Nel giorno dell'anniversario della sua nascita, un ricordo dell’uomo che salvò la Lazio a sette minuti dalla fine di tutto.
Nessuno lo ha dimenticato. Nessuno ne parla mai al passato, quando ne parla. Nessuno. Quel gol al Vicenza che salva la vita della Lazio e cambia quella di un intero popolo lo ha segnato oggi. Anzi domani, tanto è vivo nella memoria. Segno evidente che lui non è morto, è solo in disparte e per ora non vuol essere disturbato. Poi si vedrà. Del resto Giuliano è così: se gli dici “devi farlo” non lo farà mai, perché gli obblighi non fanno parte della sua etica, ma se glielo chiedi con il cuore si getterà tra le fiamme. Questa storia inizia dalla fine ed è giusto così, perché i conti sulla vita e sulle opere di un uomo si fanno per forza alla fine. I bilanci consuntivi premiano sempre chi ha risposto “presente” nel momento in cui serviva esserci e fare la differenza.
Domenica 28 agosto 2005, prima giornata del campionato 2005-2006. All’Olimpico di Roma scendono in campo Lazio e Messina. Un’aria strana. Dovrebbe esserci entusiasmo per un campionato che ricomincia e invece sugli spalti l’atmosfera è cupa. Cielo nuvoloso, silenzio di piombo. Paolo Di Canio, scuro in volto, tiene in mano una maglietta d’altri tempi. La mostra con orgoglio alla Curva Nord ma non sorride, non ci riesce. Quella è la maglietta di Giuliano Fiorini. L’attaccante della “Lazio dei -9” è morto da pochi giorni.
Applaudono e piangono, i tifosi. Ci sono uomini e giorni che non si cancellano. Quel pomeriggio di fine estate il gol vittoria con il Messina lo segna Goran Pandev, ma nelle percezioni generali l’autore della rete è un altro. Uno che non si vede ma c’è. La porta è la stessa, l’importanza è ben diversa. Nell’atto di esultare, l’attaccante macedone della Lazio alza un dito al cielo e il riferimento è subito chiaro. Torna alla mente di tutti i presenti Giuliano Fiorini e il senso di liberazione di un intero stadio. 60.000 persone esauste di fatica e impazzite di gioia. Le lacrime di un giocatore per il gol più pesante della sua carriera.
Partire da -9 punti a seguito della condanna per presunta “combine” di risultati che vedeva coinvolto un proprio tesserato (a titolo e per finalità puramente personali) è un handicap che tutti giudicano impossibile da colmare al termine del campionato 1986/87. Ci vuole una vera impresa sportiva e alla fine le cose si risolvono con un gol al Vicenza. La Lazio che a sette minuti dalla morte, non muore. Non muore più. A segnarlo è un eterno ragazzo, un anarchico di buon cuore che ama più il suo stile di vita discontinuo e gaudente che un’esistenza fatta di troppe regole. È di Modena e dei modenesi doc lui ha tutto, compresa una certa brutalità nel far presenti i suoi punti di vista. Classe 1958, il futuro attaccante laziale esordisce in serie A minorenne con la maglia del Bologna. Un ragazzino grintoso e per nulla intimidito da avversari di maggiore esperienza, che è chiamato a fare reparto d’attacco con Beppe Savoldi.
Malgrado la giovane età Fiorini è avversario duro, brontolone, prepotente sul piano agonistico ma sempre nei limiti della correttezza. Gli piace vincere, ma in modo pulito. Punta soprattutto sui mezzi fisici ma ai suoi fondamentali tecnici non si possono rimproverare deficit. Malgrado poche presenze in campo, ai tifosi rossoblù piace subito, così come piacerà a tutte le tifoserie delle squadre nelle quali avrà militato in una lunga carriera itinerante. Si fa amare perché durante i 90 minuti di gioco non si risparmia e perché è persona autentica, nel bene e nel male. Il che non significa essere necessariamente comodi o simpatici, anzi.
Giuliano Fiorini è uno che quel che deve dire, dice. E in modo nemmeno morbido. Ai compagni, agli avversari. Agli arbitri, che spesso fanno finta di non sentirlo per non dovere intervenire, cartellino alla mano. Ma quando è importante esserci lui c’è e il contributo che dà risulta sempre fondamentale. Come tutte le persone che fanno quel che sentono, ha bene in mente la differenza tra l’essere professionisti e sposare una causa. Questione di feeling.
Per viverne gli aspetti migliori, bisogna dunque accettarlo com’è. È testardo nel modo di essere e non tollera imposizioni o modifiche al suo modo di vivere. Insegue un’idea di libertà che non sempre si concilia con i compensi che riceve. Fin dai primi anni di attività Fiorini non conduce una vita da perfetto atleta, gli piace fin troppo la buona cucina, fuma e non è neppure astemio. Ci sarebbero quindi tutti i crismi del talento buttato e invece Giuliano da Modena ha un personale equilibrio che lo sorregge. Dopo una serie di parentesi a Rimini, a Brescia, di nuovo al Bologna e a Foggia, esplode segnando 21 gol in una stagione in serie C a Piacenza. Un exploit che convince il Bologna a riportarlo alla casa madre. Ha 23 anni, è ancora giovane e forse è finalmente maturato.
