Un ultramoderno, che ha rivoluzionato il calcio italiano.
Abbiamo appena scollinato i ruggenti anni venti del XX secolo e un piroscafo sta entrando nel porto di Casablanca, trasportando sogni e speranze di immigrati che cercano disperatamente di sfuggire a un destino marchiato da povertà e stenti. Il porto marocchino è però in costruzione, ed è troppo piccolo per accogliere una nave di quella stazza; i passeggeri sono costretti a servirsi delle scialuppe per poter toccare terra, oppure approfittare delle imbarcazioni di qualche marinaio locale. Una donna piuttosto corpulenta palesa qualche difficoltà di equilibrio, e per una serie sfortunata di circostanze finisce in acqua: è il dramma.
Né la donna, né il marito sanno nuotare, e ne esce una scena incredibile: i maghrebini non sono sordi alle invocazioni disperate della coppia, ma non muoveranno un dito se non dopo aver pattuito il giusto compenso.Uno dei figli della coppia osserva atterrito le fasi della trattativa, con la madre tratta in salvo all’ultimo momento, e ne trae una lezione sull’importanza del denaro e dell’arte di convincere le persone che lo accompagnerà per tutta la vita: quell’uomo è Helenio Herrera, il futuro Mago della Grande Inter.
Basterebbe solo questo episodio, incipit di una biografia mirabolante, a far dipanare una trama che terrebbe avvinti spettatori di ogni età e ceto sociale: difficile capire come i vari Netflix e Amazon non abbiano ancora ideato una serie tv o una biopic su un personaggio tanto affascinante e ricco di sfaccettature. Persona pazzesca, il Mago. Un uomo la cui vita è un romanzo, da intitolare pirandellianamente Uno, nessuno e Centomila. Impossibile definirlo in maniera univoca: suscitava reazioni forti, rendendo impossibile l’indifferenza. O lo amavi, o lo odiavi, amando odiarlo e odiando amarlo.
Brera, che ebbe esattamente questo tipo di rapporto con lui, ebbe a definirlo «buffone e genio, cialtrone e asceta, manigoldo e buon padre, sultano e fedele (…) Helenio Herrera è tutto questo e altro ancora». Per gli ammiratori, un genio del calcio, uno stratega rivoluzionario, un vincente assoluto, in ogni ambito della vita: per i detrattori, figura pericolosamente in bilico verso la cialtronaggine, nulla più che un discreto gestore di uomini, purché fossero pronti ad accettarne la incontestabile leadership, soffrendo egli moltissimo i campioni che potessero far ombra al suo ego ipertrofico.
Un uomo che però ben merita di appartenere all’iperuranio degli eroi che hanno scritto l’epopea del calcio nel ventesimo secolo.
Perfino le sue origini affondano nel mistero: secondo la sua ultima moglie, Fora Gandolfi, sembra sia nato a Buenos Aires, anzi in un’isola bianca del Rio de la Plata, o del Tigre, non si sa di preciso in che anno. L’anagrafe argentina opta per il 1910, lui, cedendo alla vanità, giurava e spergiurava di esser venuto al mondo nel 1916. La sua vita è un compendio di avventure che sconfinano nell’incredibile: l’infanzia poverissima in Marocco, vissuta in palafitte dove i topi gli facevano compagnia la notte, e quindi l’approdo in Francia, dove sbarcò il lunario disimpegnandosi come calciatore, con risultati invero modesti, e arrotondando come venditore porta a porta degli oggetti più disparati.
Sarà qui che svilupperà la sua leggendaria parlantina, rifilando ai clienti un lucido magico in grado di far brillare qualsiasi cosa, o ammaliando le donne con prodotti miracolosi capaci di coprire qualunque odore. Parlantina che gli tornò probabilmente utile quando si trattò di utilizzare tecniche quasi ipnotiche per convincere i suoi giocatori di essere migliori di quanto essi stessi credessero. Leggendario l’episodio del povero Bicicli che, catechizzato a dovere dal Mago al punto da convincersi di essere “più forte di Garrincha”, suscitava nei compagni reazioni che andavano dalla composta perplessità all’ilarità più sfrenata.
Inizia proprio oltralpe la sua carriera di ballista galattico e sottaniere incallito: collezionerà infatti 3 mogli, 7 figli, e un numero imprecisato di amanti. Per darsi dignità agli occhi degli esperti, inventa esperienze al River, gonfia i suoi meriti di calciatore prima e osservatore poi, approfittando del fatto che, all’epoca, il reperimento di informazioni era impresa improba. Non è un delitto nascere poveri, lo è non far nulla per migliorare la propria condizione: farà suo questo mantra, dimostrandosi ossessionato dal denaro. Non fa sconti a nessuno, soprattutto a sé stesso: ma ha smisurata ambizione e intuizioni geniali.
