Calcio
29 Gennaio 2020

I difensori non sanno più marcare?

Come si è evoluto il ruolo del difensore negli anni tra cambiamenti tecnici, tattici e regolamentari.

Sabato 7 dicembre 2019, Londra, Tottenham Hotspur Stadium: uno di quei momenti metafisici in cui gli dei del calcio decidono di ingraziarsi gli esseri umani facendoli dissetare con l’ambrosia più dolce del mondo, il coast to coast. Heung-Min Son, in arte “Sonaldo”, è l’eletto, il prescelto, colui il quale ha il compito di mettere in comunicazione, per pochi secondi, due mondi apparentemente lontani: la terra e l’olimpo del calcio.

Il coreano sprinta, con il Burnley già sotto due reti a zero, uscendo da un corner con la velocità e la potenza di Varenne e l’eleganza di Carla Fracci, trasformando infine la sua transumanza in goal. Se da un lato però l’esaltazione della tecnica del coreano è stata analizzata da ogni angolazione possibile, dall’altro non si è preso in considerazione cosa abbiano pensato quei “cari amici difensori” a cui Totti dedicò una poesia degna, ça va sans dire, di Trilussa.

Bergomi nella sua analisi fa notare come il difensore moderno, per paura o per atteggiamento, sia quasi restio all’intervento, preferisca insomma “scansarsi” ed affidarsi al collettivo piuttosto che intervenire.

Alla solitudine dei difensori, alle loro ansie e alla loro evoluzione è dedicata ben poca letteratura se paragonata a quella dei colleghi che giocano qualche metro più avanti, eppure qualcuno ci ha pensato: Beppe Bergomi. Dopo il magnifico gol di Son, lo Zio si è soffermato sulla rete del coreano analizzando l’atteggiamento e i movimenti dei difensori moderni, apparentemente lontani dal concetto di difensore che incarnava lo stesso Bergomi.

Egli ha fatto notare come il difensore moderno, per paura o per atteggiamento, sia quasi restio all’intervento, preferisca insomma “scansarsi” ed affidarsi al collettivo piuttosto che intervenire. È una tesi, suffragata da immagini e video, che trova terreno fertile in coloro che interpretano il calcio in maniera rude, maschia, un po’ anni ’90 (come limite massimo). Immagini di difensori svagati o impauriti dall’affrontare l’uno contro uno non sono poi così rare, tanto da far sorgere spontanea la domanda: i difensori non difendono più, oppure hanno solo mutato la loro ars defendendi?

Qui il bellissimo gol della Juventus contro l’Udinese in Coppa Italia: dialogo straordinario, ma possibile che nessun difensore provi nemmeno a sbilanciare/ostacolare uno tra Higuain e Dybala?


Per rispondere a questa domanda esistenziale vi sono due semplici opzioni. La prima, quella che sorregge l’analisi romantica dello “zio”, si fonda sull’abuso nel calcio moderno del cosiddetto groupthinking, un’abitudine sociale ben descritta da William Safire in un articolo sul New York Times dell’agosto 2004. La teoria di Safire si basa sulla tendenza di deresponsabilizzazione dell’individuo che si affida all’idea del gruppo, denotando mancanza di alternative.

Abbracciando questa prima opzione, naturalmente, si tende a considerare il difensore come un soggetto spersonalizzato nella macchina del collettivo, in cui invece trova riparo. Ecco quindi che abbiamo un giocatore il quale agisce contando maggiormente sul gruppo, e che preferisce rispettare dinamiche corali piuttosto che affidarsi alla capacità del singolo di intervenire, con decisione e personalità.

In sostegno della seconda opzione sull’attitude del difensore moderno, invece, si può risalire fino al chimico francese Lavoiser. Lo scienziato già nel ‘700 scardinava i punti chiave della chimica e della fisica fino ad allora conosciuti, con una frase rimasta impressa nella storia:

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».

Il buon Lavoiser non avrebbe mai pensato che questa frase potesse essere usata per spiegare l’evoluzione di un ruolo calcistico ma, come qualsiasi materia oggetto di studio, anche il calcio non fa eccezione se valutato scientificamente. Vediamo a questo punto come.

difensori
Per concludere con l’opzione 1, vi ricordate il derby di Milano con la tripletta di Icardi? Qui il secondo gol nerazzurro: mentre Perisic crossa in mezzo, al 9 dell’Inter basta staccarsi per ricevere e concludere a rete, mentre i difensori del Milan guardano unicamente il pallone (Inter v Milan 3-2, 15/10/2017).

Marco Bucciantini in uno splendido articolo su Treccani, intitolato “L’Ajax di Michels, rivoluzione nel Calcio”, ci insegna, prendendo in prestito le parole di mister Capello, che i momenti storici di evoluzione calcistica portano in dote tre nomi: Rinus Michels, Arrigo Sacchi e Pep Guardiola; come Lavoiser, questi tre scienziati del calcio hanno cambiato le regole del gioco. Cosa abbiano in comune l’Olanda di Michels, il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola è, almeno di base, facilmente intuibile: visione del tempo e dello spazio al servizio del gioco.

Con questi tre allenatori, tre monumenti al calcio, cambia letteralmente il modo di pensare il gioco stesso: non si aspetta la palla nelle proprie zone di marcatura ma si aggredisce cercando di recuperarla. Lo spazio diventa un uomo in più da sfruttare, e anche il cosiddetto falsonueve altro non è che spazio libero da aggredire. La ventata olandese-spagnola, di Cruyff prima e Guardiola poi, si basa proprio su questo concetto di spazio e possesso, sul minimo comune denominatore per cui tutti i giocatori devono partecipare unitariamente alla manovra.

