Nel calcio odierno l'esultanza non è più una gioia collettiva e spontanea, bensì una questione di marketing profondamente individualista.
In principio furono due braccia levate al cielo. È stata questa per anni l’esultanza tipica di chi, nel calcio, segnava un gol. Un gesto pacato, contenuto, appena un sussulto liberatorio per essere finalmente riuscito a infilare la palla in rete; poi abbracci e strette di mano coi compagni e via, verso la metacampo, a riprendere il gioco. L’esultanza ha seguito nei decenni lo sviluppo del football, affinandosi e specializzandosi sempre di più, con un occhio rivolto all’ormai onnipotente marketing che non si accontenta più di brandizzare stadi o maglie, ma punta ormai agli stessi giocatori.
Ora come ora, sarebbe impensabile che un giocatore di statura mondiale non avesse una sua esultanza identificativa e personalizzata. I bambini che giocano nei cortili non impersonano più i loro miti cercando di emularne i tiri, le finte o i doppipassi, ma esultando come loro. L’unico che ancora si sottrae a questo diktat è Lionel Messi, ma è la sua statura di goat (greates of all times) a permettergli di fare eccezione. Chi, invece, deve ancora sgomitare per ottenere la sua visibilità, ha impiegato parte del tempo libero e un team di esperti per creare la sua signature move. Uno dei casi più recenti è quello di Dybala, che ha estratto dal cilindro la Dybala Mask alla quale ha immediatamente fatto seguito l’uscita di uno specifico prodotto dell’Adidas.
In passato, l’esultanza era spontanea, una manifestazione di autentica gioia che scaturiva in una mossa estemporanea. Bastava poco: Alan Shearer, anziché entrambe le braccia, ne sollevava uno solo, quasi a richiamare l’attenzione del pubblico su di sé, come fa lo scolaro con il professore; Fabrizio Ravanelli sollevava la maglia a coprirsi il volto, forse perché non sapeva in quale altro modo utilizzare le mani durante il festeggiamento; Klinsmann si buttava a scivolare sull’erba a pancia in giù; Henry, la scivolata sotto la curva, la faceva sulle ginocchia. Se in Spagna Raul dedicava un pensiero alla moglie baciando la fede, in Italia Vincenzo Montella allargava le braccia beccheggiando, meritandosi l’appellativo di “Aeroplanino”, e Batistuta mitragliava sotto la Fiesole.
Tutte queste esultanze sarebbero diventate sì iconiche, ma solo a posteriori, quando il calciatore aveva consolidato la sua fama. Soprattutto, non erano certezze granitiche: lo spazio per l’esplosione di un entusiasmo autentico c’era, l’improvvisazione sparigliava il copione. E poi, sempre, c’erano i compagni. L’esultanza non era mai un fatto individuale: dopo pochi secondo si era attorniati da pacche, abbracci, pugni che sventolano all’aria. L’estasi per il gol era collettiva, il singolo subito riassorbito nel gruppo, ingranaggio finale di una macchina più grande e complessa di lui.
Il traghettatore tra quest’epoca di sapore pionieristico e la modernità è stato Luca Toni. Come tutti i traghettatori, come tutti coloro che sono in anticipo sui tempi, la sua fu una trovata casuale, fanciullescamente ingenua. Dopo i primi calci nel Vicenza e nel Brescia, Toni approdò a Palermo, rivelando a se stesso in primis e al mondo in secundis quella fenomenale macchina da gol destinata a furoreggiare alla Fiorentina, al Bayern, Juve, Genoa, Roma, Verona nonché, ovviamente, in Nazionale.
Fu al Palermo che, per la prima volta, celebrò un gol “avvitandosi” l’orecchio, per chiedere al pubblico se avevano ben capito che era stato proprio lui a segnare. Il gesto spopolò e divenne un marchio di fabbrica Made in Italy da esportare worldwide. Ne nacquero magliette, gadget, perfino imitazioni culminate in un videoclip musicale con tanto di annesso tormentone (Luca Toni n°1 di Matze Knop). I responsabili marketing drizzarono le antenne. E le esultanze calcistiche non sarebbero più state le stesse.
Un tormentone che tutti abbiamo ascoltato almeno una volta
Il caso più emblematico è quello di Cristiano Ronaldo, CR7, uomo brand per eccellenza. Ai tempi del Manchester United, benché già fosse un bomber prolifico, Cristiano non aveva un’esultanza specifica, forse intimorito dalle possibili reazioni del suo diversamente pacato compagno di squadra Roy Keane. All’arrivo nella soleggiata Madrid, però, poté sbizzarrirsi. Fu un processo inventivo vero e proprio, fatto di prove, tentativi, picassiani periodi artistici.