È ancora in Nord Africa quando nota un ragazzino di talento, promettendogli che un giorno lo ingaggerà per farne il più grande giocatore di ogni epoca: quel calciatore era Larbi Ben Barek, primo nordafricano a ottenere fama in un campionato professionistico europeo. Helenio, infatti, manterrà la sua promessa, dando scandalo quando spese una vagonata di franchi per farne il centro di gravità permanente del suo Stade Francais: eppure saranno sufficienti poche esibizioni per far ricredere i critici, tanto che perfino Sua Maestà Pelé ne omaggerà il talento, facendo per una volta professione di umiltà affermando
«Se io sono il re del calcio, Ben Barek ne è il Dio».
La svolta in Spagna, dove riesce a vincere nonostante sia all’opposizione. Centra due titoli sulla panca dei parenti poveri di Madrid, portandosi dietro il pupillo Ben Barek e diventando icona fra i colchoneros, ma litiga col presidente e ricomincia il suo zingaresco girovagare nella penisola iberica. Dopo passaggi dimenticabili a Siviglia e La Coruna, va a Barcellona, all’epoca non esattamente amatissimo dai vertici franchisti. Riesce però conquistare altri due campionati, ma soprattutto si guadagna fama e nobiltà europea sollevando la Coppa delle Fiere, antenata della Europa League. E galeotto è proprio un turno eliminatorio nel quale i blaugrana affrontano l’Inter, surclassandola dal punto di vista del gioco e del ritmo, massacrando i nerazzurri con un terrificante 4-0 in Catalogna e sbancando San Siro con un perentorio 4-2.
Angelo Moratti era presidente dell’Inter ormai da un lustro, e nel calcio non era ancora riuscito a replicare i successi ottenuti dalla vita. Il petroliere rompe gli indugi e, con l’animo del giocatore di poker, decide di rilanciare puntando tutte le sue fiches su quest’uomo dal viso scolpito e gli occhi penetranti, dai capelli probabilmente un po’ troppo neri per essere veri, dalla parlantina sciolta e convincente. Moratti capisce che quest’uomo, come lui, si è fatto da solo, ha la determinazione di chi nella vita ha conosciuto la povertà e ha sempre combattuto il pregiudizio che incombe su chi viene trattato come un parvenu ai tavoli delle gente bene. Ma soprattutto HelenioHerrera era un uomo che aveva fatto del mondo la propria patria, scegliendo di essere straniero ovunque: non ci poteva essere allenatore più adatto per un club i cui membri erano e sono “fratelli del mondo”. Nessuno poteva intuirlo, ma stava per cambiare tutto.
Herrera anticipa di parecchi anni le metodologie moderne: anche se per l’ennesima volta deve combattere i pregiudizi generali. Moratti senior combina un incontro fra il suo nuovo trainer e il principe dei giornalisti sportivi , Gianni Brera, cosa che ai nostri tempi, in cui le firme delle più prestigiose riviste di calcio sono costrette alla deriva gossippara inseguendo like e interazioni, appare di una enormità inconcepibile. E dopo la chiacchierata di cortesia il buon GioannBrerafuCarlo è tranchant nella bocciatura, giudicandolo «indietro di dieci anni rispetto ai nostri tecnici». Il Vate di San Zenone Po dovette ricredersi.
Già dai primi allenamenti in ritiro la curiosità per i metodi herreriani lasciò il posto allo shock: Helenio Herrera impone allenamenti duri, durissimi ai suoi atleti, imponendo fin dal primo giorno esercizi con il pallone, vera e propria rivoluzione copernicana in un ambiente rimasto ancorato a metodologie ormai obsolete a riguardo di preparazione fisica. Si concentra in modo particolare sulla psicologia: sono entrati nella leggenda i cartelli appesi alla Pinetina – «classe + preparazione atletica + intelligenza = scudetto», «chi gioca individualmente gioca per l’avversario, chi gioca per la squadra gioca per il risultato», o quello celeberrimo che aveva appeso alla testiera del letto, «Le cose difficili esigono tempo, quelle impossibili più tempo». Ma don Helenio non si limita a quello: entra in ogni aspetto della vita della società. Frequenti le sue invasioni di campo contro i medici sociali, con il ripristino della pratica del siluramento preventivo cara a Cadorna per chi non condividesse i suoi metodi e le sue convinzioni.
Capiva che spacconeria e arroganza erano materiale utile per incendiare la folla e farsi apprezzare dai media, ma nelle stanze dei bottoni serviva un aplomb e uno charme che per le sue umili origini non poteva far parte del suo bagaglio: ebbe l’intelligenza di lasciare qui spazio all’altro artefice della Grande Inter, Italo Allodi, il Richelieu del calcio dell’epoca, maestro di diplomazia. Moratti gli aveva fatto sapere che fioccavano copiose le segnalazioni dei tifosi sulla dolce vita dei giocatori dell’Inter: a significare che i tempi di Meazza e Skoglund, fuoriclasse in campo e campionissimi anche nell’arte di Bacco&Venere, erano davvero finiti, inventò i ritiri, con le signore gradite ospiti della società fino al venerdì, e poi congedate con garbo all’appropinquarsi del match.
