Cultura
26 Settembre 2024

Luigi Meneghello, lo sport come agone

L'esistenza dell'intellettuale vicentino è stata scandita dalla dimensione sportiva.

Un flash: “Mezzogiorno col sole, quando l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo. Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte. Rabbrividivo al sole”.

Chi scrive è Luigi Meneghello, nel suo capolavoro Libera nos a Malo, pagina 81, estratto un po’ per capriccio da uno scaffale dove facilmente s’impolvera una schiera di libri col suo nome stampato lungo il dorso.

Quando scoprii queste righe? Ricordo che ero in campagna, nel mezzo del luglio della quarta ginnasio, nella casa di mia nonna, all’ombra del portico che dà sulla facciata d’ingresso; in mano l’edizione BUR con un improbabile labirinto di siepi in copertina, e la sensazione di rabbrividire allo stesso modo, nella stessa campagna berica, come solo accade quando si trova la propria vita che pulsa fra i testi scritti da altri. E subito dopo l’ebrezza di avvertire come veri e intimi dei luoghi letterari – o topoi, avremmo detto allora, con quei rudimenti di greco appena appresi che vagavano per la testa e sembravano riempire la bocca fino all’orlo.

Capita di tornarci pure oggi, di tanto in tanto, come si torna pellegrini in spazi così cari da parere sacri. Sono pagine schiette, spogliate della retorica seriosa e spudorata a cui ci siamo abituati negli anni. Ti avvolgono in un’aura di sobrietà, d’ironia, di pudore. «Forse nel Veneto – osserva Meneghello in Fiori Italiani – è impossibile essere spudorati in modo serio». E non si riesce a dargli torto, almeno guardando, letteralmente, alla «roba» che ha scritto.

I colli berici

Autore forse poco conosciuto, non particolarmente presente nelle antologie scolastiche, è in realtà uno dei giganti del secondo Novecento. Uno di quelli per cui s’invidia chi non l’ha mai letto per il semplice fatto di doverlo ancora incontrare per la prima volta. Meneghello è stato tanto, troppo per abbozzare una biografia esaustiva. Nato a Malo, in provincia di Vicenza, studente brillante, partigiano nella guerra di Liberazione, dopo una breve esperienza nel Partito d’Azione finisce poi a dirigere il dipartimento di Italian Studies all’Università di Reading, in Inghilterra, da dove ha scritto i suoi capolavori, colpevolmente dimenticati da una parte della critica.

Quando nel 1992 gli conferiscono il premio Nonino, presentato fra l’altro da Gianni Brera, dichiara di non aver mai avuto «molto a che fare coi premi letterari» e che «se si facesse una classifica inversa degli scrittori italiani, chi ha fatto meno punti in questo campo, credo che sarei nelle prime, forse nelle primissime posizioni. In pratica ho passato buona parte della mia vita a schivare (in letteratura e in altro) ciò che in inglese si chiama the rat race, “la corsa dei ratti”, la gara sfrenata». Dieci anni dopo, quando ritira il premio Chiara, mantiene lo stesso aplomb anglosassone e afferma di non aver mai

«pensato di aver avuto una carriera. Da bambino avevo una sola aspirazione, partecipare alle Olimpiadi del 1940 e vincere tre gare da niente, i 100 metri, la maratona e il salto con l’asta. C’è stata di mezzo una guerra e non ho potuto realizzare il mio sogno».

La passione per lo sport – a questo punto lo si sarà intuito – emerge come una parte decisiva della sua vita e della sua opera. Lo si vede già da queste poche righe, estrapolate da contesti diversi, in cui pure torna il discorso sportivo, eliminando il quale si rischierebbe di equivocare l’Uomo, non meno che l’Autore.

Ad una lettura un poco più approfondita, infatti, l’attività agonistica diventa un’irrinunciabile punto d’osservazione della sua opera e del suo mondo: il passaggio da una società agreste e secolare a quella moderna e industriale di Libera nos a Malo, la guerra partigiana dei Piccoli maestri, la materia familiare di Pomo pero, l’educazione fascista di Fiori Italiani, l’onnipresenza dell’idioma veneto che ne riveste la scrittura in modo trasversale, con tutta l’ironia di cui un autore veneto è capace (vedasi Goldoni, Berto, Trevisan, come altri scrittori del Nord-Est, meno noti, marchiati quasi d’infamia – e perciò di gloria).

