Altri Sport
07 Marzo 2019

L'estate di Philly

On the parquets of Philadelphia.

“Every breath you take, Every move you make, Every bond you break, Every step you take, I’ll be watching you

Every single day, Every word you say, Every game you play, Every night you stay, I’ll be watching you”

Every breath you take (Sting & the Police 1983.)

Non cercate paragoni, non lì troverete. La squadra che in una singola stagione ha perso di più nello sport professionistico americano sono loro: I Philadelphia 76ers del 1972/73. Le statistiche sono tomo da mettere all’indice e celare nella crepa della Liberty Bell: 9 vinte 73 perse. Eppure coach Roy Rubin chiamato dal general Manager Don Dejardin era uomo all’apparenza tenace, scafato, uno che il giorno del primo allenamento si presentò al gruppo con una predica da pastore puritano:

“Ok allora fate attenzione ragazzi, non so come siete stati abituati in passato ma con me non si scherza o sono guai, la parola d’ordine è disciplina e se non ci credete andate a chiederlo a quelli che ho allenato per undici anni al college di Long Island. Si comincia dalla divisa sociale, si lo so che voi pensate di essere tutta gente che non abita sulle colline di Hollywood per puro caso ma finché siete sotto di me vi voglio tutti in giacca e cravatta, niente capelli lunghi, niente bigiotterie, e soprattutto niente camicie lisergiche floreali che pare vadano tanto di moda in questi dannatissimi anni settanta, ah, e inoltre dimenticate birra e sigarette a casa. Sono stato chiaro?

A questo punto si alza Fred Carter detto “McDog”, diciamo la star della squadra? Si, diciamo la star della squadra.

“Ehi Coach, senta capisco le sue ragioni ma io ho l’abitudine di farmi una “paglia” prima delle partite, sa mi aiuta a scaricare la tensione, come faccio?

Cinque secondi di silenzio interminabile.

“A posto Fred, facciamo così, tu, ma solo tu, puoi fumare.”

Ecco, in quel avverbio congiunto al pronome, stava già suonando il più significativo dei campanelli d’allarme di un’annata disgraziata, l’annata di coloro che verranno goliardicamente ribattezzati “seventy sickers” da “sick” che sta più o meno a significare ammalato.

McDog in palleggio

“Turn around, every now and then I get a little bit lonely, And you’re never coming ‘round, Turn around, every now and then I get a little bit tired

Of listening to the sound of my tears

Turn around, every now and then I get a little bit nervous, That the best of all the years have gone by

Turn around, every now and then I get a little bit terrified, And then I see the look in your eyes

Turn around bright eyes, every now and then I fall apart…”

Total Eclipse of the Heart. (Bonnie Tyler 1983)

Talvolta le date nascondono aspetti profetici. A “Philly” la franchigia decide di modificare il nickname da Nationals a 76ers in omaggio al 1776, data dell’indipendenza statunitense, e guarda caso a duecento anni di distanza, nel 1976, l’attore Sylvester Stallone vestirà i panni di Rocky Balboa, l’eroe indigente che tira avanti giorno per giorno nella periferia povera e caliginosa della città e che dopo una serie di circostanze ha la possibilità di diventare campione del mondo dei Pesi Massimi affrontando Apollo Creed, il fuoriclasse nero, bello ed elegante, in un match organizzato ad hoc, per dare, in uno stile tutto a stelle e strisce, la possibilità di imporsi nella vita a un perdente.

Rocky Balboa, lo “stallone italiano”, se la gioca bene, perde ai punti ma resta in piedi fino all’ultimo round e quell’ “Adriana!” gridato a squarciagola entrerà sottopelle nell’anima di Philadephia gravata da una pesante atmosfera di crisi economica dettata dal clima di incertezza delle acciaierie di Pittsburgh e da un po’ tutte le industrie locali finite in brutte acque. Vuoi il film, vuoi una nuova congiuntura a Philadelphia si cominciò a respirare aria di riscatto anche sportivo e allora i Sixers torneranno ai vertici nel basket allenati da Billy Cunningham raggiungendo la finale per l’anello nella stagioni ‘77, ’80, ‘82 in cui però saranno costretti a cedere a Portland nella prima occasione e nelle due successive ai Los Angeles Lakers non riuscendo ad arginare le prestazioni sontuose di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar.

“What a feeling, Bein’s believin’, I can have it all, Now I’m dancing for my life, Take your passion, And make it happen, Pictures come alive, You can dance right through your life…”

Flashdance…What A Feeling (Irene Clara 1983)

L’anno buono sarà il 1983. Da Houston arriva a Philly “The Chairman of the Boards”, il signore dei rimbalzi, ovvero al secolo Moses Malone, uno dei più grandi lottatori mai visti su un parquet NBA, favoloso e dominante sotto i tabelloni, tanto cuore e tanta buona tecnica. “La mia pallacanestro è fatta di lavoro duro e orgoglio. Se ci fosse da fare un quintetto di giocatori che danno tutto, sceglierei il mio nome cinque volte”. Dichiarazioni come questa restano celebri come quel “Fo-fo-fo” (abbreviazione di “four”) per sottolineare l’intenzione di vincere 4-0 tutte le serie di playoff del 1983, impresa quasi compiuta se non fosse stato per una scivolata contro Milwaukee nella finale di Conference.

