Calcio
15 Ottobre 2024

La distopia di Italia-Israele

Reportage di una strana serata friulana.

A Udine non piove, cosa non scontata per un Ottobre friulano. La luce di un reticente sole traspare, di tanto in tanto, dai pochi scorci lasciati da alberi ornati da foglie ormai consapevoli di andarsene e anonimi palazzi anni’50. Le molte bandiere palestinesi iniziano un timido sventolio. Sono accompagnate da qualche bandiera della pace, sporadiche insegne di alcuni partiti dimenticati come libertà e qualcosa e persino qualche vessillo dei Comunisti italiani, un reperto politico che sa di infanzia, di metà anni ’90. Il pubblico di una manifestazione pacifista e terzomondista in Italia, grosso modo, è sempre quello. Lo sa anche un totale profano del settore come me. Basta osservare.

Si noterà, sempre, qualche insigne maestro a fare da riferimento (meglio se col groppone gravato da guai con la giustizia legati alla politica in gioventù). Un corpo di cavalleria, talvolta con licenza di carica, di giovani militanti indignati e combattivi. Poi la fanteria, la celebre, incessante, indomabile, società civile. In genere over 50, con qualche velleità politica giovanile poi accantonata tra rancori e scrollate di spalle per un lavoro sicuro dietro una cattedra. Una Fiat panda blu trae un carretto con un piccolo palco sul quale sono state montate delle casse connesse a un microfono. Gli slogan “free Palestine” sono spesso intervallati da canzoni arabe. Su un lato del carretto, una serie di ragazze arabe stilizzate stile Persepolis gridano in un fumetto “stop genocide”.

Dentro al corteo / Foto di Jacopo Gozzi

Sono già mezzo pentito di essere lì. Non sono in Friuli per caso, ma non avevo previsto di trovarmi là in mezzo. Mentre mi chiedo se la vecchiaia è destinata a uccidere la curiosità, guardo la ragazza davanti a me. Carina, massimo vent’anni. Ha un picchetto ricavato da un bambù con scritto “boicotta l’apartheid di Israele”, in mano dei volantini con pugni chiusi e la falce e il martello. I miei occhi, celati da Persol scuri che opacizzano la poca luce concessa, la mutano sdraiata su un divano, strizzata in un vestito blu in contrasto con i suoi capelli ramati e un drink in mano. Mi chiedo perché non ha scelto di lasciare il picchetto e colmare la sua mano con un mojito, togliersi quegli orribili anfibi per infilarsi delle Loboutin.

Riflessioni subito cancellate dagli spacciatori, tutti adolescenti, tutti magrebini, che filmano estasiati l’allegra processione, ormai avvolta da un tripudio di bandiere palestinesi sventolanti nell’ambiguo cielo friulano. È il primo segnale di rottura che mi salta all’occhio. Guardo meglio. Effettivamente, a occhio, la connotazione etnica e anagrafica è ben più variegata delle manifestazioni analoghe svoltosi vent’anni fa contro la guerra in Iraq. E non è frutto della collaborazione delle solite associazioni di sinistre varie.

Italia israele
Tra reporter e manifestanti / Foto di Jacopo Gozzi

Il corteo inizia il viale davanti la stazione. Il popolo di derelitti che vaga in ogni terminale ferroviario che si rispetti per un pomeriggio si distoglie dalla miseria quotidiana e nutre il corteo, diventando il suo nucleo. Per poche ore, la città sarà loro. Il sottosuolo di Udine guida la sua protesta, immedesimandosi con il popolo palestinese, ultimo tra gli ultimi, dannato della terra. Tunisini, egiziani, marocchini ma anche pakistani, afgani, somali.

