.
Considerando il tempo trascorso da quel periodo di grande abbuffata, alcune possibili conseguenze croniche potrebbero non essere del tutto venute alla luce. Di certo, se il numero di casi sospetti dovesse aumentare, la ricerca scientifica sarebbe la prima ad accorgersene o quantomeno ad approfondire la vicenda. Al contrario, a quanto pare, delle istituzioni sportive. Come affermato dagli stessi calciatori interessati, infatti, un certo velo di omertà sembra aleggiare ai piani alti della FIGC.
Inutile nasconderlo, il tarlo del doping non è un argomento di conversazione gradito alla federazione. Che oltre a mostrarsi riluttante nel fornire informazioni sui dati di consumo di quel periodo, negli anni ha scoraggiato i tesserati – come riportato dallo stesso Brambati – a parlarne apertamente.
«A volte invidio i miei colleghi che fanno antimafia, perché a loro almeno qualche volta un pentito capita. Io non ne ho trovato nessuno».
sentenzia ironicamente Raffaele Guariniello, ex pm del processo che portò alla prima legge antidoping. Questo ostracismo nei confronti dell’indagine mostrato dai diretti interessati è dettato da una serie di ragioni – dal timore di ritorsioni alla incapacità di ammettere i propri errori – dal sapore squisitamente italiano. Ricorda – prosegue Guariniello – quello dei lavoratori dei processi per le malattie occupazionali, che, se ancora alle dipendenze del proprio datore di lavoro, si rivelano dei “pessimi testimoni”.
Anche per questo, secondo Guariniello, le indagini dell’epoca non riuscirono a denudare completamente il sistema. Ma ora gli anni e la paura stanno irrobustendo il coraggio degli ex atleti, che hanno sempre meno da perdere. Dunque qualcosa potrebbe cambiare? Staremo a vedere. Considerando la modesta autorevolezza della giustizia sportiva a riguardo, indagini di tale portata dovrebbero essere guidate dalla giustizia ordinaria. Ammesso, e non concesso, che si voglia veramente scoperchiare il vaso di Pandora.