L'orgoglio di Manzoni, la caparbietà di Ceppi, il tifo come eredità culturale.
“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…”. In quanti, tra i banchi di scuola, abbiamo amato e odiato questi versi? In quanti – ancora acerbi nell’età e ancor aspri nella curiosità – hanno snobbato il nobile richiamo geografico che Manzoni volle fare nei versi introduttivi di quella che con tutta probabilità resta la sua opera più celebre, i Promessi Sposi? Un richiamo alla sua gioventù, alle sue radici e al paesaggio che quotidianamente era solito vedere dalla sua finestra.
Si parlava proprio di Lecco. Della sua sezione di lago che assieme a quelle di Como e Colico, dà vita a uno dei bacini idrici più importanti e belli d’Italia. Delle sue rive lacustri, ammantate dal blu dell’acqua e dal celeste del cielo, delle sue viuzze dove Don Abbondio incrocia i Bravi. E della sua montagna, il Resegone, che la domina e che è visibile da ogni sporgenza di questo centro urbano. Oggi provincia, abitata da oltre settantamila anime. Città elegante, dall’anima settentrionale. Arrivarci con il treno a inizio dicembre, di prima mattina, significa ricevere in cambio una gelida folata di vento, quasi a ricordarti quanto le Alpi siano lì, a un tiro di schioppo. E dominino città, lago e valli. Con uno sguardo severo, a difendere i confini e la loro gente.
Oltre ai vanti naturalistici e alla lunga storiografia (della sua esistenza se ne parla già prima dell’arrivo dei romani, che con Giulio Cesare la ribattezzarono poi Leucum), Lecco è una di quelle città che hanno scritto pagine importanti nel calcio italiano. Vanta una storia ultracentenaria, essendo il club nato il 22 dicembre 1912. Esattamente centodieci anni fa. Quando la palla di cuoio era ancora agli albori e la gente cominciava ad appassionarsi, affollando grandi piazze adibite a stadi e riconoscendo nelle casacche dei giocatori un forte fattore identitario.
Un motivo per fronteggiare e sfottere il paese o la città storicamente avversa e far prevalere il proprio campanile. Un sodalizio figlio del lago nel vero e proprio senso, basti pensare che la sezione calcistica venne creata all’interno della Società Canottieri Lecco, fondata a sua volta nel 1885. Colori blu e celeste che rispecchiano il contrasto tra il firmamento e il Lario, e che lasceranno per sempre in chi l’indossa il legame con esso. Facendo dell’AC Lecco (primo nome del club, poi mutato in seguito a esclusioni e fallimenti) un tassello fondamentale della comunità cittadina.
A proposito di campanile, da queste parti merita menzione quello della Basilica di San Nicolò, uno dei simboli della città da cui si staglia un panorama a dir poco mozzafiato. E da cui si scorge la sagoma dello stadio Rigamonti-Ceppi. Là, dove si è scritta la storia della Lecco sportiva. Dove per tre volte hanno passeggiato gli squadroni della Serie A (1960/1961, 1961/1962 e 1966/1967) e dove il pubblico lecchese ha sostenuto i propri colori anche dopo gli anni settanta, quando è cominciato un lento declino verso le categorie inferiori.
Per conoscere le viscere pallonare di un posto occorre visitarne il cuore mentre tutti dormono. Occorre percorrere il perimetro dello stadio cittadino di prima mattina. Memorizzando murales, ammirando la maestosa – quanto retrò – sede sociale della Calcio Lecco, forse una delle ultime a rimanere installate all’interno di un impianto sportivo. Le insegne dei settori, gli spalti che si intravedono da fuori e le case circostanti: il balzo nel passato è palese e suggestivo. L’aquila bluceleste sembra per un momento volare indietro di decenni e far sentire il brusio dei tifosi, più precisamente dei 22.000 lecchesi che domenica 12 marzo 1961 al novantesimo poterono lasciarsi andare alle urla di giubilo per quello che forse resta il momento più alto raggiunto dai club: l’Inter di Helenio Herrara sconfitta 2-1, grazie alla doppietta di Gilardoni.
Un successo che suggellò il match d’andata, in cui la squadra allenata da Piccioli (una vera e propria istituzione da queste parti) riuscì a strappare un punto (1-1) a San Siro. Di fatto un intralcio non da poco per i nerazzurri, che dopo quella partita inanelleranno una serie di risultati negativi perdendo la testa della classifica. A qualcuno, invece, piace raccontare che il crollo dell’Inter fu causato dall’anatema lanciato da Herrera a fine partita. “Non si salveranno”, disse riferendosi ai padroni di casa. Le cose andarono differentemente. Con il Lecco capace di ottenere la prima (e unica) storica permanenza in A in seguito agli spareggi con Udinese e Bari, utili a decretare i pugliesi come terza retrocessa assieme a Napoli e Lazio.