Leggendaria la sua cura per l’alimentazione, e le sue multe a chi sgarrava. Fumo e superalcolici vennero banditi per sempre.
Anche il mondo del calcio però, che pur ha regole sue, vive di luoghi comuni: uno di questi, alimentato da lui stesso, vede Herrera come inventore e alfiere del catenaccio. Leggenda metropolitana, per non dire balla, colossale: il catenaccio diventa famoso grazie a Rappan negli anni 30, e verrà utilizzato da Viani, Barbieri e Rocco, per citarne solo alcuni, prima del Mago. La prima Inter herreriana è quanto di più lontano dal difensivismo possa esistere: HH si presenta il 25 settembre 1960 al Brumana di Bergamo, e seppellisce l’Atalanta sotto una cinquina di reti. Il mister andaluso presenta un’Inter tutta ritmo, velocità e gioco che annichilisce anche l’Udinese e il Vicenza sotto una gragnuola di gol. Sarà una inopinata sconfitta a Padova, contro il miglior nemico Rocco, a fargli cambiare idea e a curare maggiormente la fase difensiva.
Eppure solo uno stolto potrebbe ridurre l’epopea della Grande Inter a una serie di vittorie ottenute grazie a difesa e contropiede. A Helenio Herrera dobbiamo infatti l’introduzione della figura del terzino fluidificante, facendo la fortuna di quel magnifico atleta e campione che fu Giacinto Facchetti. Ma soprattutto ci sono alcune teorie, contenute nel leggendario quadernetto scritto in un curioso misto di francese, spagnolo, italiano, inglese e arabo e con tre inchiostri di diverso colore, nero, rosso e blu, che anticipano di un decennio abbondante le teorie sugli spazi vuoti del calcio totale: Herrera riteneva fondamentale
«creare spazi vuoti. Nel calcio, come nella vita, nella pittura, nella musica, i vuoti e i silenzi sono importanti quanto i pieni».
È innegabile il fatto che le sue squadre facessero affidamento su difensori rocciosi, abilissimi in marcatura, ma è anche vero che l’arsenale tecnico della Grande Inter era costituito da creatori di gioco geniali e fantasiosi, come Suarez e Corso, e da attaccanti rapidi, cinici e letali, come Mazzola, Jair, Domenghini.
H.H. fu poi fra i primi a capire l’importanza del tifo: si spese in prima persona per la creazione di club di tifosi in ogni parte d’Italia, venendo ripagato, nella mitica notte del Prater che consegnò all’Inter la prima Coppa dei Campioni della sua storia, da un esodo di proporzioni bibliche. Faceva della polemica la sua ragione di vita, anche se aveva piena consapevolezza della sue abilità, sconfinando in un amore per sé stesso che era quasi culto della propria personalità : “Sono solo colpevole di essere il più bravo!” rispondeva invariabilmente a chi gli faceva notare apprezzamenti non entusiasti alle sue doti sciamaniche, mostrandosi in questo precursore di quel Brian Clough che avrebbe affermato che se non era sicuro di essere il migliore allenatore di tutti, era ragionevolmente certo di essere nella Top One.
Anticipò perfino Mourinho, quando ai tempi del Barcellona, in una trasferta particolarmente insidiosa e un ambiente caldo, uscì con un impermeabile candido come unico scudo per un diluvio di fischi e improperi che sfinì i supporter avversari prima ancora che le squadre entrassero in campo! Non vi ricorda una certa semifinale di Champions?
Fra le accuse mossegli contro, quella di non saper leggere le partite, di essere solo un bravo preparatore, tesi a sostegno della quale si riportano le parole di Corso, che sosteneva il Mago si limitasse durante il match a lanciare incitamenti generici ai suoi giocatori: e troppo nota è la storiella di Mazzola, che, in una partita grigia contro il Toro, si vede richiamare dal Mago «da questo momento lei deve giocare tatticamente e non più tecnicamente».
«Rimasi di stucco – racconterà Sandro nella sua biografia – e continuai a giocare allo stesso modo. La partita? Vinta. Con un mio gol. ‘Todo bien Sandro, visto che avevo ragione?‘, mi dirà il Mago negli spogliatoi».