I più “grandi” (diciamo entro i 35) arrivano da tutto il Friuli e da tutto il Nordest. I più giovani, invece, sono autoctoni del quartiere. Sono i figli della stazione. Uno di loro, il classico 15enne magrebino tutto ricci e movimenti scattanti, ha la maglia del club più povero e terzomondista al mondo, il Psg. Sono loro a guadagnarsi la testa del corteo. Difficile restare impassibili. Il ritmo delle canzoni arabe e degli slogan, uniti alla sensazione, ormai rarissima, di fare qualcosa di buono e impattante sul mondo, esiste, e mentirei dicessi non sia vagamente contagiosa. Ma non sono a mio agio dentro il corteo.


italia israele
I più giovani alla testa del corteo / Foto Jacopo Gozzi

Il mio atteggiamento e il mio vestiario mi rendono molto più simile a un ispettore della Digos che a un manifestante. Rincuorandomi di non esser né l’uno né l’altro, scorgo due ghanesi che applaudono al passaggio del corteo. La considerazione si fa certezza. Oggi va in scena una piccola, insignificante ma simbolica rivincita di quel sud del mondo che permea, semi invisibile, semi quiescente, le nostre città. Sento rumore, alzo gli occhi al cielo. È un elicottero, che sorvolerà Udine per tutto il giorno e tutta la sera. Non distante da lui, ma molto più basso, un drone. Lo fisso malvolentieri, tenendo la visiera del berretto calata sulla fronte. Per un attimo penso a quanta gente viene uccisa ogni giorno da affari del genere.

Mentre il corteo sta per entrare in centro incrocio Francesco Cosatti di Sky. Scambiamo qualche impressione sulle stime del corteo. Più di duemila, meno di tremila, boh ne arrivano altri. Gli chiedo com’è la situazione al Friuli. Mi fa vedere video nei pressi dello stadio con strane costruzioni di cui non riuscirò a capire a pieno il significato finché non ci arriverò davanti. Il corteo entra in centro. Lo supero per darmi un po’ di vantaggio, e riesco a bere un bianco al volo sul tavolo di un’osteria. Un anziano avventore, due baffi bianchi da ufficiale asburgico, spiega con un accento friulano orientale al suo sodale che «se tu mi spari, io ti bombardo! Questo occorre, altro che manifestazioni! L’atomica!» alzo il calice alla salute del von Clausewitz del refosco, lo vuoto e continuo la marcia.

La sera è ormai calata. Il cielo si dipinge di un blu giottesco su cui risalta il fumo di qualche fumogeno rosso.

Il serpentone è ipnotico. Una ventina di metri davanti l’avanguardia del corteo, c’è un altro corteo. È quello della polizia. A fare strada, ho contato undici veicoli in fila. Due blindati, il resto auto singole guidate da un solo poliziotto alla guida. Se i maranza avanguandisti in tuta acetata e cappellino sono i più gasati del corteo, i poliziotti in macchina da soli sono di certo i più scoglionati di tutti. Un filo più divertiti i loro superiori, che sorvegliano con attenzione sia bonaria che rapace la lenta avanzata del terzomondismo. Più divertiti, ma anche impazienti e un po’ stizziti, i molti fotoreporter accorsi in Friuli. Non lo direbbero mai, ma vogliono tutti lo scoop, sperano nell’azione clamorosa. Un manipolo che lancia qualche pietre e molotov sulla polizia. O perché no, una scheggia impazzita di quelle vere, che si lancia in azioni clamorose.

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Una (piccola) parte dell’imponente dispiegamento di forze dell’ordine

Una radiolina gracchia. Un giovane ispettore in borghese scatta in avanti a passo svelto e discreto. Seguo, ma l’entusiasmo si spegne subito. Un trentenne magrebino strattona per il braccio una ragazza più giovane bardata con kefia, bandiera palestinese e una toppa della bandiera egiziana sul gilet di pelle nera. Le urla qualcosa riguardo sua mamma. Un poliziotto in borghese dice a un altro: «hanno litigato tra ragazze». Il corteo ormai è in pieno centro. Raggiunge il duomo. Le bandiere palestinesi, accanto la torre della cattedrale, mi fanno uno strano effetto. Non avendo ricevuto un’educazione cattolica, mi stupisco del mio stupore.

