Intervista sulla Nazionale ad uno dei più bravi e preparati giornalisti italiani.
Un paio di tweet lasciati qua e là sul suo (celeberrimo) profilo ci hanno spinto ad intervistarlo. Giuseppe Pastore tiene alla nazionale come un tifoso inglese tiene all’Inghilterra, visceralmente. Forse perché – come ci ha rivelato – il suo colpo di fulmine con il calcio è avvenuto proprio durante un mondiale (quello nostalgico per eccellenza ad Usa 94). Anziché vivere di ricordi, però, abbiamo provato ad incalzarlo sul presente (tetro) e il futuro (incerto) della nostra Nazionale. Lo ringraziamo di cuore per la non comune disponibilità.
In un recente tweet hai scritto: «tutti i nostri pensieri allo sfortunato #Verratti che per problemi fisici – mannaggia! – ha dovuto rinunciare alla Nazionale a ottobre 2017, maggio 2018, settembre 2018, novembre 2019, settembre 2020, novembre 2020, maggio-giugno 2021, novembre 2021, giugno 2022 e settembre 2022». Poi , rispondendo ad un commento di chi “difendeva” Verratti, hai aggiunto: «è il simbolo di un attaccamento alla maglia azzurra e di uno spirito che tante soddisfazioni ci ha dato negli ultimi tempi».
Al di là del tono volutamente ironico e provocatorio, come ti spieghi l’epidemia da nazionale che ha colpito tanti (e celebri) calciatori azzurri negli ultimi tempi? È un problema solo nostro – quello di vedere la nazionale più come un onere che come un onore – o è riguarda un po’ tutti? Esiste, secondo te, una correlazione tra questa tendenza e gli ultimi disastrosi risultati della nazionale (esclusa la miracolosa parentesi europea)?
È un problema storico, che ricordo essere iniziato almeno vent’anni fa, quando i Vieri, i Totti, i Del Piero ecc. – con tutto il rispetto, un po’ meglio di Politano Pellegrini e Raspadori – iniziarono regolarmente a disertare amichevoli anche a ridosso dei Mondiali (a cui ancora ci qualificavamo), con la connivenza dei grandi club e la benevolenza della stessa Nazionale, che non poteva certo permettersi una frattura con tali campioni né tantomeno con gli stessi club.
Non saprei dirti se è un problema solo italiano, ma sicuramente l’Italia è uno dei Paesi meno affezionati alla Nazionale a cominciare dai suoi stessi tifosi, che in questi giorni esultano sui social quando un “loro” giocatore lascia Coverciano – e i recenti risultati certamente non aiutano. Ma non penso ci sia una correlazione diretta tra la disaffezione popolare e i due disastri del 2018 e del 2022, così come non penso che il problema sia che “i bambini non giocano più a calcio”: penso che il problema molto più banalmente siano due cattive gestioni tecniche (Ventura e Mancini, limitatamente alle Qualificazioni Mondiali) e la mancanza purtroppo cronica di prime punte che avrebbero di molto semplificato il percorso.
“A cominciare dai suoi stessi tifosi“, ci rivela Giuseppe Pastore. La sua è una battaglia che condividiamo da molto tempo.
Rimanendo sul doloroso tema mondiale, sempre su Twitter hai ricordato che «la partita Austria-Italia, in programma a Vienna domenica 20 novembre alle 20:45, sarà la PRIMA partita amichevole della storia della Nazionale giocata durante un Mondiale: quella sera, infatti, #Qatar2022 sarà già iniziato da tre ore (con Qatar-Ecuador alle ore 17)». Ci siamo resi conto, secondo te, della gravità del buco generazionale che vivrà il paese calcistico con l’Italia fuori dai mondiali per due edizioni consecutive, o ce ne accorgeremo solo durante Austria-Italia (ehm, pardon, Qatar-Ecuador)?
Chi voleva accorgersene se n’è accorto nel 2018 e se n’è accorto nel 2022: sicuramente nell’educazione calcistica di un bambino, che è qualcosa di molto simile a un’educazione sentimentale, questo doppio buco lo priva di emozioni che difficilmente riuscirà a provare da adolescente-adulto con la stessa intensità (certo, almeno si è divertito agli Europei). Aggiungici che oggi il calcio è vissuto in maniera molto meno totale, soprattutto quello italiano che essendo privo di stelle che rubino l’occhio (quantomeno rispetto alla “nostra” generazione) viene facilmente (e anche giustamente) sorpassato a destra e a sinistra da Champions, Premier League, videogames…
Mancini ha parlato, come fa ciclicamente, del problema attaccanti connesso al ricambio generazionale. Secondo lui, oltre Immobile (almeno in Serie A, almeno adesso), non c’è molto (se non nulla). Sei d’accordo?
Sono d’accordo. Alla seconda giornata abbiamo avuto il record negativo di gol italiani in un singolo turno di campionato: uno solo, Berardi. Ci abbiamo messo sette giornate per avere una doppietta italiana, e ha dovuto pensarci il solito Immobile alla Cremonese. Un italiano non segna in una finale di Champions dal 2007 (Inzaghi). Il settore delle punte italiane non viveva una crisi tale dagli anni Cinquanta, quando eravamo costretti a naturalizzare Altafini, Sivori, ecc.: a parte Immobile che va per i 33 anni, non mi viene in mente nessuno che meriterebbe di giocare titolare non dico in un Real Madrid, ma nemmeno in un Borussia Dortmund o un Siviglia.
