Il trionfo di Gino Palumbo e della scuola napoletana.
Come recita un vecchio proverbio, la vendetta è un piatto da consumare freddo. Stesso discorso vale per la rivincita. Così, dato per scontato che non esiste dubbio sullo scudetto del Napoli che non sia legato a scaramanzie, malocchi e altri esoterismi, forse forse Gino Palumbo si è anche preso la soddisfazione di non evitare a Gianni Brera, ottima forchetta, di scottarsi la lingua, apparecchiando la tavola con ampio anticipo sulla scadenza naturale del campionato.
E se è vero, come si dice, che ogni squadra abbia caratteristiche immutabili nel tempo, allora questo è “il più napoletano degli scudetti”, per semi citare Edmondo Berselli, perché segna l’ora di una rivincita per il calcio partenopeo così come lo intendeva Palumbo, con buona pace di Grangiuàn, che apostrofava come “sciocche” (quando andava bene) le stoccate dell’avversario alle esasperazioni del difensivismo italiano.
Chiaro che da qui ad affermare che le idee tracciate da Palumbo siano l’incarnazione del verbo è altrettanto discutibile. O non ameremmo il calcio proprio per la sua capacità di plasmare delle gerarchie chiare che, seppur nobili, durano una fumata di sigaretta perché facilmente discutibili e suggerite da visioni differenti, il cui successo è subordinato alla vittoria e non al gusto personale del critico di turno.
Tradotto, il calcio è bello perché è vario.
Così oggi sul carro del generale vittorioso siede Palumbo. Peccato non ci sia riuscito da vivo: è scomparso, infatti, nel settembre 1987 dopo aver declinato per ragioni di salute il soglio di direttore del “Corriere della Sera”, reduce da una lunga esperienza come capo della “rosea”. Aveva 66 anni ma era già riuscito a imprimere un cambio di passo nel giornalismo italiano attraverso un linguaggio meno aulico, titoli efficaci, anche strillati ma mai sopra le righe, di forte impatto grafico non soltanto nella prima pagina. Con la notizia al centro di tutto.
E proprio il risvolto manageriale della sua carriera è quello che, probabilmente, riscuote ancora oggi maggiore successo tra i contemporanei. Ma Palumbo, che era nato a Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno, fu anche un ottimo corsivista del pallone, una penna appuntita che annusò, tra i primi, l’esigenza di scavare più a fondo nel mondo del calcio e non solo, proponendo risvolti umani, arricchendo la trama con dettagli rubati alla sfera sociale e politica. Ma soprattutto, da cronista di vocazione popolare (si racconta che tornasse da San Siro col tram per ascoltare i commenti degli spettatori), sostenne un gioco più aperto, coraggioso e spettacolare.
Cercava, con le idee, di sopperire a una scrittura modesta se confrontata con quella di alcuni suoi colleghi, ma che oggi crediamo farebbe la sua porca figura. Gli faceva da controcanto Antonio Ghirelli, un gigante del giornalismo italiano, campano anche lui, che da direttore di “Tuttosport” lanciò alcune tra le penne migliori di sempre e poi divenne capo ufficio stampa del Quirinale ai tempi di Sandro Pertini. Assieme formavano quella che Gianni Brera avrebbe definito con leggero biasimo “scuola napoletana”, spesso accompagnata da aggettivi come “derelitta” e sostantivi come “defunta”.
E per loro due, lui, “Papa Lombardrei” capace di straordinarie invenzioni linguistiche, coniò anche il termine “sorbonagri”, ennesima staffilata di un memorabile scontro di idee su colonne di piombo. Erano separati, infatti, da un retroterra intellettuale lontanissimo e da una visione opposta del pallone: Brera era l’ideologo del difensivismo, del “doppio terzino centrale” e del Santo Catenaccio contro il calcio coraggioso di Ghirelli e Palumbo, secondo il quale è “uno sport troppo vero, troppo umano, per premiare chi ha paura”.
Secondo Brera, invece, quella del “tutti avanti”, del bel gioco, era un’illusione che aveva sulla coscienza alcune retrocessioni dei suoi eroi.
Le pagine breriane, infatti, meno pronte a cogliere i tempi nuovi sul piano dei gusti della gente e anche sulla crescita del calcio, erano convinte che nel “sangue cantano complicate memorie biostoriche”, e che quindi lo sport tutto dovesse fare capo alle origini etniche, alla dieta e magari anche al clima: “Perché al Sud non nasce neanche un Berruti?”. Per tacere delle consuete geremiadi contro l’”eretismo podistico” del calcio offensivo: «Solo la scuola napoletana mostrava di gradire come spettacolo le alte segnature: la sua incompetenza non consentiva di valutare le lacune difensive che favorivano le goleade».
