Leggendo le pagine di "Locos Por El Fùtbol" si ha come un senso di alienazione. Le pareti della stanza intorno a voi si trasformano in posti diversi: una volta diventano i potrero, un'altra strade o stadi colmi di gente. Tutti luoghi che sconfinano quasi nel misticismo.
L’obiettivo principale di un libro è quello di riuscire a portare il lettore all’interno delle sue pagine e delle sue storie, quasi a farlo assistere a ciò che viene raccontato. Tuttavia pochi libri sono in grado di farlo. Uno di questi è sicuramente Locos Por El Fútbol, magistralmente scritto da Carlo Pizzigoni. Direttore responsabile di MondoFutbol.com, collaboratore con Sky, autore – insieme a Federico Buffa – di Storie Mondiali, è uno dei massimi esperti italiani di calcio sudamericano. Leggendo le pagine di Locos Por El Fùtbol si ha come un senso di alienazione. Le pareti della stanza intorno a voi si trasformano in posti diversi: una volta diventano i potrero, (i cortili in cui generazioni di fenomeni hanno mosso i primi passi), un’altra diventano strade o stadi colmi di gente. Tutti luoghi che sconfinano quasi nel misticismo. E per di più sembra come se ci si trovasse davanti ai protagonisti: Pedernera, Maradona, Bielsa, Messi, Pelé, Garrincha, Ronaldo, Obdulio Varela, Luis Suárez, Andrés Escobar, Alberto Spencer. Questi solo per citarne alcuni. Personaggi che hanno fatto la storia del calcio e non solo. Perché in Locos Por El Fútbol non si parla solo di calcio: si parla anche di storia, di società, di politica, di cultura. Carlo Pizzigoni in questo senso ha creato un’opera massima, destinata a diventare un imprescindibile punto di riferimento per chi vuole entrare con anima e cuore nel mondo del Fútbol. Un libro tutto da leggere, anche secondo il sito specializzato Yonibet
Nel capitolo dedicato all’Uruguay, in particolare nella vicenda legata al passaggio di Héctor Scarone al Nacional nonostante un padre tifosissimo del Peñarol, si legge un passo tratto dal film “El secreto de sus ojos” che recita così: «Una pasiòn es una pasiòn. El tipo puede cambiar de todo. De cara, de casa, de familia, de novia, de religiòn, de dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar. No puede cambiar de pasiòn». Come è nata, in Carlo Pizzigoni, la pasiòn per il fútbol e per il Sudamerica in generale?
Allora, sono tutte nate per caso. O meglio, come tutte le passioni sembra che nascano per caso però c’è sempre qualcosa che hai dentro che ad un certo punto viene fuori, quindi per me è stato così. Quella per il calcio me l’ha trasmessa mio padre che è mancato dieci anni fa e per me ogni volta che parlo di calcio è come se parlassi anche a nome suo, e questa è una cosa che mi aiuta anche a sopportare questo distacco, sennò sarebbe troppo forte, anche per il rapporto che avevamo, che era bellissimo. Me l’ha trasmessa portandomi allo stadio fin da piccolino, cercando di insegnarmi i primi rudimenti del gioco del calcio. La passione per il Sudamerica è nata anch’essa quasi per caso, come ho raccontato alla presentazione del libro a Milano. Negli anni dell’Università ho iniziato a leggere dei libri, poi ho incontrato un professore universitario, Aldo Albònico, che mi ha veramente incuriosito e tra le letture che ho fatto c’era quella di Mario Vargas Llosa. Un giorno ho incontrato un signore misterioso in una libreria milanese che mi ha fatto una lista di libri sul Sudamerica da leggere ma non sono più riuscito a contattarlo. Inoltre ho avuto la possibilità di viaggiare in questi posti: ecco, l’amore per il Sudamerica è nato in questo modo. Ovviamente il mio lavoro è quello di parlare di calcio e mi piace unire a questo sport anche storie di vita, di società. È quello che ho cercato di fare anche in questo libro.
In Italia non esisteva un’opera che racchiudesse tutto il calcio sudamericano come fa “Locos Por El Fútbol”. Il suo libro vuole essere un punto d’arrivo o un punto di partenza per chi vuole entrare nel mondo sudamericano?
