Roberto Gotta
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Editoriali
Roberto Gotta
10 Gennaio 2021
Non è più la nostra FA Cup
Il (fu) torneo più bello del mondo.
Questo è un articolo vigliacco. Contiene infatti critiche e osservazioni a una persona che non si può difendere: Mike Ashley, proprietario del Newcastle United. Siamo nell’epoca in cui ci si può permettere di dare degli imbecilli a Boris Johnson, Donald Trump, Giuseppe Conte, Emmanuel Macron, cioé tutte persone che sedute ad un tavolo di fronte a noi ci distruggerebbero in una discussione su temi politici o istituzionali, figuriamoci se non ci si sente autorizzati a criticare l’azionista di maggioranza di un club, oltretutto sovrappeso, perché poi il politicamente corretto a quanto pare vale solo per alcune categorie.
Da dove si dovrebbe partire? Dalle origini, per capire. Ashley acquisì il Newcastle United nel maggio del 2007 per un totale di 150 milioni di euro, a cui ne dovette aggiungerne altri 130 successivamente, peraltro con una formula di prestito. Prima di lui, sotto la gestione del duo Freddy Shepherd-John Hall (e figlio Douglas) circa dal 1992, il club aveva sfiorato il titolo in Premier League e perso due finali consecutive di Coppa d’Inghilterra, con giocatori come Alan Shearer e allenatori di alto profilo. Ma anche, appunto, una progressiva perdita di efficacia sul piano gestionale ed economico.
Tra l’altro, in quel maggio del 2007 Ashley era praticamente sconosciuto al grande pubblico. Sì, aveva messo assieme, di acquisizione in acquisizione, una serie di negozi di articoli sportivi, partendo da quello che aveva aperto appena fuori Londra nel 1982, a soli 18 anni, grazie a un prestito dei genitori. Ma era socio unico e dunque, per il regolamento commerciale britannico, non era tenuto a comunicare i dati personali al registro delle imprese. Non presenziava a feste o cene, non era un personaggio pubblico e di lui, al momento dell’acquisto del Newcastle United, non esistevano foto se non di quando, adolescente, era stato promettente giocatore di squash. Un cosiddetto outsider, che non rispondeva alle richieste di interviste.
Philip Beresford, responsabile dell’elenco delle persone più ricche del Regno Unito pubblicato (ma perché?) ogni anno dal quotidiano Times, a fine anni Novanta lo aveva equiparato a Howard Hughes, il celebre miliardario americano che negli ultimi decenni di vita, conclusasi nel 1976, era praticamente sparito agli occhi del mondo, rinchiuso a gestire (male) le proprie manie, che lo portarono ad esempio nel 1969 a vedere per 150 volte di fila, senza mai uscire da una sala che si era fatto preparare in casa, il film Ice Station Zebra.
Ashley non ha mai avuto quelle paranoie: voleva semplicemente essere lasciato in pace, forse non voleva distrarsi nella sua corsa ad acquisire, con la sua Sports Soccer, sempre più negozi, catene e marchi e affermare in modo definitivo il proprio peso nel settore. C’era stato anche un episodio molto particolare, nel 2000: David Hughes, proprietario della catena rivale Allsports, lo aveva invitato a casa sua per trovare un accordo sul prezzo a cui vendere la maglia del Manchester United. All’incontro era presente anche Dave Whelan, fondatore della JJB Sports (e presidente del Wigan Athletic), che prima – lo scrisse il quotidiano Guardian – lo scambiò per un giardiniere, per il suo abbigliamento semplice, poi gli disse:
“Ragazzo, qui nel nord c’è un club esclusivo, e tu non ne fai parte”.
Il club era quello dei proprietari di catene di articoli sportivi, e l’intento della frase era chiaro: tu, giovanotto, sei e resti uno che con noi non c’entra niente, e oltretutto vieni dal sud. Ashley non fece una piega e andò a denunciare i due rivali presso l’Office of Fair Trading, l’agenzia governativa che garantiva i consumatori e proteggeva il mondo del commercio da pratiche illegali.