Tutto viene attraversato da un linguaggio, un modo di narrare, un contenuto che è debitore dell’intera galassia olimpica, del vocabolario di Pindaro, delle movenze sintattiche del gioco. Così come saggia le possibilità offerte dalla scrittura, l’intellettuale maladense parimenti si esalta nella continua misura di sé nell’attività fisica, in quanto «l’uomo senza sport è nella stessa condizione di quello a cui non piacciono i radicchi con la pancetta; non è neanche un uomo». Da ragazzo egli infatti lo concepiva «non come un piacevole esercizio del corpo» poiché «lo sport è nella sua essenza agone». Da adulto, una volta arrivato in Gran Bretagna, reagisce con imbarazzo nell’apprendere dai colleghi inglesi i resoconti delle loro imprese adolescenziali, che a lui parevano straordinarie ed essi consideravano invece di nessun conto:

«Il buon Pick rise di gusto quando gli dissi che da ragazzo io, “in tutta la gamma delle gare di atletica, track and field, corse e salti, ero molto vicino ai record italiani…” e fatta la giusta pausa di compunzione aggiunsi “…femminili”. E invece io so bene che non lo ero affatto! e avrei dato non so cosa, il testicolo sinistro di un ginnastico capomanipolo, per esserlo!»

E non potrebbe forse essere altrimenti. Primo perché, così sempre l’autore, «gareggiare, misurarsi, istituire primati, vincere prove: il sale del mondo era quello»; e poi per via dei molteplici imprinting ricevuti in famiglia. La cugina Ester Meneghello, che è medaglia d’oro ai campionati italiani del 1941 nei 200 metri piani. Poi il giovane zio Dino, motociclista, sciatore, boxeur e giocatore di calcio dilettante, per il quale conta «non la velocità, lo scatto, e nemmeno il calcio-fisso» ma «il tocco del pallone! Istinto di Dino per il centro delle cose, “la Vita”».

E forse anche l’odore dell’officina del padre Cleto, con le macchie d’olio a tappezzare i pavimenti e i pezzi di ricambio sparsi qua e là, dove a contare sono creatività e tecnica, virtù, queste, ottime tanto per un meccanico quanto per un fantasista di razza.

Aiutaci a mantenere il livello di qualità che contraddistingue Contrasti nel panorama del giornalismo sportivo italiano. Abbonati a ULTRA!


Lo sport, in Meneghello, segna dunque le tappe della vita, come i punti di una mappa, tenendo traccia dei luoghi, delle imprese sue e quelle d’altri. Così, nel leggere il Luigi ‘atleta’ pare non poterlo scindere dalla sua esperienza intellettuale. E si potrebbe ben dire viceversa, se è vero che «l’unico modo serio, per un letterato, di occuparsi di sport è di farlo da sportivo, non da letterato». Sarà forse per questo che fin da bambino lo vediamo cimentarsi in ogni pratica possibile, o da prima ancora, dal momento che «il gioco del pallone entrava nella nostra vita quando non si era ancora perfetti nell’arte dello stare in piedi».

È quello che appare chiaro, tra le altre carte, in un plico di 450 fogli pubblicato postumo, a cura di Francesca Caputo. È intitolato Spor, così, senza ‘t’, giacché per un vicentino pronunciare una consonante in finale di parola è sforzo immenso e fatica sprecata, in cui emerge l’eclettismo e lo sperimentalismo dell’autore, nonché quello di ‘S.’, così come egli usa spesso chiamare la sua controfigura romanzesca.

In mezzo ad una folla di personaggi quasi felliniani, splendenti di folklore, una figura che svetta, eroica e trasfigurata, è quella dello zio Dino, che accompagna l’autore nelle sue prime avventure. Tra tutte, quelle votate all’inseguimento della sfera di cuoio, poiché Dino è ricordato come prodigioso giocatore dell’U.S. Malo, la squadra paesana, in quella tipica narrazione che deforma, ingrandisce, ed esalta le figure tratte in salvo dall’oblio nell’opera meneghelliana. In essa il piccolo calcio, come la piccola storia, per così dire quella da Annales, lontana dai campi di battaglia, con la lente d’ingrandimento puntata sul quotidiano, si prende la scena.