Gli rispondeva Palumbo sulle pagine del “Corriere”, presto ribattezzato “Partenope Sera”: «Il concetto fondamentale del calcio è il movimento. Il movimento dà la superiorità numerica degli uomini in difesa, dà la superiorità numerica degli uomini in attacco. […] Il movimento innanzi a tutto; la coscienza di poter imporre un proprio gioco invece di limitarsi a pensare come si possa distruggere quello dell’avversario; l’utilità di poter disporre di ogni uomo in fase di difesa e di ogni uomo in fase di attacco; i pericoli di una “schematizzazione” a tutti i costi; la necessità di uno “spirito offensivo”, cioè del gol come traguardo. […]
Ad osare, e non ad aver sempre paura».
Insomma, due idee che fanno a pugni, così come i loro teorici. Accadde nella tribuna stampa dello stadio “Rigamonti” di Brescia. Sembra che Palumbo, da poco giunto a Milano da Napoli, dove lavorava per “Il Mattino” e dove aveva fondato lo storico settimanale “Sport Sud”, l’avesse giurata a Brera dopo che questi lo aveva ammonito di non trasferire all’ombra del Duomo «gli argomenti magliari che più volte avevano mandato il Napoli in Serie B».
Lo schiaffeggiò. D’altronde pare che a Napoli lo stesso Palumbo fosse stato sfidato a duello da un nobile sanguigno, capo dello sport al giornale “Roma”, al culmine di una polemica sul Napoli di Jeppson e Achille Lauro. Sorpreso e indignato, Gianni Brera, ex ufficiale dei paracadutisti e pugile dilettante, gli mollò una serie micidiale di cazzotti. «Il mio uomo cadde lungo disteso (non folgorato, certo): si rialzò barcollando e istintivamente abbrancò una sedia di metallo: non per sedere, immagino».
Decine di anni dopo, se una squadra ha accolto gli inviti ad esorcizzare uno dei mostri che, secondo Antonio Ghirelli, “insidia la vitalità del calcio: il tatticismo ottuso”, quella è proprio il Napoli, per il quale i due giornalisti facevano il tifo senza troppe cautele. Napoli che fa girare la palla, un rullo compressore che mette paura alle regine d’Europa, che sogna in grande e forse, in questo caso, fa anche qualche scongiuro in meno. La catena di questo lungo codice genetico così poco italiano per tradizione (frase rubata da Angelo Carotenuto) sembra quasi una cappella progettata da Palumbo e affrescata a poco a poco da Vinício, Sarri e Spalletti, la cui tela sarà, tuttavia, indimenticabile e leggendaria.
Un po’ come la Gioconda, che rende speciale il Louvre ma che non è il solo capolavoro custodito nel grande museo. Questo perché, come detto in premessa, sarà la prima occasione perché Napoli possa festeggiare uno scudetto realmente napoletano, ossia figlio della “scuola napoletana”. Paradossalmente, infatti, finora il calcio a Napoli aveva vinto solo nel solco delle idee tracciate da Gianni Brera. Ottavio Bianchi schierava Renica alle spalle di grossi mastini: Peppe Bruscolotti “Palo ‘e fierro”, Moreno Ferrario e l’enfant du pays Ciro Ferrara. Bigon, invece, si era addirittura proclamato allievo del primo convinto italianista, il paròn Nereo Rocco.
Ci voleva Spalletti, insomma, e non Maradona, per accontentare Gino Palumbo.
E adesso che i tappi di champagne sono esplosi, dopo che il “Times” ha raccontato Napoli con la solita retorica dei panni stesi tra le imposte e del Dio Diego come novello San Gennaro, e “La Naciòn” di Buenos Aires ha offerto un bellissimo affresco della scaramanzia napoletana, di una città che ama personaggi come Troisi, De Filippo e Pino Daniele «ma poi si comporta come gli stereotipi che dice di combattere», invocando sulla festa scudetto l’immagine celeste del Pibe de Oro e di “muchos más”, è ovvio che in mezzo a loro debba esserci anche Gino Palumbo, padre nobile di questo successo e di quelli che verranno alla stessa maniera. Il romanzo di questa annata gli ha dato ragione. Troisi avrebbe detto: “Scusate il ritardo”.