Quello che avevano Hughes, Whelan e altri imprenditori del settore era infatti chiaramente un accordo per fissare un prezzo comune – non basso – alle maglie delle squadre, a tutto danno degli acquirenti. A tal proposito, nel 1998, Shepherd e Douglas Hall finirono nell’occhio del ciclone di un grande scandalo che confermò ciò che Ashley aveva intuito: produrre le maglie costa pochissimo, ma per accordo tra commercianti nella vendita al dettaglio viene aggiunto un sovrapprezzo notevole.
Dopo l’episodio del 1998 Shepherd e Hall figlio erano stati comprensibilmente massacrati a tutti i livelli, ed avevano dovuto stare alla larga da St.James’ Park, per molti mesi, senza però dimettersi come avevano chiesto in tanti, compreso John Regan, segretario di un’associazione di tifosi, che facendo ricorso a tutta la retorica possibile aveva detto:
“Quei due avranno le quote azionarie ma l’anima e il corpo del club appartengono a noi tifosi”.
Nel 2007 quindi finalmente si toglievano dai piedi personaggi sgraditi, anche se nati e cresciuti in loco e in un caso (Hall padre) addirittura ex minatori prima di fare fortuna, e arrivava un volto nuovo, ricco, entusiasta. Nuovo, soprattutto, anche se ovviamente al momento della trattativa qualche dettaglio in più sulla sua vita era emerso: in tempi recenti, in fondo, Ashley e la SportsDirect, nome aggiornato, avevano scavalcato la JJB di Whelan (di cui poi avrebbe acquisito in parte la proprietà nel 2012) per volume di affari, e acquistato marchi storici come Lonsdale e Slazenger.
La sua tattica di mercato era semplice: sconti notevolissimi sui prodotti di maggior nome, contando sul fatto che una volta all’interno gli acquirenti si sarebbero fatti attirare da altri capi di abbigliamento a prezzo pieno. E gli inizi non erano stati male, sempre per il principio di cui qualche riga più sopra: dopo i due Hall e Shepherd chiunque sarebbe stato accettato e avrebbe ricevuto un periodo di tempo variabile per dimostrare le proprie intenzioni. Che nel caso di Ashley sembravano buonissime.
Sedeva in tribuna ma con maglia bianconera addosso, andava al pub mescolandosi ai tifosi e si sforzava di capire quel che dicessero, considerato il dialetto locale (Geordie) con cui si esprimevano molti di loro, impervio a uno nato e cresciuto nel sud dell’Inghilterra.
Quando si giocò il primo derby sul campo del Sunderland rinunciò a pranzare e a vedere la partita nel box privato riservato al club, dato che le regole – ovunque nel Regno Unito – vietano che si indossino maglie da calcio in luoghi del genere. Voleva dare l’impressione di un imprenditore dedito agli affari ma anche a godersi un po’ il privilegio di possedere un club, e anche per questo delegò moltissimo ai dirigenti da lui scelti.
E cosa ha fatto dunque per essere ormai da tempo bersaglio di critiche se non insulti? Tanto, molto, poco, nulla, a seconda dei pareri. Spesso dissociati dai fatti, che sono questi: reduci da sei stagioni consecutive in una coppa europea, nei 12 anni successivi al suo arrivo i Magpies si sono classificati solo una volta più in alto del decimo posto (quinti, 2011-12, con quarti di finale di Europa League raggiunti poi l’anno successivo), retrocedendo due volte e subito tornando in Premier League, uscendo poi sempre al primo o secondo turno della Coppa d’Inghilterra. Il tutto, secondo i dati del sito transfermarkt, spendendo sul mercato circa 560 milioni di euro ottenendone intorno ai 440, con un passivo di 120 milioni.
Ai tifosi, però, dei passivi non frega nulla. Dei risultati, e in alcuni casi del modo in cui si ottengono, invece sì. E il bilancio agonistico è insufficiente se rapportato alla capienza dello stadio (oltre 52.000), al bacino di utenza, alla passione della città e alla tradizione. Anche perché presto si ruppe il legame, forse artificiale, tra Ashley e l’ambiente. Tra i dirigenti di cui sopra, infatti, c’erano Dennis Wise, l’ex calciatore di Wimbledon e Chelsea e anche allenatore che aveva portato il Millwall alla finale di FA Cup del 2004; e con lui Derek Llambias.
