L'Ajax è il romanzo della sfrontatezza che ciclicamente si ripete, di capitolo in capitolo: da Cruijff a De Jong, da Hulshoff a De Ligt, ma anche da Overmars a Neres e da Rinus Michels a Eric Ten Hag.
Sfrontato: aggettivo attribuito a persona senza vergogna, sfacciata, impertinente. Insomma, uno che se ne fotte. Caratteristiche che non sono mai mancate ai calciatori dell’Ajax di Amsterdam. Fin dai tempi in cui i lancieri affrontavano e battevano squadroni blasonati come il Real Madrid, il Liverpool o il Benfica. Ancor prima dei successi e della gloria arrivate con le tre Coppe dei Campioni consecutive conquistate nei primi anni Settanta. Già: la sfrontatezza. Che poi vuol dire avere nel dna quel non so che, chiamiamola lucida consapevolezza, che ti permette di cavartela sempre. Perché se devi inventarti la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali per andare in giro per il mondo a cercare terre più coltivabili della tua, che è sotto il livello del mare, poi un po’ di sana sfacciataggine ti cresce, dentro.
E allora cosa vuoi che sia piantare cinque pali nel cuore di quei vampiri del Liverpool (5-1), in una notte nebbiosa di dicembre del 1966? La competizione è la Coppa dei Campioni, siamo agli ottavi di finale. Come tre anni dopo (quarti di finale), quando la sconfitta fra le mura amiche viene ribaltata marcando tre reti in mezz’ora di gioco a Lisbona, davanti a un esterrefatto Eusebio, costringendo i favoritissimi lusitani a giocare e perdere lo spareggio di Parigi. È il 5 marzo 1969. Trascorre esattamente mezzo secolo, e il 5 marzo 2019, al Santiago Bernabéu, i nipotini di quella squadra annichiliscono i Campioni d’Europa della Casablanca con un clamoroso 1-4.
Prendessero lezioni, anche a Madrid (Photo by David Ramos/Getty Images)
Sì, da Cruijff a De Jong, da Hulshoff a De Ligt, da Suurbier a Veltman e da Keizer a Van de Beek. Sono olandesi. Belli, alti e biondi. E sfrontati. Non sono cattivi, ma hanno l’abitudine di andarsene in giro per il mondo a cercar fortuna. Come quando, dopo aver fondato colonie un po’ in tutto il mondo, prendono il controllo della Rotta delle Spezie, impossessandosi di buona parte del pepe nero esistente che, a quei tempi (XVI secolo), valeva come il petrolio oggi. Gli Orange. Spiriti ribelliche, ben prima delle sfide con Real Madrid e Barcellona, non sopportano gli spagnoli, impegnandosi in una ribellione durata ottant’anni e culminata nella pace di Vestfalia del 1648, che sancisce la loro indipendenza e sovranità sotto l’egida della famiglia reale di Casa d’Orange-Nassau. E da Guglielmo II, principe d’Orange, inizia una dinastia centenaria fatta di re e regine. E di luogotenenti, carica ereditata 240 anni dopo da un altro sfrontato deluxe: Marco Van Basten.
È il 1988. Dieci anni dopo la grande delusione di Buenos Aires, guidati dal principe Marco, un’altra generazione di guerrieri cerca nuovi territori di conquista e li trova in Germania. Si chiamano Ruud Gullit, Ronald Koeman, Aron Winter, Frank Rijkaard, Gerald Vanenburg, Wim Kieft, John van’t Schip. Impertinenti, sfacciati, non si accontentano di vincere, stravincono. Sono olandesi. Gente di mare. Gente che si materializza all’improvviso dal nulla, come l’Olandese Volante per antonomasia, il vascello fantasma del folclore nordeuropeo che, avvolto da una luce sinistra, avanza senza che nessuno possa fermarlo. Un po’ quello che succede a Faas Wilkes, l’ “olandese volante” calcistico, colui che, negli anni Cinquanta, con provocatoria impudenza, parte palla al piede dalla propria area dribblando tutto quello che gli si para davanti, fino a terminare le proprie folli cavalcate scagliando palloni velenosi alle spalle dei portieri.