Non avete letto male – se ve lo state chiedendo -, ai tempi lo stadio lecchese poteva contenere oltre ventimila spettatori. A pensarlo oggi, con i suoi 4.497 posti disponibili, appare impossibile. Ma sia le trasformazioni negli anni che (soprattutto) le leggi in fatto di sicurezza durante le manifestazioni sportive, hanno lentamente ridotto la capienza.
Eppure rimaniamo di fronte a un vero e proprio gioiellino, voluto da Eugenio Ceppi (presidente della Società Canottieri Lecco, che concesse un terreno apposito nella zona della città conosciuta come Castello), inaugurato nel 1922 e intitolato dapprima a Mario Ceppi, proprietario della storica azienda produttrice di impianti illuminati Leuci e presidentissimo dal 1948 al 1983 (anno della sua morte) a cui sono legati i migliori risultati sportivi, e infine anche a Mario Rigamonti, ex calciatore del Lecco, passato al Grande Torino e perito successivamente nella sciagura di Superga.
La targa in onore di Mario Ceppi.
E oggi? Cosa rimane dell’epopea lecchese? Di quella squadra che, assieme agli storici rivali del Como, è riuscita a portare le rive del Lario in massima divisione? Oggi c’è una società riuscita a tornare nel professionismo (2019) dopo diversi anni di Serie D, presentando un progetto lungimirante e investendo una discreta quantità di denaro per competere ad alti livelli.
Certo, al netto di un passato scintillante ma ormai lontano e sfocato, molte generazioni hanno strizzato l’occhio alla vicina Milano e ai più facili palcoscenici offerti da Milan, Inter e Juve. Avviene spesso in provincia e avviene anche qua. Ma ilgermoglio, anche se oggigiorno si fatica a riempire le gradinate del Rigamonti-Ceppi, non è morto e la radice segue l’Aquila in volo, legando alle sue ali la fede nei colori e nell’identità.
Ovviamente la “radice” non può che essere la Curva Nord, quello spazio dove ogni domenica si raduna l’ala più calda del tifo bluceleste e dalla quale si possono udire i canti a sostegno dei giocatori. Un piccolo anfratto all’intero di una cultura, quella ultras, diffusa su tutto il nostro territorio nazionale. E per la quale occorrerebbe sempre un maggiore approfondimento nella descrizione, considerato il potere di legare con un fil rouge masnade di ragazzi, ragazze, vecchi e giovani di qualsiasi estrazione sociale.
Se l’essenza del tifo – la base che traina e foraggia anche le curve più grandi – si trova nelle piccole piazze, allora oggi siamo nel posto giusto. In questa domenica di dicembre, con il Natale alle porte e i treni per Tirano stracolmi di gente intenta ad andare a sciare o percorrere la mirabolante Ferrovia del Bernina, il Lecco ospita il Padova e si gioca ottime chance di balzare al primo posto in classifica. Una possibilità che fa accapponare la pelle ai più anziani, memori di una Serie B che manca ormai da mezzo secolo, ed eccita i ragazzi che da poco si sono avvicinati alle gradinate.
C’è chi nel settore ospiti del Rigamonti-Ceppi sogna di rivedere i comaschi, per dar vita all’infuocato derby lacustre, e chi spera di fronteggiare club storici del nostro calcio, che oggi navigano a fortune alterne in cadetteria. Sarebbe un traguardo in grado di riaccendere la fiamma in città e di favorire la formazione di nuove generazioni blucelesti. E di fronte c’è un’altra nobile decaduta, quel club biancoscudato che ormai da anni annaspa in Serie C e che sta affrontando una delle sue peggiori annate dell’ultimo decennio.
Un nugolo di ragazzi si muove dal bar, verso la curva. Cantano e sventolano i propri vessilli, scuotendo il silenzio del giorno di festa e aprendo le danze per quello che dovrà essere il loro “ruolo” per le prossime due ore.
C’è chi scherza, chi si dà una pacca sulle spalle e chi canta a squarciagola, ridendo in barba a tutto il resto del mondo che passa la sua domenica pacificamente in casa, nei centri commerciali o davanti alle partite della Coppa del Mondo.
Ultras è anche e soprattutto questo, aggregazione al di fuori delle righe e partecipazione a un mondo che – con i suoi limiti e le sue controversie – sprizza ancora umanità da tutti i pori. Checché ne possano scrivere figuri mai interessati veramente a studiare un fenomeno sociale ormai così longevo.