La compassione verso i più deboli, le vittime di qualsiasi razza e religione dovrebbe essere alla base di ogni insegnamento cristiano, una manifestazione del tutto pacifica come quella dovrebbe essere benedetta e condivisa da ogni cristiano. Giusto?

Eppure, dentro di me, sono rincuorato dal non sentire gridare “Allah akbar”, come ho sentito poco prima, davanti al duomo. Poi ripenso alla grottesca e offensiva proiezione della bandiera israeliana, nei giorni seguenti il 7 ottobre scorso, sull’arco di Tito, costruito in onore delle imprese imperiali in Galilea. Uno shock antistorico che non mi indigna meno dei figli di Maometto che sfilano davanti il duomo. Non faccio in tempo a figurarmi le legioni che soffocano nel sangue la rivolta giudaica che una visione totalizza i miei circuiti neuronali.

Davanti al Duomo di Udine / Foto di Jacopo Gozzi

Lei non ha più di 28 anni, giacchetta nera stretta su una camicia bianca, stivaletti neri, jeans attillati che esaltano due gambe slanciate e un culo che quel gigante di Massimo Fini sarebbe indeciso se definire “aristocratico” o persino “il culo dei culi”, perché dovete sapere che secondo il guru “il culo segnala non solo il carattere, ma spesso l’appartenenza di classe di una persona”. Capelli castano chiari poco sotto le spalle, viso affilato e serioso. È oltre l’avanguardia del corteo, nella mano sinistra un grosso portafoglio in pelle. Non ha nessuno attorno. Cammina con calma avanti e indietro, guarda il giusto attorno a sé, spesso cammina all’indietro osservando il corteo.

Una così me la figuro fuori dalla Tate o dal Pompidou, a sorseggiare un vino bio discorrendo di design e storia dell’arte con il suo ragazzo, altrettanto indaffarato in svaghi culturali, col quale condivide una relazione aperta. La monitoro. Se inizialmente mi dico che non c’entra nulla, che è una posa, che potrebbe benissimo essere pure del Mossad, la vedo parlare con una delle sbandieratrici all’inizio del corteo e mi rassegno: è una di loro. Per un attimo mi ricorda una ragazza del mio passato, persino più bella di lei ma anche, seppur coinvolta in realtà simili, molto più defilata e a disagio in cose del genere.

La grazia che rilascia attorno a sé, la sicurezza e nonchalance con cui si fa fotografare, pur senza bearsi negli obbiettivi dei reporter, mi colpisce. Una bella e distinta ragazza dell’alta borghesia che gioca a fare la rivoluzionaria è un cliché, vero, ma se declinato bene è sempre un cliché affascinante. Vorrei seguirla, ma d’un tratto una ragazza al microfono, prima di mettere in guardia «la dovete cantare tuttiii!», intona “bella ciao”. Poco prima si è detta indignata che Udine ospiti un evento come la partita, proprio una città per la cui libertà tanta gente ha combattuto nella resistenza.

Poco prima di uscire dal corteo / Video di Jacopo Gozzi

Le viscere si torcono, la voglia di stare lì è pari a quella di guardarsi il director’s cut di Schindler’s List, e in più sono le 19 passate e voglio andare a vedere la situazione allo stadio. Ovviamente non ho il biglietto, ho deciso di salire solo domenica sera e la vendita, non casualmente per niente pubblicizzata, era già stata chiusa. Poco male. Oggi quel che interessa è extra campo. Mi dileguo per strette stradine che portano alla grande piazza dove ho parcheggiato, notando che la mia scommessa (rubare un’ora di parcheggio gratis che tanto oggi tutti i vigili della città hanno altro da fare) si è rivelata vincente.