Quando Kevin Keegan, che nel gennaio del 2008 era tornato tra l’esultanza generale a sostituire in panchina Sam Allardyce, si licenziò a inizio settembre, per quelle che riteneva interferenze da parte dei dirigenti, la tenue luna di miele tra i tifosi e il proprietario si sciolse, e scoppiarono le proteste verso quella che venne chiamata ‘Cockney Mafia’, la Mafia londinese per le origini di Llambias e Wise, e più grossolanamente di Ashley.
Colpito dalla ferocia della contestazione, che anticipò di alcuni mesi la prima retrocessione, Ashley disse di sentirsi fuori posto e di voler cedere il club, e fu solo la prima volta. Il Newcastle United è però ancora suo, nonostante un recente tentativo di approccio da un consorzio con ramificazioni saudite, e questi 13 anni hanno finora rappresentato una grande occasione persa, sul piano del consolidamento e su quello del progetto tecnico. Nulla impedirebbe ai Magpies di essere tra i primi cinque-sei club inglesi, ma questo non è mai accaduto sotto Ashley, che non è riuscito a trattenere nemmeno Rafa Benitez, l’allenatore che non era riuscito a impedire la retrocessione del 2015-16, in quanto arrivato troppo tardi, ma che era rimasto a disegnare la successiva promozione ed era diventato il riferimento dei tifosi come unica figura affidabile del club.
Nel 2018-19 la situazione era diventata quasi grottesca: a metà agosto Benitez aveva firmato, con il direttore esecutivo Lee Charnley e il capitano Jamaal Lascelles, una specie di patto di unità nazionale – si dice che esista una Geordie Nation, no? – ma subito dopo le proteste erano ripartite. Era infatti il periodo in cui Ashley aveva acquisito l’importante catena di negozi House of Fraser, spendendo 90 milioni, e aveva chiuso la sessione di mercato con un utile di 20: il peggio del peggio per i tifosi, che ovviamente avrebbero preferito veder spesi i 90 milioni per la squadra. Benitez disse furbamente di capire bene le sensazioni dei tifosi e di voler capire, dalle intenzioni del club nella finestra di mercato del gennaio 2019, quali fossero le prospettive.
Nel frattempo, persa per 3-1 una partita di Coppa di Lega contro il Nottingham Forest, aveva lamentato l’esiguità numerica e tecnica della rosa, e poche settimane dopo aveva avuto un confronto ancora con Charnley su un tema delicatissimo, forse IL tema: secondo Ashley, infatti, il Newcastle doveva puntare a produrre e acquistare giocatori giovani per poterli poi rivendere con profitto (esempio: Georginio Wijnaldum, preso a 20 milioni e rivenduto a 27, anche se a 25 anni proprio giovane non poteva essere definito), mentre Rafa voleva gente più esperta già pronta da buttare in campo e ottenere risultati.
Ci fu una tregua il 29 settembre 2019, quando Ashley presenziò a una partita a St.James’ Park per la prima volta dalla primavera del 2017, e curiosamente in quello 0-2 contro il Leicester City ci furono i primi ‘buuu’ per Benitez, al momento della sostituzione di Matt Ritchie, amatissimo dalla gente del luogo. Seguì un incontro tra allenatore e proprietario, solamente il quarto in oltre due anni di collaborazione, e fu una serata alla Ashley dei tempi migliori, con un conto di 3000 euro in alcol e la promessa di stabilità, perlomeno fino al termine della stagione, con vacanza pagata ai giocatori in caso di salvezza. Bene, o male: semplicemente perché è assurdo che il Newcastle, con la sua dimensione, debba festeggiare una salvezza e non la conquista di un traguardo molto maggiore.