E già in quegli anni fiorivano leggende su Picchi e Suarez veri allenatori in campo. Innanzitutto bisognerebbe dire che chi spostò Picchi dal ruolo di terzino a quello di libero, dove visione di gioco, piedi buoni e carisma fecero di Penna Bianca uno dei più superbi interpreti del ruolo di ogni epoca, fu proprio Helenio Herrera. Inoltre a quei tempi era consuetudine lasciare libertà ai giocatori di apportare le opportune modifiche tattiche nel caso la partita lo richiedesse: celebre è l’episodio della finale di Wembley del 1963, con i senatori milanisti a modificare le marcature orchestrate dal Paron Rocco, il quale era pronto a fare scudo ai suoi uomini in caso di insuccesso «se dovè cambiar, cambiè: dopo, per la stampa, go fato mi!».
Allo stesso modo si favoleggiò a lungo sulla munificenza di Moratti, come se il buon Angelo si fosse comportato da sceicco in sede di mercato: vero che con i proventi della cessione di Suarez il Barcellona completò il Camp Nou, ma è anche vero che fu il Mago a prestare attenzione agli elementi della giovanile nerazzurra. Bedin, Facchetti e Mazzola li lanciò e protesse lui.
Furono anni meravigliosi, nei quali l’Inter dominava la scena euromondiale, e gli studenti dell’epoca imparavano storia e geografia grazie alla trasferte dello squadrone nerazzurro: la Liverpool dove i Beatles stavano per rivoluzionare musica e costumi dei favolosi anni ’60, la Mosca della minacciosa Torpedo, ostile fin dal nome come quella cortina di ferro che tanta paura metteva in tutti, la Budapest che ricordava gli splendori della Belle Epoque in cui Mazzola segnò uno dei gol più belli di sempre, la Vienna romantica del primo trionfo europeo, l’ambiente infernale delle Erinni di Avellaneda, un altro mondo che fece ripescare Dante, dal quale emerse sempre più fulgida la stella dell’Inter, creatrice di un impero sul quale il Sole sembrava davvero non tramontasse mai.
E invece Herrera riuscì a essere grande anche nella sconfitta, quando la sua epopea giunse alla fine in un crollo repentino al quale non c’erano rimedi: d’altronde la candela che brucia da entrambe le parti si consuma prima. Provò un timido rilancio la stagione successiva, e con le dimissioni del pigmalione Moratti capì che il tempo era scaduto anche per lui. Fece poi tappa a Roma, dove contribuì all’arricchimento della bacheca giallorossa con una Coppa Italia e un Torneo Anglo Italiano, ma iniziò a veder offuscata la sua stella, con sconfitte rocambolesche che lui stesso non riusciva a spiegarsi – anche se pochi anni dopo scoppiò il Totonero, che aveva proprio Roma come epicentro.
Chiuse la carriera con un breve e infruttuoso ritorno all’Inter, una ancor più breve esperienza al Rimini e infine il commiato al Barcellona, un Barça minore che condusse però alla vittoria in Copa del Rey.
Seguì un malinconico declino, con HH a fare da opinionista fino a sconfinare nel triste macchiettismo di alcune ospitate imbarazzanti. E quindi l’oblio, in una storica magione di Venezia, dove Helenio passò poi ad altra dimensione, ché di morte lui non parlò mai: riuscì ad accomiatarsi dalla vita con una cerimonia non religiosa, impresa improba in Italia, e dopo un periodo in cui le sue spoglie riposarono sotto una lapide senza nome si dice che per intercessione della famiglia reale inglese – che controllava la parte non cattolica del cimitero di Venezia – finalmente il grande Mago ebbe degna sepoltura, non svelando però mai il segreto della sua data di nascita.
Oggi, il fatto che il nome e il contributo di Helenio Herrera non siano associati fino in fondo al grande calcio, resta un affronto storico: come ha scritto giustamente Furio Zara, ogni allenatore dovrebbe dormire con la sua foto sul comodino, fosse anche solo per il modo in cui rivoluzionò gli emolumenti degli allenatori e diede dignità alla categoria di quelli che, secondo Peucelle, non erano in grado di far vincere una partita (quest’ultimo, quando allenò il River della Maquina di Pedernera, rifiutò sempre di indossare la divisa con l’acronimo DT, direttore tecnico, spiegando che secondo lui significava “decì, tonto!”, cioè “dimmi, scemo”). Che poi, se vogliamo dirla tutta, erano in tanti a pensarla come Peucelle. Ante H.H., naturalmente.
BIBLIOGRAFIA
John Foot, “Calcio 1898-2010, Storia dello sport che ha fatto l’Italia”
Gigi Garanzini, “Il minuto di silenzio”
Danilo Sarugia, “Grande Inter, figlia di Dio”
Mario Spolverini, “Inter, interismo, interisti”
AA.VV., “La grande storia nerazzurra”
Gianni Brera, “Herrera e Moratti”
Gianni Brera, “Storia critica del calcio italiano”
Pietro Cabras, “Facchetti, calciatore e gentiluomo”