Dal centro in un baleno arrivo nella via dove parcheggio quando vado al Friuli, il classico posto che, al costo di 5 minuti di passeggiata in più, ti consente di tagliare fuori l’ingorgo post partita e tornare in mezz’ora netta al banco dell’osteria di riferimento del tuo paese, e la cosa magica è che quella mezz’ora non cambia né col tutto esaurito né con lo stadio mezzo vuoto. Mentre percorro il marciapiede che costeggia il parco che separa il mio parcheggio dal Friuli ho ancora la mente piena delle immagini del corteo. Penso sia stata una giornata ricca di spunti, ma quello che mi si para davanti è inaudito. Il primo parcheggio in cui m’imbatto, sul lato est, è chiuso.

Due blindati della polizia sorvegliano l’area contigua. Incrocio gli sguardi di sporadici avventori, spesso padri con figli piccoli (circa un migliaio i biglietti regalati a varie società dilettantistiche friulane), più raramente famiglie intere. Ogni gruppetto che incontro è spaesato, spesso rimbalzato da un ingresso all’altro, nessun sorriso sulle labbra. Proseguendo per il lato nord, dietro la curva, mi accorgo che non è stato allestito nessun chiosco. E che lo stadio è cinto da nuove recinzioni, che estendono l’area del pre filtraggio fino alla strada. E che pre filtraggi, signori. I metal detector, in uno stadio italiano, non li avevo ancora visti.

Sono la prima di tre barriere. Sotto gli esasperati occhi degli steward il primo controllo, al secondo si accede varcando un cordone della celere per poi approdare al tornello finale.

Ispeziono il lato ovest. La distopia aumenta. Dissuasori piantanti sull’asfalto. Un cancello, sorvegliato da decine di carabinieri e poliziotti, separa l’intero lato ovest dello stadio, dal quale si accede alla tribuna stampa e autorità, dal lato nord e sud. I controlli sono estenuanti e lentissimi. Entrare in alcune basi militari è più agevole. Ci sono code chilometriche. Aumenta la rabbia. Accanto a me una coppia sulla trentina appena arrivata. Alla visione della coda il ragazzo esclama una bestemmia, aggiungendo «tutto ‘sto casin per due ebrei in croce». Rido, e vado a ispezionare il lato sud. Devo tornare indietro. Mentre dribblo altra gente dall’aria parecchio scoglionata e vagamente tesa sento altre bestemmie, qualcuno parla di cecchini sul tetto dello stadio. Cosa grottescamente vera.

I cecchini appostati sul tetto / Foto Rai

Mentre mi figuro cecchini israeliani che sparano su pacifici invasori di campo e il pullman della nazionale israeliana fatto saltare in aria da un RPG di passaggio, noto una Cayenne fermata e perquisita all’ingresso del tunnel che porta al parcheggio interno dello stadio. Ovviamente, prima di oggi non ho mai visto mezzo vicolo perquisito per entrare nel garage dei super vip. Al lato sud le code sono più gestibili. Del resto, solo 11.000 biglietti venduti su una capienza di 25.000, 1000 dei quali regalati, in uno stadio che in altre occasioni ha sempre risposto bene alla Nazionale, anche contro avversari non certo di grido. I friulani sono gente pratica, le occasioni per vedere calcio di livello non mancano e pazienza per oggi.

Stasera meglio evitare problemi inutili, che già la circolazione stradale cittadina a soqquadro si sopporta a enorme fatica. Chi non può proprio evitare la serata di gala sono due opinionisti locali sulla cinquantina ben portata, spesso in onda sulle trasmissioni calcistiche regionali. Uno è un giornalista di quelli stile “ce l’avevo quasi fatta”, l’altro è un ex calciatore dilettante e allenatore in categorie continue all’ottavo cerchio dell’inferno. «Eh ma lei non mi lascia vivere, come faccio con Anna? La devo piantare?» chiede l’allenatore belloccio al compare, il cui volto ha il ghigno di chi sta per dare un consiglio galante ai sovraffollamenti amorosi dell’amico. Poco dopo di loro intercetto un dialogo tra una funzionaria di polizia quarantenne e un più datato carabiniere.