L’idea era quella di costruire una specie di trampolino per tuffarsi nel mondo sudamericano e non incrociare quindi solamente il calcio, ma anche aspetti che riguardano la società, la cultura, la politica, la storia. Quindi ho cercato di fare un testo di questo genere. Lo definisco un trampolino perché mi piacerebbe che in qualche modo tutti i lettori, sia quelli che già conoscono il Sudamerica sia quelli che lo conoscono meno, possano salire su questo trampolino e gettarsi in una serie di ricerche che riguardano questa terra. Ecco, quella sarebbe la cosa più bella. Perché poi io penso che andare a cercare qualcosa che riguardi il Sudamerica significa cercare da dentro, con l’anima, con la passione, vuol dire anche un po’ andare alla ricerca di sé stessi. Quindi se in qualche modo, in misura anche infinitesimale, questo libro serva da accesso a questo trampolino per me sarebbe la soddisfazione più grande.
Ma vuole essere un trampolino solo per l’appassionato di calcio o anche per chi il calcio non lo mastica tanto?
Nel testo ho parlato molto anche di non-calcio. Poi ovviamente il calcio non è un aspetto secondario all’interno del libro. Viaggiando, interessandomi di tante cose, le ho affiancate al calcio proprio perché penso che sia un elemento principale in Sudamerica. Se il libro può essere un trampolino anche per altri lidi ancora meglio, ma questo vuole essere solo l’inizio. Poi magari nasceranno altri libri più approfonditi, su particolari situazioni e via dicendo. Mi piaceva farlo in italiano perché sostanzialmente tutte le mie fonti sono in lingua originale e tanti non hanno un accesso privilegiato come quello che posso avere io, quindi mi ha fatto piacere iniziare con questa base dalla quale poi ognuno può prendere la strada che preferisce.
A proposito di fonti, nel libro si fa riferimento a molti aneddoti del calcio sudamericano, che arrivano in Europa e vengono dati per veri in maniera quasi scontata. Un esempio è la famosa partitella di Garrincha contro Nílton Santos che, in realtà, non è mai avvenuta. Ricercare queste fonti è stato difficile? Come è riuscito a trovare fonti attendibili riguardo questi aneddoti?
Bisogna sempre incrociare le fonti, cercare di ritenerle più o meno credibili a seconda di come vengono raccontate. Nell’episodio specifico è stato fatto un lavoro fenomenale dal biografo di Garrincha, Ruy Castro, che ha fatto un bellissimo libro sul campione brasiliano. Però in generale la mia ricerca ha anche un’idea alla base, che è quella di trasformare la concezione comune del Sudamerica come una sorta di circo perenne dove capitano solo cose strambe. È vero che ci sono delle cose particolari, però il Sudamerica non è solo quello. Una delle cose più comuni è che diversi racconti sono in qualche modo un po’ gonfiati, anzi, come nel caso di Garrincha, sono proprio falsi. Tutto ciò ovviamente non toglie nulla alla grandezza di Garrincha che è stato uno dei più grandi calciatori della storia. Questo anche per dire che il cuore del Sudamerica non sta in questi aneddoti, ma sta – appunto – nella storia e proprio per questo motivo ho cercato di avere, in ogni Stato che ho raccontato, una specie di filo rosso che in qualche modo cercasse un’identità di calcio in ogni Paese senza per forza legarmi ad un aneddoto e basta. A me è stato più volte proposto di scrivere di personaggi strani del Sudamerica, mi viene in mente “El Trinche” Carlovich. Abbiamo fatto un lavoro con Buffa su questo calciatore di Rosario, siamo stati lì, lo abbiamo incontrato personalmente, ci abbiamo parlato. Però l’idea di fare un libro e parlare esclusivamente di “El Trinche” Carlovich è una cosa che non mi piace. Non è che sono contro chi lo fa, però onestamente c’è anche molto altro, molta profondità, fermarsi solo ad alcuni episodi mi sembra un po’ come voler screditare i personaggi, quindi io ho un po’ un pregiudizio su chi fa solamente questa cosa e conosce il Sudamerica solo per aneddoti. Per questo ho cercato di parlare di storia e di calcio, entrambi sotto la lente d’ingrandimento, vedendo se ci fossero storie più o meno credibili.