Lo stadio si staglia in tutta la sua maestosità, con il tabellone che richiama alle strutture britanniche di inizio secolo. Mentre tutto attorno si apre lo scenario delle montagne con le cime innevate. Lontani dai grandi circuiti calcistici nazionali in un fazzoletto di terra c’è tutta la provincia italiana, con le sue bellezze e la sua genuinità. I suoi accenti – dialettali e spontanei – e un freddo pungente che spinge molti a riscaldarsi con l’ottimo punch.
Nel settore ospiti sono arrivati anche i supporter patavini, 166 per la precisione. Centosessantasei innamorati che hanno seguito il biancoscudo a prescindere dal momento no. Perché essere “super” tifosi con il vento in poppa e la massa delle metropoli è facile, esserlo quando tutti ti danno del matto nel seguire un club che perde e non va oltre la Serie C è un altro conto. Ma in fondo alla maggior parte dei presenti oggi importa poco cosa possa pensare il mondo al di fuori del Rigamonti-Ceppi. Perché il loro universo è proprio in questo perimetro delimitato da quattro tribune. Vai a spiegare casa a chi casa non se l’è mai fatta con le proprie mani. A chi non l’ha difesa sempre e a chi non ha superato le notti di tempesta col sorriso, quando tutti gli giravano le spalle.
Il Lecco va subito avanti e la Nord alza i propri decibel, dandosi ritmo e calore col suono del tamburo e facendo bello sfoggio di mani in alto e bandiere. Il Padova pareggia, ma non scalda il cuore dei tifosi presenti – già in odore di contestazione – impegnati a sostenere l’ideale. Ciò che il biancorosso rappresenta per la loro vita.
Nella ripresa si alzano le sciarpe nella curva lecchese, intervallate dal biancorosso dei gemellati ultras monzesi (con i quali verrà ricordato Davide Pieri, storico supporter brianzolo scomparso nel 1998 in un incidente d’auto) e con esse arriva il raddoppio dei blucelesti. Un 2-1 che sarà poi il risultato finale. E che – in virtù dei risultati degli altri campi – pur non portando i padroni di casa in vetta, strappa ovviamente applausi di giubilo. A far da contraltare all’umore dei veneti.
La partita è “solo” la ciliegina sulla torta di chi si impegna a organizzare il tifo e aggregare. I seguaci dell’Aquila raccolgono tutti i propri striscioni (dietro ognuno dei quali ci sono storie di vita e anni di sacrifici per portare il nome di Lecco ovunque) e se ne rivanno in gruppo. Ancora con i vessilli in mano. “Se ci cerchi siamo al bar”, cantano divertiti.
Mentre il freddo cala sempre più stringente e in centro storico anche i più audaci cominciano a rinchiudersi nei locali o fare pronto ritorno a casa. In loro è rimasto ed evoluto lo spirito dei 22.000. Di quelli che soffiando sul pallone lo spinsero due volte oltre le spalle dell’estremo difensore interista, sessant’anni prima. Di quello spirito sono gli eredi e ne possono portare il vanto, perché la tradizione del Lecco sopravvive anche grazie a loro. Ironia della sorte? Il primo successo lecchese in Serie A è datato 25 settembre 1960. Sapete con chi e con quale risultato? Lecco-Padova 2-1!
Le tenebre hanno preso possesso della città. E ora è impossibile distinguere il confine tra l’acqua del lago, l’orizzonte delle valli e le imponenti catene montuose. Si può contare però sulla luna, che domina il cielo fin quando si raggiunge la stazione.
“Regio Express per Milano in arrivo al binario 7”. La fine di un’esperienza importante per conoscere un’altra piccola grande storia dell’italico football. L’insegna ferroviaria Lecco si allontana e metro dopo metro il convoglio ci riporta verso la metropoli, coprendo quei cinquanta chilometri che in un certo modo riescono ancora a disegnare due modi diversi di vivere il calcio e la vita di tutti i giorni.
Mario Ceppi riposa a poche centinaia di metri dallo stadio. Nel cimitero di Castello. Da cui può osservare eternamente il suo Lecco e da cui, siamo certi, ha sempre cercato di salvaguardare un sodalizio divenuto prestigioso anche e soprattutto grazie a lui.
Avrà sbraitato ed esultato, avrà voluto esonerare qualche allenatore e avrà voluto dar qualche suggerimento a presidenti e società. La sua figura vulcanica non avrà certo taciuto quando le cose non sono andate per il verso giusto. E per lui c’è la costante carezza di quei tifosi che ne curano la tomba. Perché non può morire chi ha permesso che a distanza di centodieci anni i colori del lago e del cielo riecheggino oltre i confini cittadini e regionali. Volgendo anch’esso lo sguardo a mezzogiorno, proprio come quel ramo descritto e decantato da Alessandro Manzoni.