Lo richiamano per affiancarlo a un giocatore d’attacco più talentuoso, Roberto Mancini. Maturazione relativa, gioca quando vuole, segna quando è in vena. Non è certo colpa sua se nel 1982 il Bologna retrocede in B per la prima volta nella sua storia, lo sfacelo è generale ma certo qualche gol in più avrebbe potuto fare la differenza. Dopo due stagioni a Bologna in A con 11 gol segnati, arriva il trasferimento a Genova, dove segna 14 reti in due stagioni. Non sono molte, ma diventa un idolo della curva genoana. Anche qui, questione di feeling. Al punto che la piazza si rivolta quando la società lo cede alla Lazio. Giorgio Chinaglia, che lo vuole in biancoceleste a tutti i costi, rivede in Fiorini qualcosa del Long John calciatore. Magari la media realizzativa non è proprio la stessa ma se si guarda alle movenze e alla fisicità c’è del vero.
L’avvio in biancoceleste è promettente: gol-vittoria all’esordio in B con il Palermo e ottima intesa in attacco con Garlini. Ma un problema al tallone d’Achille lo costringe a rallentare gli allenamenti e poi a operarsi. Chiude con 3 gol in 18 apparizioni. Nella seconda stagione, però, è il leader indiscusso della squadra assieme a Mimmo Caso. Il 26 luglio del 1986, nel ritiro di Gubbio, arriva la notizia che la Lazio è stata condannata alla retrocessione in serie C per lo scandalo del calcioscommesse. È qui che avviene il celebre discorso dell’allenatore Eugenio Fascetti alla squadra: “Chi vuole andare, vada. Ma chi decide di restare, dia il massimo e non ne parli più”. Giuliano Fiorini si alza e per primo dice: “Io resto, qualunque cosa succeda”. Con poche parole, secche, precise, rassicuranti, si porta dietro tutti, soprattutto i compagni meno legati ai colori biancocelesti. Non gli si chiedono virtuosismi in campo o dichiarazioni a effetto, gli si chiede di sposare una causa. Quella causa. Ed è ciò che lui fa, senza esitare e con tutto se stesso.
La Lazio alla fine resterà in B, ma le verranno inflitti 9 punti di penalizzazione. Il tallone d’Achille di Fiorini ora è a posto e nei momenti di difficoltà il bomber scuote i compagni, carica l’ambiente con i suoi numeri tecnici e con una gestualità che non emana semplice professionismo. Con sei gol segnati nemmeno quello è un campionato granché prolifico, ma grazie al settimo sigillo entra nella Leggenda. Alla vigilia dell’ultima giornata, la situazione è contorta. Il 21 giugno 1987 all’Olimpico c’è il Vicenza. I biancorossi non possono cedere, perché perdendo scenderebbero in serie C. Un pareggio non eviterebbe la retrocessione alla Lazio. La penalizzazione di 9 punti ha significato un handicap durissimo. Con 9 punti in più la squadra potrebbe ambire alla promozione. Così invece è costretta a vincere per sperare di accedere agli spareggi.
In settimana arriva quella che sembra una buona notizia: il portiere titolare del Vicenza, Mattiazzo, è indisponibile. Prenderà il suo posto Dal Bianco. Un perfetto sconosciuto, la cui carriera si svolgerà quasi per intero in Veneto, saltando di categoria in categoria. Quel giorno però Ennio Dal Bianco sembra un Buffon ante litteram. Per oltre 80 minuti, sostenuta e sospinta da un intero stadio che non smette di intonare cori di sostegno, la Lazio si getta all’assalto della porta del Vicenza per segnare quel gol che significherebbe “sopravvivenza”. Ma Dal Bianco sembra insuperabile e alle conclusioni degli attaccanti avversari sa contrapporre prodigi. Giuliano Fiorini, e non soltanto lui, le tenta tutte. È un tiro a segno ma in porta c’è Dal Bianco. Con il passare dei minuti, la speranza e la voce di un intero stadio lasciano quasi il posto alla disperazione, alla consapevolezza di essere a un passo dalla serie C e forse alla fine di una storia durata 87 anni.
Mancano sette minuti alla fine. Cross dalla trequarti di Acerbis, respinge la difesa del Vicenza ma non riesce a liberare. In posizione centrale recupera palla Esposito che cede a Podavini. Il terzino biancoceleste fa due passi e dai 20 metri tenta la conclusione. Ne viene fuori un tiro debole e sbagliato che però si trasforma in un assist in area per Fiorini. Il centravanti arriva per primo, arpiona la palla ed elude l’intervento del diretto marcatore facendola scivolare in avanti. Dal Bianco accenna all’uscita ma sul tocco in allungo di Fiorini non può nulla. È un vento di follia e di disperazione collettiva a spingere quel pallone in fondo alla rete.
“Con me hanno segnato in 60mila”.
Gesti di isteria, uomini che piangono come bambini. Bambini che vedono i genitori impazzire e rimangono quasi increduli. La corsa di Fiorini sotto la Curva Nord in lacrime, travolto dall’abbraccio dei compagni. Immagini che restano, come indimenticabile resta il gol di Fabio Poli nello spareggio vinto a Napoli contro il Campobasso.
La rete che mette la parola fine a un incubo durato quasi 11 mesi. Il 5 agosto del 2005, Giuliano Fiorini è vittima di una brutta malattia. Di lui rimane un ricordo umano e professionale indelebile, un sorriso e una grinta che sapevano rincuorare tutti, soprattutto nei frangenti peggiori. Muore a 47 anni ma non è un “morto che parla”. Perché in realtà per i tifosi non è morto. C’è e quando serve parla, anzi brontola. In campo e fuori.