Chiedi chi era Moses Malone

E sarà in questa atmosfera elettrica che nello spogliatoio di Cunningham entrò anche Maurice Cheeks con la sua pettinatura afro e due baffetti curati da sceriffo di un polveroso e pericoloso paesino dell’epopea Western. A scovarlo furono gli scout dei 76ers in un piccolo college del Texas a cui era approdato per caso, quando un amico se lo era portato dietro per fargli compagnia e portargli fortuna per il provino e poi invece a sorpresa l’amico tornerà in officina a fare il meccanico e lui invece prenderà la strada della celebrità. “Mo”, come verrà sempre chiamato, diventerà subito il play di “Phila”, un condottiero in campo, un giocatore non vocale, molto silenzioso, che esprimeva una leadership quieta diventando l’ossessione di più di un avversario.

Con Billy Cunningham formerà un duo cestistico panchina/campo decisamente efficace e per nulla glamour, distribuendo la palla alla perfezione nell’incanto dei voli pindarici di Julius Erving. Insomma, nella città dell’amore fraterno, così la definì il suo fondatore, il quacchero William Penn, insieme a “Doctor J” il quintetto base diventò questo: Maurice Cheeks, Andrew Toney, Julius Erving, Bobby Jones e Moses Malone al centro a reggere tutta la baracca. E dalla panchina ecco uscire Bobby Jones, proclamato per acclamazione il sesto uomo dell’anno.

I Sixers scriveranno sulla lavagna della regular season un significativo 65-17. Moses “Mosè” Malone è MVP segnerà una media di 24 punti catturando 15 rimbalzi di media di cui quasi 6 offensivi (aiutato dal suo solito trucchetto da circo di lanciare la palla verso la tabella per aumentare i totali). Una squadra fra l’altro piena di futuri protagonisti italiani (da Cureton, a Schoene, da Iavaroni, a JJ Anderson, fino a Clemon Johnson), che si sobbarca un peso extra in difesa, smazzando letteralmente via le concorrenti nella postseason perdendo una sola partita.

“Baby, come to me, Let me put my arms around you, This was meant to be, And I’m oh-so glad I found you, Need you everyday, Got to have your love around me, Baby, always stay, ‘Cause I can’t go back to living without you…”

Baby Come To Me (Patti Austin 1983)

Ah sì, doveroso. Abbiamo accennato a Julius Erving, per l’anagrafe Julius Winfield Erving II, per tutti semplicemente ‘Doctor J’. Nato a East Meadows e cresciuto a Roosevelt, entrambi sobborghi di New York, Julius entrò nella squadra nella locale High School composta da dieci ragazzi bianchi e due neri: lui e l’amico Leon Saunders. Julius racconta di come Saunders lo incoraggiasse ogni sera consapevole delle doti che quel fusto d’ebano lasciava intravedere al punto che Erving, per riflesso incondizionato, iniziò a chiamarlo “Professor”.

Per tutta risposta a lui toccò il nomignolo di “Doctor” che diventerà il suo alter ego, l’appellativo da supereroe Marvel. Quando nel 1968 Julius approdò al college della University Of Massachusetts era da poco in vigore la cosiddetta “Lew Alcindor Rule”, la regola NCAA che vietava l’utilizzo della schiacciata nata per cercare di limitare lo strapotere di un certo Kareem Abdul-Jabbar (progetto che peraltro fallì miseramente, visto che l’allora Alcindor pensò bene di approfittare del veto per perfezionare il suo marchio di fabbrica passato alla storia in “gancio-cielo”).

Doctor J imperiale

Ma prima del college, prima dell’ABA e della NBA, la vera saga del “Doctor” nacque nei playground newyorkesi dove Erving incantava gli spettatori addossati alle rete di bordo campo e si racconta che durante una sua epica apparizione al famigerato Rucker Park di Harlem i presenti erano talmente numerosi da essere assiepati ovunque, dai cornicioni delle finestre, ai lampioni della luce, ai rami degli alberi e tutti dopo un po’ iniziarono ad affibbiare ad Erving i soprannomi più fantasiosi, finché lo stesso Julius vagamente infastidito fermò il gioco e suggerì: “Just call me “Doctor”.

Oh yeah the “Doc” colui contro cui nessuno avrebbe mai voluto giocare volentieri un uno contro uno perché come si dice in qualsiasi lingua del mondo Erving era poesia in movimento e non bastarono le lacrime di Coach Billy Cunningham a convincerlo a giocare ancora un altro anno quando nel 1987 serenamente decise di appendere la canotta numero 6 di “Phila” e ritirarsi dal basket giocato. Michael Jordan disse, intervistato: “Senza Doctor J non sarebbe mai esistito, MJ”.

“Sweet dreams are made of this, Who am I to disagree?

I travel the world, And the seven seas, Everybody’s looking for something.

Some of them want to use you, Some of them want to get used by you, Some of them want to abuse you, Some of them want to be abused…”

“Sweet Dreams -Are Made of This-” (Eurythmics 1983)

La vittoria schiacciante dei Sixers del 1983, 4-0 ai danni dei Lakers, rappresenta, in fondo, l’ultima di una squadra costruita secondo i dettami anni ’70, nel pieno dell’era Magic e Larry. Una vittoria che premiò finalmente Philadelphia dopo quella penosa stagione ricordata all’inizio e dopo la rabbia di un tris di finals perse che evidentemente invitarono a correre ancora più decisi i gradini della Indipendence Hall perché come Rocky Balboa insegna: per vincere occorre riprovarci.

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