meneghello
Foto di gruppo dei “piccoli maestri” ad Asiago nel 1944 durante la Resistenza: si riconoscono (da destra) Benedetto Galla, Lelio Spanevello, Dante Caneva e appunto Luigi Meneghello

In Libera nos a Malo, dove vestire la maglia nerostellata della squadra locale pare l’ambizione più grande per ogni suo coscritto, racconta con tono iperbolico della forza di quella formazione, riempita di nomi e nomignoli locali (in difesa Checco-scheo, Tonìn a centrocampo, in attacco Nani Mole), nomi all’apparenza imbattibili, ma capaci di vendersi la partita contro quelli del Marano in cambio di undici pastasciutte. Poi le invasioni di campo domenicali, come quando a Velo d’Astico, in un’ultima e decisiva partita di campionato, il Malo vince scatenando le ire della folla, che obbliga gli ospiti a riparare in un bar preso in seguito d’assalto, decisa com’era, s’intende la folla, ad estirpare una volta per sempre un’intera leva calcistica rivale.

Vi è poi il football giocato in prima persona, cosicché tra le «poche [cose] veramente decenti di tutta la sua vita» Meneghello annovera un prodigioso passaggio dalla mezzala destra, sciupato poi dalla punta ma così bello che l’autore può solo fingere d’arrabbiarsi, esultando però in cuore per la prodezza.

Soddisfazione grande quasi quanto quella del compagno del Liceo Pigafetta, tal Zanchi, «che mise serenamente in pratica l’Aspirazione Suprema di ogni calciatore: prese a pugni l’arbitro, lo fece cadere per terra e gli montò sopra coi piedi: e fu trionfalmente espulso da tutti i campi d’Italia e da tutte le scuole del Regno. Non da alcuni: da tutti e da tutte, e per l’eterno».

E in controluce ancora il calcio dei grandi, a cui si può solo assistere da spettatore, ma con lo stesso spirito con cui da liceale affronta i principi basilari di Platone ed Ovidio; come quella volta, prima della guerra, che andò a Milano per vedere giocare la Nazionale azzurra, convinto che se avesse potuto incontrare qualcuno tra i vivi e i morti, questi sarebbero stati in assoluto Socrate e Meazza, salvo poi rimanere basito vedendo scendere in campo un «signore di mezza età che giochicchiava al suo posto, alquanto in carne, con la mascagna e la brillantina», ben lontano dal Peppino tricolore su cui aveva a lungo favoleggiato. Ecco, conclude, come evapora la virtù.

Ma il calcio non la fa sempre da padrone.

In Bau-séte!, libro densissimo di riferimenti motociclistici, lo si vede sfrecciare lungo il Costo che da Piovene porta ad Asiago, a bordo di una «macchina alata», infilatosi in una tuta bianca, nuova e abbagliante; mentre in altre pagine l’atletica ritorna di continuo, un po’ in tutte le specialità, tant’è vero che «le Olimpiadi dell’anteguerra si fecero in due edizioni: una a Los Angeles e a Berlino, e una nel cortile di mia nonna».

Poi ancora la montagna: le lunghe passeggiate sulle Piccole Dolomiti ed oltre, l’alpinismo e le cosiddette ranpegate, che rappresentano una non minor parte nella formazione del giovane Meneghello. Ci sono le escursioni con la moglie Katia e il conte Bonacossi in Val Brenta, le imprese all’ombra dell’Adamello con gli amici, il ritorno in Altopiano a recuperare i fucili abbandonati nel ’45, perché in fondo «la roccia era sempre lì, sullo sfondo della nostra vita, e ogni tanto in primo piano… […] Resta che nel foro interno, in interiore homine, da me abitava la roccia, a quintali», in ogni stagione della vita.



E poi le bocce, la caccia alla volpe, il ciclismo. L’hockey, il cricket, il rugby, dove non conta vincere, ma «strattonarsi, infangarsi, fare furibonde mischie»; la scherma, lo squash, il tennis, che è «figura della vita in quanto nel gioco si vede il carattere delle persone, [poiché] l’uomo violento gioca un tennis violento, e la donna leziosa fa le leziosaggini a fondocampo». Poi ancora gli sci, il nuoto nel «putrido laghetto» di Fimon, la breve e giovanile stagione del pugilato, che non è altro che un’anticipazione della vita adulta: «Ne ho prese poi tante fuori dal ring, – si legge in una carta del ’66 – mi sono abituato. Faccio versi senza amore, prose romanze, studi privi di speranze particolari. A mano a mano ho smesso di aspirare ai doni di quello, ai teneri snodi di quella, non voglio più nulla».

