L'Italia è alla fase finale di Euro 2024.
Quattro punti dovevano essere e quattro punti sono stati. L’Italia stacca il pass per la Germania raggiungendo l’obiettivo minimo eppure tutt’altro che scontato, e questo basta. La goleada contro la Macedonia ha confermato la modestia della nazionale balcanica e ha rimarcato quanto lo stato mentale del gruppo faccia la differenza nelle situazioni campali. Abbiamo spesso sottolineato come la principale fonte dei guai azzurri negli ultimi anni sia stata proprio la fragilità psicologica. Tra il rigore di Jorginho e la doppietta di Atanasov, c’erano tutti gli ingredienti per un ulteriore mezzo psicodramma che avrebbe obbligato gli azzurri ad andare a Leverkusen con un solo risultato utile.
Sarebbe stato grottesco, ed è proprio dal grottesco che la squadra di Spalletti dimostra di volersi allontanare in ogni modo possibile. Chiesa a parte (per distacco il miglior giocatore italiano, che nelle due uscite con la Nazionale ha mostrato come l’attuale assetto juventino non sia il contesto più adatto a massimizzare le sue notevoli capacità tecniche e fisiche), i gol sono arrivati da Darmian, Raspadori ed El Shaarawy, giocatori utilissimi ma certo non le prime scelte nelle rispettive squadre. La formazione, 27.8 anni di media, è stata figlia anche della fondamentale gara contro gli ucraini, che imponeva scelte di campo dinamiche, giovani, aggressive.
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Un centrocampo condotto da Jorginho e Bonaventura, 65 anni in due, non può essere il futuro della Nazionale e nemmeno il suo presente. Spalletti però non ha colpe riguardo i noti avvenimenti che terranno lontani dai campi Tonali e Fagioli, tocca quindi fare di necessità virtù. Ammettendo, finalmente, che è giunto il momento di sollevare il centrocampista dell’Arsenal dall’onere di tirare i rigori. Quel che Spalletti poteva e doveva fare, contro l’Ucraina, era mettere in campo la formazione che desse più garanzie possibili. E quindi dentro Di Lorenzo, Buongiorno, Frattesi e Zaniolo. Questo è, al momento.
E considerata la posta in palio, per la quale bastava non perdere, si è visto anche un primo tempo sopra le aspettative.
Sarà stata per l’appassionata cornice di pubblico (a proposito, evidentemente per la Uefa un paio di striscioni in sostegno al battaglione Azov non ha nessuna carica eversiva, a differenza di una bandiera palestinese), o per un briciolo di amor proprio, ma il primo tempo è stato giocato su buoni ritmi, portando avanti un lavoro certosino volto ad allargare le maglie ucraine e trovare gli spazi che avrebbero potuto chiudere il discorso qualificazione nella prima metà. E gli spazi si sono anche trovati, come pure alcune spiacevoli conferme: Frattesi è in un momento di appannamento generale e Raspadori, semplicemente, non è il killer che la Nazionale merita di avere sottoporta. Per usare un eufemismo.
Come confermato dallo stesso Frattesi nel post partita: «sapevamo che se non segnavamo entro 60 minuti sarebbe diventata dura». E infatti. Eppure, a parere di chi scrive, nell’immediato post partita si è criticato troppo l’arroccamento degli azzurri nell’ultima mezz’ora. L’Ucraina non è la Francia, ma nemmeno San Marino. Una rosa sui 300 milioni, tanti giocatori in Premier e nella buona borghesia del calcio europeo. E poi l’ardente desiderio di regalare una piccola grande gioia a una Nazione che va per i due anni di guerra. Ma soprattutto, l’Italia è questa. Una Nazionale che ha le sue fragilità (innanzitutto psicologiche, dopo due qualificazioni mondiali fallite) e i suoi limiti, soprattutto se comparata con le migliori rappresentative mondiali ed europee.