Però la realtà era quella: lo 0-0 a Southampton del 27 ottobre sancì il peggior inizio di una stagione dei Magpies dal 1898 (!). La rabbia era tale che nonostante tre vittorie consecutive in occasione della partita interna contro il West Ham dell’1 dicembre molti tifosi attesero l’undicesimo minuto per entrare allo stadio, simbolo di 11 anni di frustrazioni. Appena si sedettero, il West Ham segnò con Chicharito Hernandez la prima delle tre reti (a zero) con cui vinse la partita, a significare l’inutilità retorica di certi gesti. Qualcosa si mosse però sul serio, a gennaio, con l’arrivo di Miguel Almiron, fresco campione MLS con Atlanta, per 24 milioni di euro. La cosa davvero assurda, che fa capire un po’ la filosofia della gestione di Ashley, è che il Newcastle era fino a quel momento la squadra di Premier League che da più tempo non batteva il proprio primato di spesa per un giocatore, e si parlava di Michael Owen, 2005, dunque ancora sotto Shepherd-Hall 1 e 2.
Ma era servito a poco. Sì, la salvezza, la vacanza pagata. Ma anche, contemporaneamente, i silenzi e gli indugi. Fallito l’ultimo tentativo di mediazione, il 24 giugno il club comunicò che il contratto di Benitez non sarebbe stato rinnovato, e l’estate iniziò col tentativo di cessione del club, il quinto in 12 anni. Fu perso anche Salomon Rondòn, Premio Solitudine 2018-19 per l’isolamento eroico in cui era stato tenuto in attacco: in prestito dal West Bromwich Albion, non era stato acquistato in maniera definitiva perché troppo in là con gli anni, secondo la politica Ashleyana e andò ai cinesi del Dalian, allenati proprio da Benitez. Solo il 17 luglio venne comunicato il nome del nuovo allenatore: Steve Bruce. Sgradito a molti, nonostante la sua origine locale, la sua provata fede bianconera e la sua felicità nel poter finalmente esaudire un desiderio che avrebbe mandato in estasi il padre, scomparso nel 2018.
Bruce era però visto come manager tatticamente non raffinato, uno della vecchia scuola, e soprattutto come figura messa lì da Ashley per catturare benevolenza. Insomma, quella che normalmente sarebbe stata una scelta popolarissima, cioé un (ex) ragazzo locale da sempre tifoso, di quelli che da ragazzino squattrinato sgattaiolava sotto il cancelletto per entrare, e desideroso come pochi di portare a Newcastle un trofeo che manca da 51 anni – Coppa Uefa del 1968-69, all’epoca chiamata Coppa delle Fiere – è diventata un’altra fonte di polemica. Come se Ashley, invece di promuovere le doti di Bruce, se ne fosse fatto scudo: eccovi un tifoso come voi, fate i bravi.
Nemmeno i tanti soldi spesi in estate sono serviti a placare la situazione. Anche perché Joelinton, pagato 44 milioni di euro all’Hoffenheim tra le risate di chi lo valutava MOLTO meno, non ha minimamente reso, e del resto in Germania aveva spesso giocato sulla fascia e non da punta centrale. A dirla tutta, Bruce ha ottenuto anche buoni risultati, con il nono posto alla 18esima giornata, e al momento dell’interruzione della stagione aveva portato i Magpies ai quarti di finale di FA Cup, ma il gioco non è mai piaciuto troppo e i mormorii sono stati tanti. Non tantissimi per un motivo molto semplice: alle partite va meno gente. I 42.303 spettatori ufficiali della partita contro il Southampton dell’8 dicembre hanno rappresentato un record negativo degli ultimi nove anni, e a detta di chi era presente i presenti erano ancora meno.
Anche perché circa 10.000 abbonati non hanno rinnovato, e solo a febbraio Bruce è riuscito a convincere Ashley a regalare 10.000 mini-abbonamenti da metà stagione, per veder arrivare qualcuno in più. Un Bruce spesso esasperato per quelle che considera critiche ingiuste, per partito preso. Ad un certo punto, stufo di essere preso per un deficiente, ha pure reagito:
“Secondo voi io dico ai miei giocatori di passare la palla agli avversari? Credete davvero che io non sappia quello che dovremmo fare? La qualità della rosa purtroppo non ci consente di far girare il pallone come vorremmo, ma siamo una squadra tenace e difficile da battere”.
