Domenica 28 febbraio 2010, Glasgow, Scozia: è tempo di Rangers contro Celtic. L’Old Firm. Il mio Old Firm. Dopo anni passati da spettatore davanti alla tivvù, vivendo indirettamente un antagonismo così distante dalla realtà romana nella quale sono nato e cresciuto, ho finalmente l’occasione di vivere sulla mia pelle l’intensità della stracittadina più sentita al mondo.
Il teatro dell’Opera, neanche a dirlo, è Ibrox Park. Una fortezza magnificamente eretta tra i palazzoni del quartiere Govan che mi fece commuovere ed innamorare quando, quattro anni prima, ad appena dodici anni, vi misi piede al suo interno per la prima volta. Quell’incantevole mare blu e il contrasto con l’affascinante binomio biancoverde del Celtic hanno rappresentato il sogno sportivo della mia prima giovinezza. Una chimera bramata a tal punto da riuscire nell’impresa di toccarla con mano.
Arrivato il grande giorno, una volta varcata la soglia del tempio, l’estasi che provo è senza precedenti. A pochi metri dal mio seggiolino, una fila di poliziotti e steward divide il settore dei tifosi ospiti, accorsi a migliaia, dallo spicchio di tribuna rimasta sotto il controllo dei padroni di casa. La partita nella partita si gioca qua. Ed è un incontro che non conosce regole. Partono sfottò, sì, ma anche minacce, insulti e tentativi di aggressione fisica da entrambe le barricate.
Una trincea di terribile bellezza colorata da vessilli e animata da canti guerrieri: il preludio delle armi nella battaglia incombente.
C’è un qualcosa di sublime e catartico nella violenza che mi circonda. È elettrizzante. Confesso però di essere un po’ intimorito. Una paura adrenalinica, dalla quale sono progressivamente assalito, che non riesco a controllare. Come Sting in quel di New York: “I’m an alien, I’m a legal alien”. Per rompere il ghiaccio, mi unisco assieme a Francesco, il fratello maggiore che non ho mai avuto, nell’esecuzione a squarciagola dei cori assordanti che si levano al cielo.
Una liturgia che annuncia l’ingresso in campo delle squadre. Ecco che i giocatori escono dal tunnel. Ibrox si trasforma definitivamente in un’autentica polveriera. Quello strano timore diventa un’ansia tormentosa. Il cuore impazzisce, potrei rimanerci secco. Al diavolo, che esploda. Ma solo dopo il triplice fischio.
Neppure il tempo di iniziare che Kevin Thomson si esibisce in un paio di tackle da capogiro ai danni di Robbie Keane. Il ruggito del popolo Gers accompagna quel rodeo di scivolate. Il tabellone segna 3 minuti di gioco e sono già in preda ai brividi. Non è retorica: lo spirito selvaggio che incendia questa contesa è a dir poco unico. I primi quindici giri di orologio sono un susseguirsi di azioni pericolose con un paio di ammonizioni di contorno per non far mancare davvero nulla.
Se da un lato, Keane, il Messia irlandese, predica il suo calcio sfiorando di poco la rete, dall’altro la coppia d’attacco Boyd-Miller prova vanamente a scardinare la difesa avversaria a suon di bordate. All’improvviso un lampo: Maurice Edu, subentrato all’infortunato Lee McCulloch, segna con un tiro da fuori area. L’esultanza dello stadio si smorza immediatamente. Miller ha infatti deviato la sassata del compagno con una mano. L’arbitro annulla il vantaggio. Poco dopo Allan McGregor, il portiere dei Rangers con il lieto vizio per le donne, come sottolineato dai cori a lui indirizzati, salva di nuovo il risultato respingendo un altro superbo tiro, stavolta al volo, del figlio dell’isola di Smeraldo.
É una giostra dalla quale è impossibile scendere. Qui chi si ferma è perduto.
Giunti all’intervallo, ricomincio attentamente a guardarmi attorno. In prima linea la tensione si può tagliare con il coltello. Volano anatemi. In questo crocevia non si fanno prigionieri e il Fair Play è sconosciuto. Per i tifosi la tregua non è contemplata. Il biancoverde più scatenato tra quelli che si affacciano verso di noi incrocia il mio sguardo. Non lo avesse mai fatto. Il suo volto truce è un mascherone, i gestacci che mi rivolge sono disgustosi: assaggio ancora una volta cosa significhi l’Old Firm.
Le squadre fanno il loro ritorno in campo. Riparte il valzer di emozioni sul rettangolo verde. Edu si fa nuovamente pericoloso nei pressi di Boruc, il portiere polacco in forza al Celtic. Poi ci prova Steven Davis ma la palla non intende infilarsi in rete. Tra i ragazzi giunti dall’East End c’è apprensione. I Rangers suonano la carica e si fanno sempre più agguerriti. Aiden McGeady lascia il posto a Georgios Samaras. Il greco è una furia ma la granitica coppia difensiva Bougherra-Weir non gli concede neppure di intravedere la gloria. Le retrovie sono al sicuro.
Al minuto di gioco numero 66 Scott Brown si azzuffa con Kyle Lafferty a centrocampo. Rosso diretto per il capitano degli Hoops che lascia i suoi in dieci.
La partita però non si sblocca. Edu ci riprova: stavolta scheggia la traversa. Ma è lui l’uomo del destino. Siamo agli sgoccioli del match. 93esimo minuto, ultima azione. Thomson batte l’angolo, Weir liscia di testa, la palla va a Bougherra che calcia da fuori area, Boruc smanaccia in area, arriva Boyd che non riesce a calciare facendo schizzare la palla proprio sui piedi di Mo Edu che insacca. 1-0, +10 in classifica. La lotta per il campionato è conclusa. Scoppia il delirio collettivo.
La tensione che regnava sovrana si scioglie come neve al sole. Ora domina una gioia impetuosa. È bello partecipare a un simile tripudio di abbracci e sorrisi. Una sensazione speciale, in quanto condivisa. Non resisto però e butto un occhio all’altro schieramento. Il minaccioso tifoso avversario che all’intervallo mi aveva messo a disagio ora piange, tenendosi sconsolato la testa tra le mani. Un quadro impietoso che mi colpisce per la sua umanità. Una questione di vita o di morte, di Olimpo o di polvere, nella quale ritrovarsi o perdersi: è questa l’essenza dell’Old Firm.