La copertina che “Marca” dedicò a Faas Wilkes (Nº 585, Febbraio 1954)
Circa trent’anni dopo, un altro piccolo “olandesino volante”, Marc Overmars, prende la sua eredità solcando, imprendibile, il rettangolo di gioco. Lo chiamano “la moto”, perché quando parte non si può fermare. Ora siede in tribuna, fa parte dello staff degli osservatori dell’Ajax. E non può che essere lui a individuare il suo clone, il terribile mancino David Neres, prelevato dal San Paolo. A far coppia con Overmars c’è il surinamese Edgar Davids, e prima di lui il molucchese Simon Tahamata, echi di quell’impero coloniale che sembra una cartografia tratteggiata da un pittore folle e rivoluzionario. Ché poi non c’è arte senza trasgressione, come ben sapeva Van Gogh, che coglieva su tela l’attimo fuggente, fosse solo un’impressione, un’istantanea irripetibile, un po’ come le skills che immortalano le serpentine di un Piet Keizer, o di un Dennis Bergkamp, o di un Rafael van der Vaart.
Occorre il colpo di genio, occorre il talento. E la sfacciataggine. Perché se tutto quello che fai è colorare gli spazi, non pensi di poter finire un giorno al Museo di Arte Moderna. Oggi, quelle performance sono emulate da un serbo dallo sguardo beffardo, Dušan Tadić, e da Hakim Ziyech, un marocchino dall’aria strafottente. Diamanti grezzi da lavorare. Come quelli scoperti dai contadini olandesi (i Boeri) nelle miniere del lontano Sudafrica nel XVII secolo. Ma nessun diamante potrà mai avere il taglio, il carato, la purezza, e il colore di quello che negli anni Settanta splende sul terreno di gioco del vecchio Stadion De Meer: il diamante Johann Cruijff, colui che, sotto la guida del suo mentore Rinus Michels, si fa portatore di una visione rivoluzionaria del calcio, un’avanguardia architettonica applicata al rettangolo verde che si può riassumere in quattro parole: crea spazio, occupalo, organizzalo.
Van Gogh & Cruijff, un tributo di strada ad Amsterdam
Il tutto si declina nel portare una sorta di volume dinamico fatto di calciatori in ogni zona del campo, per presidiare la sfera, gestirla, e toglierla quindi dalla disponibilità dell’avversario, perché come dice il Profeta Cruijff “la palla è una sola e quindi è necessario che tu ce l’abbia”. Un’utopia che si trasforma in una catechesi calcistica. Un qualcosa di irrimediabilmente bello da guardare, che quasi ti prende una piccola sindrome di Stendhal. Ed è questo il verbo che accompagna i pensieri del nuovo santone del calcio olandese: Eric ten Hag. Un altro impertinente, con la leggerezza, la joie de vivre, la nonchalance di chi ha inventato l’atteggiamento cool e lo fa trasporre sul terreno di gioco dai suoi allievi che, senza alcuna vergogna, sembrano sussurrarti:
“noi fissiamo i limiti del tuo gioco, tu li accetti”.
Che poi è un po’ come voler credere a quello che diceva Sheley in The Masque of Anarchy: “voi siete molti, loro sono pochi”. Sfrontatezza, appunto. Perché si ritorna sempre lì, all’impudenza di chi se ne fotte. Ed è questa la maggiore insidia per il transatlantico bianconero che, nella sua navigazione impetuosa verso la finale di Madrid, dovrà questa sera stare attento alle nebbie improvvise, perché la storia di oggi è la storia di sempre, e da quelle nebbie potrebbe saltar fuori un vascello fantasma pieno di lancieri biancorossi pronti a colpire. E lo dovrà fare, il transatlantico a strisce bianconere, sotto la guida del suo comandante. Un portoghese, gente che di mare se ne intende. Uno preso per compiere l’impresa, come l’eroe di un poema epico. Ronaldo: suona anche bene come nome, per un guerriero. Perché poi si sa: “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.