Riuscirà l'impianto a risorgere dalle (proprie) ceneri?
Il 12 marzo del 1959 lo Stadio Flaminio apriva ufficialmente i battenti. Sono passati poco più di 60 anni, eppure attualmente il Flaminio non esiste più. Non esiste perlomeno in quanto agibile anche perché l’impianto, a onor di cronaca, è sempre lì, nel quartiere Parioli di Roma. Un gioiello architettonico opera del lavoro della famiglia Nervi (Pier Luigi padre, Adriano figlio), costruito in occasione del torneo olimpico di calcio del 1960.
La sua struttura è unica, di scuola italiana; erano d’altronde gli anni del boom economico, c’era la voglia di fare cose nuove. La tribuna del Flaminio è continua, non ha un blocco in nessuno dei quattro settori. La partita è non solo godibile da un punto di vista visivo, ma ancor più partecipativo. Il disegno di Adriano Nervi era infatti volto a coniugare l’eleganza dell’architettonica italiana – in quel momento storico tra le migliori al mondo – con l’agibilità e l’utilizzo dell’impianto stesso.
È importante ricordare infatti che il Flaminio, nonostante sia stato per anni oggetto di contesa tra i due club romani di calcio, è prima di tutto il cuore pulsante dello sport romano. Se togliamo il Foro Italico (a pochissimi passi dallo Stadio Olimpico), la struttura interna del Flaminio può dirsi a ragione la più importante nel territorio capitolino, con una piscina semi-olimpica e cinque palestre per pugilato, ginnastica e atletica pesante.
Da un punto di vista puramente emotivo, d’altronde, basterebbero le varie voci dell’ambiente romano (sponda Roma e sponda Lazio) per avvertire l’importanza che ha, a livello anche e soprattutto cittadino, la ristrutturazione dell’impianto oggi, nel 2021. Lo stadio che nemmeno dieci anni fa ospitava il Sei Nazioni di Rugby – ovvero la competizione più importante a livello internazionale dello sport dalla palla ovale – non c’è più. Così l’immagine di un Flaminio pieno in ogni posto a sedere, con un prato impeccabile e una facilità di affluenza favorita dalle stesse vie di trasporto (particolarmente agibili nella zona del Municipio II), è diventata oggi un ricordo lontano, perso nel tempo e oltretutto invecchiato male.
Ostaggio del degrado e dell’abbandono, il Flaminio ha vissuto per anni tra le erbacce (altissime) e i pezzi di vetro sparsi qua e là, e tutt’ora non ha una chiara destinazione d’uso, malgrado le varie inchieste condotte dai quotidiani locali e le lotte portate avanti da diverse associazioni. Recentemente il Campidoglio ha però presentato il “Piano di conservazione dello stadio”, un progetto che punta al rilancio del Flaminio basato sullo studio della Facoltà di Architettura della Sapienza, in partecipazione con una fondazione della famiglia Nervi e un’associazione specializzata nella valorizzazione delle architetture moderne.
Il tutto è stato possibile grazie a un bando del 2017 per la ristrutturazione e il ripristino dello Stadio Flaminio (ivi comprese le strutture interne) e che ha trovato un finanziatore economico importante in America, a Los Angeles, da dove il progetto doveva ripartire.
La Getty Foundation ha infatti concesso al Campidoglio e all’Università di Roma La Sapienza un fondo da 161.000 $ (137.000 € circa), cruciale per riaccendere le speranze e per mettere in moto la macchina: curioso che, per valorizzare un impianto storico romano, il salvagente ci sia dovuto arrivare da oltreoceano. Anche perché parliamo di un’opera – della quale la fondazione Nervi, intenzionata a non stravolgerne le caratteristiche storiche e architettoniche, detiene la proprietà intellettuale e morale –, che è stata dichiarata nel 2008 bene artistico e storico sotto tutela. Ironico e brutale notare come la “tutela” sia stata garantita negli ultimi anni.
Ma al di là dell’inerzia dell’ultimo decennio delle varie amministrazioni comunali, la cittadinanza di Roma ed in particolar modo del quartiere Flaminio ha sempre preso a cuore la questione. È nato un Comitato Promotore che, al di là di ogni differenza sociale e culturale, si pone come serio interlocutore con le Istituzioni nella realizzazione del progetto di restauro. L’obiettivo era di dare seguito al “Progetto Urbano Flaminio – Foro Italico”, realizzato nell’ottobre del 2005 da Risorse Rpr spa, e di ispirarsi alla filosofia inglese di costruzione, restauro e riedificazione degli stadi (vedasi Anfield).
Il principio è sempre lo stesso, ed è etico: l’architettura deve ospitare uno spettacolo per chi ne usufruisce, che sia calcistico, concertistico (il Flaminio ne sa qualcosa) o semplicemente sportivo in senso lato. Le stesse righe centrali del documento illustravano bene l’ottica, non solo focalizzata sull’impianto ma sul contesto:
“Lo stadio Flaminio è ormai vissuto come un reperto archeologico peraltro non conservato adeguatamente. Anche le aree ad esso annesse sono percepite come non sicure, sporche e sciatte”.
Un servizio condotto dal Tempo, nell’agosto del 2016, rendeva bene lo squallore e lo stato di radicale abbandono della struttura, offrendo una sponda allo stesso Comitato e alla cittadinanza tutta: «La visita si riduce ad un paio di click fotografici perché è davvero impossibile proseguire il cammino a causa della vegetazione, padrona incontrastata della zona. […] Ovunque si vada c’è sempre la sensazione che si stia rischiando la vita».
Eppure qualcosa si può fare, come dimostrano le iniziative degli ultimi mesi. A inizio 2019 si è proceduto a una bonifica, mentre recentemente si è tornati a parlare di Flaminio come stadio della Roma alternativo a Tor di Valle (difficile se non impossibile) e anche i tifosi della Lazio ne hanno rivendicato appartenenza e legame. Il modello è lo Stadio Filadelfia di Torino, con l’intervento congiunto di Regione, Comune e privati cittadini, una strada che si vorrebbe seguire. Il paradosso però sta proprio qui: c’è la volontà di tutti, del sindaco, della regione ma ancor prima dei cittadini, più decisi che mai. Eppure il Flaminio, nel cuore della Capitale, rappresenta una classica storia italiana e della sua invincibile burocrazia.