Si parlano l’una dal lato opposto del cancello. «Come non si trovano più due pattuglie dei Carabinieri? Dove sono finite?!» Esclama la donna stizzita. Il carabiniere, serafico, allarga stancamente le braccia «bisogna vedere chi le ha messe, e dove…». Non ne posso più. Sono stanco, voglio cenare e distendermi sul divano. Mi avvio alla macchina, e dietro la nord faccio l’ultimo incontro, il più inquietante. Un tizio trasandato, in jeans e felpa, sulla quarantina, capelli cortissimi e barba, mi chiede un biglietto in italiano corretto ma tutt’altro che solido. Sembra tenerci molto, blatera qualcosa sul fatto del nominativo. Ha uno zaino, la mano destra su cui spunta un tatuaggio, tiene una sigaretta. Gli spiego che non posso aiutarlo, eppure insiste, si è convinto che io sia un bagarino.

È quasi aggressivo, ci tiene davvero al biglietto, ma forse, pensandoci meglio, non è un caso non sia riuscito a prendere un tagliando. Penso sia l’esatto identikit della persona che in una serata del genere si vuole lontano dallo stadio, e rammaricandomi molto di non potere aiutare la potenziale scheggia impazzita della serata, me lo tolgo dai piedi indicandogli inesistenti bagarini dall’altro lato dello stadio. S’incammina nella direzione opposta alla mia, e tanto basta.

Sento l’insopportabile latrato dello speaker del Friuli. “Italia”. Urla scomposte di voci bianche esclamano il loro entusiasmo. Partono gli inni. L’Hatikvah è uno degli inni più belli del mondo. Viene accolto da un’incoraggiante bordata di fischi, che poi non sento più. “I danni dei bambini negli stadi” penso trascinandomi stancamente alla macchina. Mentre oltrepasso il centro di Udine i flash della giornata si rincorrono. Costeggio la caserma che ospita il comando della Julia. Mio nonno prestò servizio lì. Mi domando cosa avrebbe pensato vedendo la giornata di oggi, che cosa lo avrebbe stupito, o magari persino indignato, di più.

Una delle molte istantanee della serata / Foto di Jacopo Gozzi

Gli immondi massacri di Israele? Il mix di impotenza e menefreghismo delle cancellerie occidentali a riguardo? Che il dramma mediorientale sta sviluppando gli albori di una coscienza di classe a tinte etniche nei giovani immigrati non bianchi che popolano i bassifondi delle nostre città? Che le federazioni sportive mondiali vietino le Olimpiadi agli atleti russi che hanno legami con le forze dell’ordine ma concedono a Israele di schierare un portabandiera che firma orgoglioso le bombe che polverizzano i civili di Gaza? Poi penso la cosa più semplice.

Che, da militare con alle spalle una guerra combattuta in prima linea, sarebbe stato profondamente ferito di vedere ospitata nella sua città la nazionale di un paese che pochi giorni prima ha messo a rischio l’incolumità di un contingente di commilitoni, con l’aggravante dell’impiego umanitario di tale unità. E che, da civile, da italiano, si sarebbe sentito assai sconfitto vedendo tutte le risorse spese tra droni, elicotteri, blindati, carabinieri, poliziotti, artificieri, dissuasori, barriere, metal detector, ispezioni.

Pagare un tale massivo impiego di uomini e mezzi per garantire la sicurezza di atleti di una nazione che ti spara contro è esattamente il genere di cose che avrebbe abbattuto il morale di nonno. Abbatte anche il mio. E, a giudicare da quello che ho visto e sentito in questa tesa giornata friulana, quello di molte, molte, altre persone. Ripenso ai molti bambini presenti. A come i loro genitori hanno provato a spiegare loro quel clima di guerra. Mi chiedo come affronterei il discorso fossi al posto loro. Ma è tutto il giorno che cerco risposte e questa può aspettare. Chiudi gli occhi, incerto sulla natura onirica o reale della giornata, e sprofondo in un sonno pieno di dubbi.

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