Se da studente la connessione tra Sport e Assoluto gli viene in termini retorici e tutti dannunziani – nel corso di una partita di pallacanestro si avvicina ad un compagno e gli confessa quanto bello sarebbe morire per la bandiera del Liceo, quell’altro pronto gli risponde che è un’idea da coglioni – ebbene, crescendo si ha come l’impressione che esso vada a fondersi con l’opera dello scrittore, non tanto in un vacuo tentativo di gareggiare con gli altri, quanto in quello di tastare ogni possibilità della parola, e in un certo senso se stesso, ma con la leggerezza che si premette ad ogni lavoro essenziale, come fosse ancora valido l’adagio giovanile secondo cui «nessuna persona seria dubitava che gareggiare sia il sugo della vita».

In fondo, si legge in Spor, «nelle attività sportive profonde l’antagonista ultimo è Dio». Non certo un avversario che si possa battere, ma l’unico dal quale voler essere battuti: in questo sì sta la vera prodezza dell’uomo che in un gesto ricerca l’eterno. È un atto che si sublima: uno scatto teso ad un traguardo che non ha fine, un salto che non conosce gravità né asticelle.

«D’altro canto – prosegue Meneghello – questa nozione [di infinito], nella sua purezza metafisica, non sembra del tutto sensata, e il giovanetto ben nato ripiega dunque su un compromesso, il primato mondiale. Paragonati con l’eterno, siamo lenti, pesanti e fiacchi ma almeno possiamo attaccarci alla modesta soddisfazione di essere i meno lenti, i meno pesanti, i meno fiacchi del mondo. Così in ogni genere di agone, le vittorie che vale la pena di conseguire sono quelle in cui si stabilisce il primato mondiale. Resta una triste coda; e il futuro? Purtroppo i primati continuano a essere battuti. Se anche noi invecchieremo (come tutti predicano che avverrà) non saranno superati, a suo tempo, i nostri tempi e le nostre misure? Non è intollerabile l’idea che un giorno appariranno arcaici, e faranno sorridere la gente? Su questo punto S. non aveva dubbi. Gli pareva ovvio, benché assurdo, che i primati mondiali seri sono quelli che non saranno più battuti…».

E forse è giusto dire lo stesso di chi scrive. Più che sul quadrato del mondo, il terreno di lotta è con l’ombra che di notte si proietta sul tavolino, alla ricerca di una pagina che non verrà mai superata. La corsa dei ratti la si lascia agli altri. L’avversario ultimo, lo scrittore-atleta lo sa, è da cercare al di dentro; o nel continuo scatto verso un traguardo senza rettilineo, in un tuffo nella piscina che, come a Paestum, pare sospeso nella perfezione di un secondo senza fine.

Ti potrebbe interessare

Alfonso Gatto, un poeta allo stadio
Cultura
Andrea Mainente
07 Ottobre 2021

Alfonso Gatto, un poeta allo stadio

Vita, calcio e ciclismo come un'unica testimonianza d'amore.
Ho visto Kvaratskhelia
Ritratti
Thomas Novello
08 Settembre 2022

Ho visto Kvaratskhelia

Come la cultura georgiana ha influito sullo stile di gioco del talento del Napoli.
Giovanissimi di Forgione è un inno alla vita
Interviste
Annibale Gagliani
02 Aprile 2020

Giovanissimi di Forgione è un inno alla vita

Nel nuovo romanzo dello scrittore partenopeo il calcio e Napoli giocano un ruolo fondamentale.
Lo sport secondo Ernest Hemingway
Cultura
Edoardo Franzosi
02 Luglio 2021

Lo sport secondo Ernest Hemingway

Il 2 luglio del '61 moriva suicida un'icona del Novecento.
Lo sport nel cuore di Hunter S. Thompson
Cultura
Vito Alberto Amendolara
30 Agosto 2024

Lo sport nel cuore di Hunter S. Thompson

All'essenza, e alla base, del giornalismo gonzo.