In una famosa canzone dei Calle 13, intitolata Latinoamérica, c’è un ritornello nel quale vengono elencate alcune cose che non possono essere comprate: il vento, l’allegria, il dolore, il sole. Emerge un fortissimo senso d’appartenenza al territorio che si rispecchia anche nel fútbol. Un esempio è “La Nuestra”, un modo di giocare tipicamente argentino, spesso rivendicato con orgoglio. Lei che ha viaggiato più volte in Sudamerica, come spiega questa forte identità territoriale e calcistica?
Prima di parlare con te stavo proprio ascoltando i Calle 13. Sono un gruppo centro-americano. C’è da dire che in questo libro manca una fetta di storia del latinoamérica che è il calcio messicano. Il Messico ha una cultura che va oltre il calcio e che è un punto di riferimento per tanti Paesi del Sudamerica, però francamente non ci stava. I Paesi centro-americani hanno una grande passione per il calcio, ma non sono grandi Paesi di calcio. Però quando parliamo di latinoamérica, in riferimento a ciò che viene detto nella canzone dei Calle 13, che alcune cose non si possono comprare, tutti questi elementi hanno un qualcosa di spirituale che io effettivamente molte volte ritrovo in Sudamerica. Quando si parla di mistica legata al gioco si fa riferimento a qualcosa che io non saprei spiegare a parole, bisognerebbe trovare qualcuno proprio bravo, però si sente. E si sente in molti ambienti. Io sono andato al Racing, ho parlato recentemente anche con un collega del Racing per vedere delle partite e anche lui dice che c’è qualcosa di differente. Si respira un’aria, una passione, che tutto insieme porta a notare che c’è qualcosa di diverso. Tutto ciò ovviamente lo dico anche con gli occhi aperti, perché so che ci sono anche tante sfortune in Sudamerica, tante violenze che sono state perpetrate anche in nome del calcio. Quindi dobbiamo tirare fuori qualcosa di positivo da questi elementi che poi sono legati a terra, aria e a tutte quelle cose che dentro contengono spirito. Io vedo come il calcio dell’Argentina, quello che loro chiamavano “La Nuestra” è un calcio che ha un’anima, in contrapposizione a tutte le sfortune, soprattutto quelle del mondo attuale, che poi non sono solo violenze fisiche, ma sono anche il marketing, l’idea di giocare sempre le partite trasmesse per forza in televisione, o la crisi economica che vede i migliori giocatori sudamericani costretti ad emigrare in Europa. Nonostante tutto questo, il Sudamerica rimane con un’anima differente e questo è una cosa che io percepisco e che mi piace raccontare, soprattutto a chi non ha ancora avuto la fortuna di andare in questi luoghi. Mi piaceva sottolineare il discorso relativo a La Nuestra, anche perché questo tipo di calcio è sostanzialmente autoctono, è stato creato dagli argentini ed è cresciuto come una sorta di ribellione contro chi il calcio lo aveva inventato in Europa, come dire «ci avete dato il pallone, le regole, ma adesso facciamo come vogliamo noi, rendiamo questo gioco qualcosa di nostro, di diverso». Per questo motivo loro devono essere considerati i veri inventori del calcio, del calcio come passione, come qualcosa che attraversa tutti gli strati sociali. La passione per questo gioco, che è presente in tutti i ragazzini del mondo, nasce quando il calcio arriva in Sudamerica, non prima.
Infatti nel libro lei scrive che «in Argentina dicono che gli inglesi hanno inventato il calcio e gli argentini l’amore per il calcio». Ma oltre all’amore per il calcio, si può dire che gli argentini abbiano inventato anche schemi, moduli, ruoli, tattiche.. Mi viene in mente Rinus Michels, considerato il padre del “calcio totale”, che ha invece celebrato come autentico esempio di questo calcio l’Estudiantes di Zubeldía.