Soffrire era nell’ordine delle cose. La novità è che si è sofferto meglio, come ai tempi in cui la Nazionale metteva ordine nel caos altrui, con l’autorevolezza di chi, semplicemente, sa di essere più forte e alle prese con qualcosa di troppo importante per lasciarselo scappare via, con la ferma convinzione di poter portare la barca in porto senza troppi patemi. Le chiusure finali di Buongiorno, alla seconda in Nazionale, in una partita così importante, giocata per la gran parte gravato da un’ammonizione, sono state plastica dimostrazione dell’abnegazione e della concentrazione che ci si aspetta dalla retroguardia azzurra.
Certo, quando Mudryk è rovinato a terra ci si è ghiacciato il sangue nelle vene.
Le immagini sono dubbie, e ancora oggi restano molti interrogativi. Ma la dinamica lascia pensare subito al rigore, l’intervento è davvero al limite e Zazzaroni ha fatto bene, sul Corriere dello Sport, a titolare nell’edizione odierna ‘per grazia ricevuta‘. Così a Sky Bergomi ha detto lo stesso. L’ennesimo dramma della storia recente dovrà aspettare. Ora l’unica cosa da fare è mettersi comodi e sintonizzarsi sul sorteggio di Amburgo del 2 dicembre, e da allora ci sarà tempo e modo per l’italica attitudine di fasciarsi la testa preannunciando le sciagure cui andremo incontro in Germania. Certo, si possono anche tirare le somme sui primi tre mesi da commissario tecnico. 6 partite, 13 reti segnate e 7 subite, media punti 1.83.
Spalletti ha subito calcato la mano sulla forza mentale che la Nazionale deve fare sua, e in campo si vede un atteggiamento combattivo, attento, costruttivo, non caricaturale, che era stato lontano troppo tempo da Coverciano. Si vedono principi di gioco sempre più definiti: la ricerca dello spazio con calma e dedizione, una certa attenzione a un giro palla pulito, inserimenti che il tempo sta rendendo sempre più scorrevoli e automatici. E ormai, anche alcune certezze sugli uomini cardine. Donnarumma, Barella, Dimarco e Raspadori hanno giocato, dall’inizio o da subentranti, in ogni gara. Frattesi (capocannoniere di questo miniciclo di partite), Cristante, Di Lorenzo, Bastoni e Zaniolo altri fedelissimi, per poi arrivare a Politano, Kean, Berardi.
Un mix di giocatori di fama internazionale, promesse finora non mantenute a pieno e onesti mestieranti di Serie A. Inutile rimpiangere i bei tempi andati, che non fa bene a nessuno. Giugno è lontano, e 6 partite, a nemmeno dicembre, non sono nulla in una stagione che si conclude con una rassegna internazionale. La strada è ancora lunghissima tra infortuni, speranzosi exploit di alcuni giocatori, drastiche involuzioni di altri, la condizione fisica che il gruppo si troverà a giugno. Ma ci sembra di poter dire, e lo diciamo sottovoce, che la prima missione di Spalletti, quella di investire il gruppo di un destino forte, come di andare in Germania a difendere il titolo europeo, sia andata a buon fine.
«Adesso viene il bello», ha ghignato davanti le telecamere a qualificazione ottenuta. Ce lo auguriamo.
C’è ancora molto lavoro da fare, dalla selezione degli uomini al miglioramento di certi automatismi di gioco, in entrambe le fasi. Ma il seme è stato piantato, e il raccolto è affidato a un signore di Certaldo che sa quanto la natura sia bizzosa, proprio come certi calciatori. La natura però rispetta chi non cerca di sfidarla, ma chi prova a capirla per indirizzare la sua energia tramite in cerca di un bene comune. È faccenda per alchimisti medievali. Un tempo giravano le corti d’Europa meravigliando con i loro prodigi. Stanotte il demiurgo certaldese si è guadagnato la chiamata in terra teutonica. E ci sentiamo di giurare che, per omaggiare un tale contesto, produrrà il meglio della sua arte.