Le isole Fiji, paradiso naturale per turisti e surfisti. Un Paese divorato da tensioni interne, golpe di Stato e divisioni sociali. Dove l'unico vero collante tra chi decide di restare è una palla ovale, quella da rugby.
A Suva e dintorni giugno è un mese in cui le temperature si abbassano. Fa più freddo che nel resto dell’anno, è il loro inverno. Sarà. Nel dubbio la minima non va quasi mai sotto i venti gradi. Avercene. L’umidità fa il resto, e allora se non ti sei preparato un minimo rischi di sudare parecchio, in quello che chiamano inverno. Capita anche ad un giornalista italiano, arrivato a Suva: anno di grazia 2006. Deve raggiungere il Churchill Park, lo stadio più grande della capitale, è in programma il secondo test estivo della Nazionale azzurra. Il tassista è vivace, chiacchierone, il viaggio scorre veloce. Si finisce per parlare di rugby, non è poi così difficile da quelle parti. Il giornalista lo trova molto preparato, poi gli chiede un pronostico: «Beh, voi siete più forti in mischia, noi siamo più forti a rugby. Vinciamo noi». Ecco, già da queste parole si intuisce qualcosa, per esempio che da quelle parti sono parecchio diretti. Niente fronzoli. Lo sono a parole, lo sono nei fatti, e se avete dubbi guardate come hanno vinto l’oro a Rio giocando letteralmente un altro sport rispetto alle squadre avversarie. Sempre dritti, sempre in verticale, sempre a creare spazi. Pazienza se il rugby a 7 (disciplina olimpica) e quello a 15 sono due discipline distinte, per il resto del mondo. Il tassista saluta bonariamente, poi sgasa e riprende la sua storia. È un buon diavolo, paragonabile nella mimica e nella passione sportiva forse a certi tassinari romani. Ma ha ragione lui. Certo che li abbiamo già battuti in passato, tutto quel che volete. Quel giorno la buttano sulla corsa, sull’impeto fisico, noi non reggiamo. Solo nelle fasi ordinate alziamo la voce, ma quando ormai è troppo tardi, vincono loro. Perché le fasi statiche e le fasi ordinate, in un paese indipendente solamente dal 1970 e già teatro di quattro colpi di stato, non sono mai piaciute. O mai sono state vissute appieno, forse. Quel che è certo, però, è che niente come il gioco figiano esprime il movimento, il dinamismo, la voglia di correre e di saltare insite nell’uomo sin dai suoi primordiali placcaggi.
L’instabilità politica non è il solo problema a Suva e dintorni: le lotte intestine tra classi sociali, tra membri di diverse isole e religioni sono all’ordine del giorno. Nella capitale si concentrano i ceti più benestanti, nelle isole più distanti si tende a sopravvivere. In tanti se ne vanno versolidi migliori, soprattutto i giovani, attratti dalle più floride economie neozelandesi e australiane. Attratti anche da scuole e livelli di istruzione più sostenibili, soprattutto nel continente oceanico. E non è un caso che, tornando a parlare di palle ovali che volano all’indietro, che tantissimi atleti figiani finiscano per rappresentare, a vari livelli, le nazionali neozelandesi e australiane. Qualche esempio? I cugini Sitiveni Sivivatu e Joe Rokocoko, Tevita Kuridrani. In altri sport basti pensare all’innumerevole quantità di giocatori di football americano provenienti soprattutto da Samoa. Tante isole hanno perso e tuttora “perdono” tanti loro talenti in questo modo: per dirne uno, il più grande, Jonah Lomu, nato sì ad Auckland, ma da genitori originari di Apia, capitale di Tonga.
Instabilità politica ed economica, lotte sociali, tradizioni di un certo passato che ancora resistono: le isole Fiji, da questo punto di vista, sembrano aver mandato indietro l’orologio di un bel po’. Ma è qui che emerge il valore di collante del rugby, sia nella versione a sette che in quella a quindici, nelle isole: è un modo per stare insieme, fraternizzare, cancellare differenze. Progredire, avanzare insieme, magari ricordandosi ogni tanto di passare la palla, preferibilmente all’indietro, per ricordarsi un attimo chi si era e chi si sta diventando. La Coppa del Mondo del 2007, quella della storica vittoria contro il Galles nel girone di qualificazione, è emblematico nel rappresentare questa funzione: i bar e le case di Suva sono invasi da frotte di figiani accorsi da tutto l’arcipelago. Chi non riesce a muoversi, nelle isole più lontane, si munisce di parabole, altri mettono la televisione a disposizione dei vicini di casa. È una festa stratosferica, nessuno si tira indietro. Sono tutti lì a fare il tifo per una Nazionale che li rappresenta appieno: li vedi lì, manca qualcosa, non possono competere contro i grandi mostri, contro quegli Springboks che poi vinceranno il titolo, ma loro si divertono. Le fasi statiche e le fasi ordinate, in un paese indipendente solamente dal 1970 e già teatro di quattro colpi di stato, non sono mai piaciute. O forse mai sono state vissute appieno. Ci mettono foga, spirito libero, attaccano senza fronzoli né paure. A volte steccano da paura, eh. Quel che è certo, però, è che niente come il rugby figiano esprime il movimento, il dinamismo, la voglia di correre e di saltare insite nell’uomo sin dai suoi primordiali placcaggi. Niente come il rugby, da queste parti, significa libertà. Niente come una palla schiacciata ai poli, dal rimbalzo ubriaco, significa vita. E loro su un campo da rugby, a differenza di altri, hanno imparato a vivere. Bonari, allegri, ma dritti e diretti senza pensarci troppo. Come un tassista immerso nell’ora di punta di Suva. Chissà se ha festeggiato, quella sera.