Questa è una cosa che mi ha molto colpito perché gli olandesi non è che siano proprio personaggi che riescono a riconoscere meriti altrui. Ho fatto un lavoro su Johan Cruyff, avendo l’onore, insieme a Federico (Buffa ndr), di fare la prefazione della sua biografia ufficiale, ed è una cosa di cui sono molto orgoglioso. Gli olandesi non sono molto propensi a riconoscere meriti altrui e Michels facendolo, soprattutto su un personaggio controverso come Zubeldía, ha dimostrato grande umiltà. Ma poi sono presenti anche altri aspetti legati al calcio nati in Sudamerica e poi arrivati da noi. Ad esempio, quando si parla di Falso Nueve, si fa riferimento ad un ruolo che è stato sperimentato, ancor prima che in Europa, proprio in Argentina. Alcuni giornalisti che avevano studiato il modo di giocare di Adolfo Pedernera, uno dei grandi della “Máquina” del River degli anni ’40, mi hanno raccontato che, in maniera assolutamente naturale, Pedernera andava a prendere la palla al limite della propria area di rigore, lui che era un attaccante, e questo era qualcosa che non si era mai visto su un campo da calcio, perché gli attaccanti rimanevano solo davanti e venivano raggiunti con palle lunghe. Avere l’idea di cominciare l’azione palla al piede da dietro e, soprattutto, avere dei giocatori non in ruoli fissi, ma in continuo movimento, è stata una cosa veramente rivoluzionaria.
Nel titolo del libro c’è la parola Locos, molto in voga nel mondo sudamericano. Fra i tanti Locos il più famoso è sicuramente Don Marcelo Bielsa. Oltre all’aspetto tecnico, che cos’ha Bielsa in più rispetto ad altri allenatori? Ricordiamo che è considerato uno dei più grandi in assoluto da gente che ha fatto la storia del calcio recente, uno su tutti Pep Guardiola.
Io rimango sempre sorpreso da una cosa a proposito del Loco: cioè la considerazione che hanno di Bielsa quei giocatori che sono stati allenati da lui in Nazionale, quindi per poco tempo. L’idea che uno come Milito possa dire che l’allenatore che gli ha dato di più è stato Bielsa, che ha avuto per poco tempo, è una cosa differente, diversa, magica. Stiamo parlando comunque di un allenatore che ha vinto relativamente poco, e che però è idolatrato praticamente in ogni posto in cui è stato. Intorno a Bielsa c’è veramente mitologia, ed evidentemente non è un caso, perché è tutto fuorché un personaggio costruito ed è per questo motivo che arriva al cuore della gente. Perché è genuino, perché ha un aspetto, una moralità, un’onestà intellettuale che è difficile trovare nel mondo del calcio. Bielsa è veramente qualcosa di trascendente, è per questo che viene amato un po’ da tutti. Naturalmente se poi anche chi ha un livello di intelligenza calcistica superiore, come può essere un genio come Guardiola, riconosce le qualità di Bielsa, allora significa che l’argentino ha davvero qualcosa di speciale.
Lei ha appena detto che Bielsa è amato da tutti. Si potrebbe dire che Bielsa è per gli allenatori ciò che è Tévez per i calciatori? In patria Tévez è chiamato “El Judador del Pueblo”, il giocatore del popolo, Marcelo Bielsa può essere considerato “L’allenatore del popolo”?
Ma in realtà in merito a Bielsa non è nemmeno questione di allenatore, è qualcosa che va oltre l’essere allenatore. Proviene da una classe sociale alta, ha buone maniere, tutte cose che lo fanno amare da tutti. Il discorso di Tévez è diverso, perché Carlitos non è che è amato da tutti, sicuramente è idolatrato da molti argentini e ovviamente dai tifosi del Boca, questo è innegabile. Però ci sono anche gli anti-Tévez così come ci sono stati e ci sono gli anti-Maradona, è una cosa naturale. Con Bielsa e Tévez parliamo di due discorsi differenti. Tévez rappresenta anche il ragazzo che ce l’ha fatta partendo da una situazione delicata, ma ci sono sempre i pro e i contro. Ci sono elementi anche contrari a Carlitos insomma. Io sono a favore eh!