Per primo venne il rassicurante gesto della mano a calmare gli animi, abbinato a una faccia che esprimeva sbruffona tranquillità e alle parole “estoy aquí”. Questa catchphrase traghetta al secondo periodo dell’esultanza, dominata dal salto in aria con rotazione: gol, corsa con indice fieramente puntato al proprio petto, piroetta aerea e, riatterrato a terra, dita che indicano il manto erboso + urlo. Il significato stesso dell’estoy aquí, in questa fase, si modifica leggermente, diventando non più rassicurazione del “ci penso io”, ma ratifica di conquista del terreno avversario.
Nel 2014, infine, il mondo fa la conoscenza del “siuuu”, il gutturale grido di gioia, inizialmente scambiato per i più da un rutto mal trattenuto, che fece seguito alla conquista del pallone d’oro. Dal podio della premiazione il “siuuu” scese in campo, si sposò con la piroetta aerea, e consacrò definitivamente l’esultanza tipica del campione portoghese. Quando, nell’estate 2018, il bomber passò alla Juve, le magliette con la sua sagoma a braccia larghe erano già in bella mostra sulle bancarelle della capitale sabauda.
La diga era ormai rotta, senza speranza di creare nuovi argini. Chiunque abbia oggi in previsione di segnare più di cinque gol in una stagione è pregato di munirsi preventivamente di specifica esultanza: Piatek, Mbappé, Griezmann, Suarez, Lewandowski, Aubameyang, Lacazette… Tutti pronti a incrociare braccia, sparare colpi di pistola, esibire balletti o capriole. Per la gioia non tanto dei tifosi festanti dopo un gol, ma di videogame come Fifa o Pes, che possono caratterizzare ogni singolo calciatore come se fosse un personaggio di fantasia.
La signature move, ormai, conta quanto una qualità tecnica ed è un fondamentale che procuratori ed esperti d’immagine curano fin dalle giovanili. Talenti del domani come Kean e Cutrone già adornano i loro gol con balletti o Cutrone mask (la fantasia, in quest’ultimo caso, non si è sprecata). Zaniolo e Chiesa ci stanno lavorando, forse pronti a stupirci già dalla prossima stagione. Perfino in Under 20 i giovani azzurrini già si sbracciano e contorcono le dita per esultare, indifferenti all’artrite che li attenderà in futuro.
Si tratta di un mero fenomeno di costume, di un superficiale segno dei tempi fastidioso solo per i nostalgici conservatori? Non proprio. Perché questo lavoro sull’immagine non è ars grata artis. Serve a porre il calciatore sotto i riflettori, a farne salire il prezzo del cartellino, a renderlo social e pertanto appetibile per gli sponsor. E, conseguentemente, a esibire il singolo rispetto al collettivo. Gli abbracci, le pacche e le strette di mano non ci sono più. I marcatori si divincolano dai compagni, li scacciano rabbiosi nel loro tentativo di condividere la gioia, per correre lontani, isolati in uno spicchio di campo e mettersi in posa per fotografi e cameramen.
Il calcio però è uno sport di squadra e la squadra, da simili atteggiamenti, non può che risentirne. Come può essere uomo spogliatoio chi è, in realtà, prima donna? Se, tra gli adulti, il collettivo riesce ancora ad amalgamare dentro di sé il singolo – l’estroverso Pogba è inquadrato nella Francia campione del mondo e CR7, esemplare atleta prima che gran vanitoso, ha un palmares unico al mondo – il pericolo più grande lo corrono le giovanili. Lì dove il calcio della maturità è ancora embrionale, dove i meccanismi sono da oliare e non perfezionati dall’esperienza, l’ego non esalta, bensì soffoca la squadra. Lo insegna il recente flop dell’Under 21, apparsa composta più da influencer che da ragazzi affamati di vittoria.
Troppo preoccupati di cosa fare dopo il gol, manca spesso la cattiveria per arrivarci al gol. Quell’urlo ferino, spontaneo e passionale di Tardelli è un’immagine persa nel passato. Chi è rimasto, oggi, a esultare così? Le Azzurre, che hanno giocato un mondiale operaio, concreto, senza tanti fronzoli. E per questo, nonostante l’uscita ai quarti, vincente. Il tutto finché il marketing non si accorgerà anche di loro, sempre che non se ne sia già accorto.
Dopo il codice etico, il daspo digitale. La direzione intrapresa dal calcio in Italia da un lato si allontana sempre di più dai tifosi, dall'altro si avvicina notevolmente ai consumatori.