Ti piace Roberto Mancini? Chi vedresti bene, nel futuro prossimo, sulla panchina dell’Italia?
Sì e no. Penso che abbia fatto un lavoro prodigioso fino agli Europei, anche per essere riuscito a ridare orgoglio e “stile” a una squadra mortificata dal flop di Russia 2018: un vero capolavoro. Poi si è seduto sugli allori, e la squadra con lui, in modo purtroppo non sorprendente per chi conoscesse un minimo la sua carriera. Non si aspettava per nulla di fallire la qualificazione ai Mondiali e ha reagito al trauma in maniera sbagliata, immatura per un manager del suo curriculum, quasi negando la realtà dei fatti, trincerandosi dietro polemiche sul sistema, persino sul regolamento, addirittura ventilando ipotesi di ripescaggio… adesso è difficile ritrovare il bandolo della matassa, anche se naturalmente questa Nations League è del tutto irrilevante: ne riparleremo dal 2023. Sostituti ne vedo pochi: Ancelotti non ci pensa nemmeno e quindi a breve-medio termine l’unica ipotesi praticabile – ma prevedo già le pernacchie – rimarrebbe Allegri.
A cosa è dovuta la crisi della nazionale? Alla noiosa questione sulla sovrabbondanza degli stranieri nel nostro campionato? O, più semplicemente, al fatto che siamo diventati più scarsi di altre nazionali?
La sovrabbondanza di stranieri è una delle cause, non la principale: ma è un dato di fatto che il Decreto Crescita, venuto in soccorso dei club dissanguati dal Covid e dai loro errori gestionali, abbia ridotto gli spazi. A parità di valore, di età e di talento, un Thomas Henry sarà più conveniente economicamente di un Bonazzoli. Più in generale, la crisi della Nazionale – che, lo ripeto, è soprattutto una crisi di attaccanti, perché non siamo ai Mondiali essenzialmente perché non siamo riusciti a segnare a Bulgaria, Irlanda del Nord o Macedonia – può essere affrontata con una ventata d’aria fresca: ridare centralità alla tecnica nei settori giovanili, evitare di infarcire le squadre Primavera di prime punte di un metro e 90 (spesso anch’esse straniere, visto che costano meno) che dominano fisicamente ma non sanno stoppare un pallone perché già a 18 anni devi essere schiavo del risultato. E adottare politiche a largo raggio più inclusive e facilitatrici: non voglio cadere in discorsi populisti, ma se vogliamo tornare sul ritornello che “i bambini non giocano più in strada”, non posso fare a meno di notare che i pochi che giocano ancora in strada sono proprio i cosiddetti “nuovi italiani”.
L’Italia sembra aver perso il suo talento, almeno nel calcio (visto che ad esempio nel nuoto e nella pallavolo, ma anche nell’atletica o nel tennis, le cose vanno benissimo). Se dovessi sparare una percentuale rispetto al fiorire di una generazione di talenti nel nostro Paese, quanto assegni alla programmazione e quanto alla casualità? Detto altrimenti: perché non nascono più i Totti e i Del Piero? È un problema connesso all’arretratezza dei metodi applicati ai ragazzi (come agli ambienti nei quali crescono) o c’è dell’altro?
La scomparsa dei vecchi metodi di reclutamento (gli oratori, le strade, la vecchia “selezione naturale”) ha il suo peso: il calcio è un gioco economicamente costoso e spesso le scuole calcio sono regolate da logiche manageriali che risultano respingenti per le famiglie e per gli stessi bambini. E poi – grazie a Dio – gli esempi positivi negli altri sport ci stanno finalmente rendendo un Paese sempre meno calcio-centrico: da appassionato di tutti gli sport, è entusiasmante vedere il ruolo di élite che abbiamo saputo ritagliarci nel nuoto o nel tennis, discipline in cui eravamo nulli negli anni ’90. Altro luogo comune, ma con parecchia verità: “Le piscine sono piene”. E se una Nazionale di calcio un po’ in tono minore è il prezzo da pagare per vincere 40 medaglie alle Olimpiadi, sinceramente lo pago volentieri.
Chiudiamo con un momento amarcord: qual è la nazionale che ti è più rimasta nel cuore? Se dico Italia, a quale calciatore pensi?
Te ne dico due: Paolo Maldini e Roberto Baggio. La Nazionale del 1994 è la prima che ho tifato consapevolmente, dal momento che il mio colpo di fulmine con il calcio è scoccato proprio durante USA ’94: un Mondiale non eccezionale, col senno di poi, ma attraversato da emozioni fortissime come Italia-Nigeria che ricorderò per sempre. Al secondo posto metto quella del 2021: per tutto ciò che avevamo passato come Nazionale e come Paese, per le storie contenute in quella squadra, per la cavalcata entusiasmante di Wembley, è un trionfo che metto addirittura sopra al 2006.
Giuseppe Pastore è nato a Mola di Bari nel 1985. Giornalista professionista, visceralmente appassionato di sport, cinema e storie, scrive per «Il Foglio», «Cronache di spogliatoio», «Linkiesta», «Esquire». Ha scritto diversi libri di sport: l’ultimo in ordine di tempo “Il Milan col sole in tasca” per 66thand2nd (2022).