Seguendo la tesi della trasformazione, quindi, i difensori moderni non presentano alcun difetto di fabbrica anzi rappresentano il più lucente gingillo tecnologico, a livello calcistico.

In questo scenario anche i ruoli cambiano nell’interpretazione. I mediani si irrobustiscono, l’attaccante arretra aiutando la manovra, i terzini diventano ali aggiunte (spesso facendo entrare nel campo gli esterni alti) e i difensori partecipano attivamente al gioco in fase di costruzione. Seguendo la tesi della trasformazione, quindi, i difensori moderni non presentano alcun difetto di fabbrica, anzi rappresentano il più lucente gingillo tecnologico, a livello calcistico, senza il bisogno di essere stati brevettati dalla tentacolare Apple.

Il difensore moderno deve non solo impedire all’attaccante di fare gol ma, anche e soprattutto, impostare l’azione con un controllo sapiente della manovra dal basso, tenendo spesso alta la linea e attuando un pressing aggressivo ma intelligente. Interpreti del ruolo come Bonucci, Romagnoli, Mancini solo per restare in Italia, ma anche Van Dijk, Ramos, Varane e Stones sono molto lontani dall’interpretazione antica del difensore. E se ogni tanto perdono qualcosina a livello di marcatura individuale, è perché pensano in un altro modo e devono saper fare molte più cose.

Il difensore è tenuto sempre più spesso a trasformarsi in un regista: quest’anno, in emergenza infortuni, proprio la qualità tecnica di Mancini ha suggerito a Fonseca di spostarlo a centrocampo (Foto di Paolo Bruno/Getty Images)

A questo proposito viene in aiuto ai sostenitori della trasformazione positiva del difensore un professionista che, il ruolo, lo ha interpretato in carriera: Daniele Adani. L’ex centrale di Inter ed Empoli su Rivista Undici, in un articolo scritto di suo pugno dal nome “Teoria e tecnica del difensore centrale”, scrive:

“Oggi la prima caratteristica di un buon difensore è saper pensare nello stesso modo dei propri compagni di reparto. Ecco il primo aspetto dell’evoluzione del difensore di oggi rispetto a quello di trent’anni fa. Nel calcio moderno, il difensore ha parametri fisici, organici, di forza, di intensità uguali, o che si differenziano poco dall’esterno, dal centrocampista, dalla punta. È un atleta che non sta più in disparte, slegato dalla squadra, ma sale, accompagna, ricopre più metri in campo, lo fa scivolando sugli esterni, muovendosi in generale molto di più: ed è sempre coinvolto nella manovra”.

Da non sottovalutare poi come l’evoluzione delle regole del gioco ha cambiato il modo di interpretare i ruoli nel calcio. Dal concetto di ultimo uomo si è passati all’interpretazione della chiara occasione da rete, fino ad arrivare al DOGSOdenying an obvious goal-scoring opportunity – introdotto dall’International Football Association Board nel giugno del 2016. In particolare l’IFAB ha precisato che, per non incappare nel cartellino rosso, il giocatore difendente deve provare a recuperare la palla senza l’ausilio delle braccia (strattonate, trattenute, sbracciate, gomitate).

Per questo motivo i falli commessi in seguito ad un tentativo di recupero con i piedi in area – un intervento cosiddetto “genuino”, in cui il difensore ha possibilità di contendere il pallone – vengono sanzionati non più con la massima sanzione bensì con l’ammonizione ed il rigore; resta invariata la regola invece per il fallo da ultimo uomo al limite dell’area, che continua ad essere punito con il cartellino rosso. Il DOGSO in definitiva, e più in generale l’evoluzione normativa complessiva, muovono chiaramente verso una differente interpretazione del ruolo, che premi le capacità tecniche del difensore e favorisca lo sviluppo del gioco.

Qui invece il miglior rappresentante italiano, probabilmente mondiale, della “vecchia scuola”: anche Chiellini però ha dovuto apportare modifiche e migliorie al suo gioco, soprattutto in fase di impostazione (Foto di Alex Livesey/Getty Images)

In conclusione, quella che una volta era la norma è divenuta oggi invece l’eccezione. I difensori fanno mediamente più fatica nella semplice marcatura perché, essendosi modificato l’impianto del gioco (tecnica, tattica, regole), questi hanno adattato le proprie caratteristiche ai “recenti” sviluppi. L’eccezione è quindi rappresentata dai marcatori puri, e ormai anche un difensore abile principalmente in marcatura, se vuole arrivare ad alti livelli, deve necessariamente dare garanzie in fase di costruzione – lo stesso Chiellini è migliorato molto da questo punto di vista.

Certo, non vogliamo mentirvi: secondo noi un po’ dell’epica del difensore, di quell’aura leggendaria che avvolgeva le sue gesta, si è inevitabilmente persa; e non ci entusiasmano i nuovi centrali che sembrano più bravi come registi che, invece, come temibili avversari. Ciò non significa che rimpiangiamo la visione tradizionale, quasi primordiale del ruolo, né la celebre sentenzia di Montero «o passa la palla o passa la gamba, entrambe insieme no» – o forse un pochino nostalgici lo siamo – ma personalmente preferiremo sempre un Chiellini ad uno Stones: non c’è paragone.

E se ormai il difensivismo è quasi considerato un affronto ai tempi che avanzano, al progresso calcistico che chiede altro, noi dovremmo in realtà ricordarci delle nostre radici: nessun passatismo, nessun “santo catenaccio” breriano, solo la consapevolezza che, in Italia, si è sempre vinto con la miglior difesa. Come questa si evolva nel tempo lasciamo ad altri deciderlo, ma ai giovani difensori, con l’aiuto della vecchia scuola, ripeteremo fino a perdere la voce: non dimenticatevi mai dell’uomo.

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