Quindi nell’ultimo “Superclásico” River-Boca ha festeggiato…
No, io non sono né tifoso del Boca né del River. Diciamo che come storia di calcio mi piace di più quella del River, mi piace più Gallardo di Barros Schelotto, ma non ho preferenze fra le due squadre. In realtà sono un forte simpatizzante dell’Academia, del Racing, e dietro a questa simpatia c’è una storia che voglio tenere per me. Col tempo mi sono reso conto che il Racing è proprio una squadra che ti entra nel cuore, perché la sua storia è una storia di sofferenza ed è giusto parteggiare per un club del genere.
Precedentemente si è parlato di pregiudizi e, quando si parla di Sudamerica, questi sono all’ordine del giorno. Mi viene da pensare alla Colombia e ai suoi abitanti, i quali vengono, purtroppo, illustrati tutti come delinquenti e narcotrafficanti. Nel capitolo dedicato a questo Paese c’è la minibiografia di Andrés Escobar, calciatore che è stato ucciso non per l’autogol a USA ’94, come si è fatto credere, ma per ben altre ragioni, che poi vanno a sconfinare in quella che era la situazione socio-politica del tempo.
Assolutamente. Nessuno vuole dire che in Colombia non è successo niente, si sa già tutto sul narcotraffico, però bisogna un po’ capire le situazioni. Quella di Andrés è proprio una storia che smaschera un po’ tutto: perché dimostra come era proprio la società violenta, società che non aveva più un padrone. Da una parte lo Stato non era ancora forte, dall’altro lato, Pablo Escobar era stato ucciso proprio in quel periodo, quindi in una Colombia che era diventata un Far West, anche Andrés, che è stato uno dei più grandi calciatori colombiani, ha perso la vita. Ma lui come tanti altri colombiani in quel periodo, in cui veramente per una parola sbagliata si moriva. Un periodo che, fortunatamente, ormai è alle spalle della Colombia, che è una terra veramente bellissima.
A cosa è dovuto il fatto che molti giovani calciatori sudamericani, quando arrivano in Europa, non riescono a mantenere il loro status di promessa? L’ultimo esempio è quello di Gabriel Barbosa, Gabigol, acquistato dall’Inter ma impiegato pochissimo, quasi niente.
Sono situazioni particolari. Gabriel Barbosa è un ragazzo del ’96 che ha tutto il tempo per dimostrare quello che vale. Come avviene anche per tanti ragazzi italiani, ci sono atleti che faticano. Ci sono mille aspetti, il solo venire dal Sudamerica non vuol dire niente, bisogna vedere anche la famiglia, l’ambiente, le singole situazioni. Certo è che parliamo del passaggio da un mondo all’altro, questo vuol dire abituarsi a certe cose, riconoscere modi di vita differenti, magari anche dal punto di vista dell’allenamento e via dicendo. Mi viene in mente questo: Allan, ragazzo ex Vasco da Gama, che adesso gioca nel Napoli, arrivò all’Udinese da Rio. È cresciuto in una parte povera di Rio de Janeiro e lui praticamente non era andato da nessuna parte se non per fare i tornei con il suo club. Ecco, lui è arrivato a Udine e si è trovato a meraviglia, lui e la compagna vivevano alla grande la città, adattandosi in breve tempo. Quindi, nonostante non avesse avuto in passato esperienze di questo tipo, magicamente si è trovato bene. Altre volte questi casi non avvengono, d’altronde si dice anche di tanti giovani italiani che diventeranno fenomeni e poi, invece, diventano o buoni giocatori o magari a fatica dei giocatori discreti. Ovviamente, a maggior ragione, questo è ampliato se si passa da una zona del mondo ad un’altra, però non ne farei un solo discorso di Sudamerica.
Un talento sudamericano da tenere d’occhio?
Sono tantissimi. Non lo so. Mi viene in mente Nicolás Benedetti del Deportivo Cali perché è meno noto di altri, però ce ne sono veramente tantissimi. Sono in ogni Paese e continuano a venir fuori.