Bruce, insomma, a metterci la faccia, storta e vissuta come conviene a un giocatore che ha fatto una fetta di storia, e Ashley dietro a cercare il riparo. Perlomeno nel calcio, visto che per il resto non parliamo certo di una persona che mostri particolari timori.
E infatti ecco gli ultimi eventi. Il Governo britannico impone la chiusura di tutti gli esercizi commerciali non necessari ma Ashley tiene aperti i suoi negozi di articoli sportivi, sostenendone l’utilità sociale per fornire materiale per tenersi in esercizio, e manda ai dipendenti un’email ricordando loro che devono presentarsi al lavoro a prescindere. Le reazioni negative sono tantissime, in linea con la tendenza generale del nostro mondo, che valuta la gravità degli atti non in base agli atti stessi ma a chi li compie: e Ashley è il Cattivo per eccellenza, ora non solo per gli appassionati di calcio ma per tutti, per cui apriti cielo.
Polemiche, invito dello stesso Primo Ministro Boris Johnson a rispettare le regole, accuse di scarso rispetto dell’incolumità di commessi e cassieri e di avidità per aver (pare, da circolare interna) aumentato del 50% il prezzo di alcuni articoli, dietrofront con una poderosa lettera di scuse in cui Ashley ha messo anche a disposizione – non mancando di far notare come il suo gruppo sia quello che dà lavoro al maggior numero di persone – mezzi aziendali per il trasporto di materiale necessario.
Ma i buoi erano già scappati, anche perché nel frattempo se ne sono uniti altri: il 25 marzo, in piena crisi coronavirus, agli abbonati sono state addebitate 1200 sterline per l’abbonamento 2020-21, e in più il Newcastle è stato il primo club ad approfittare della manovra del governo e trasferire i propri dipendenti – giocatori esclusi – nella cassa integrazione, con una percentuale fino all’80% dello stipendio pagato dallo stato. Lecito, ed applicato poi da altri club (ma il Liverpool ha poi cambiato idea proprio lunedì 6 aprile), ma visto come cinico da parte di un club ricco con proprietario straricco.
Ecco perché da Cattivo regionale ora Ashley è diventato Cattivo nazionale: e sono tornate fuori, forse ad arte, le notizia di una trattativa più avanzata del solito per la cessione a quel gruppo con legami sauditi, il PIF, con il tramite di Chris Mort, ovvero il primo presidente del Newcastle della gestione Ashley. Che si dice pentito della sua decisione di 13 anni fa, anche se ancora non si riesce a capire se certe sue frasi della scorsa estate («pensavo che sarebbe bastato spendere 10, 20 milioni di sterline ogni anno per rendere stabile il club») siano state una presa in giro o una verità.
Una considerazione finale: ricordate chi fosse il presidente del Nottingham Forest due volte campione d’Europa? O che faccia avessero i Moores, famiglia che con due rami diversi ha avuto la proprietà dell’Everton e del Liverpool? No, a meno che non siate fanatici. Il motivo è semplice: per decenni, a contare nei club erano il segretario e il manager, mentre il presidente era spesso un notabile locale che un po’ per vanagloria un po’ per interesse un po’ per passione immetteva soldi nel club. C’erano probabilmente farabutti e disonesti, ma di loro si sapeva poco.
Con l’arrivo dell’era della Premier League, in cui il profitto è diventato quasi più importante dei risultati, il mondo è cambiato, avvicinando l’ambiente inglese a quello di nazioni di cultura sportiva meno evoluta, come l’Italia ad esempio, da sempre invece ammaliata dalla figura carismatica del padre-padrone: non per nulla, ancora ove non si consideri gli sponsor, nessuno stadio inglese importante porta il nome di un presidente del passato remoto o recente, perché il luogo (Stamford Bridge, Old Trafford, Turf Moor) conta più delle persone. Che passano, positive o negative che siano.