Il calcio porta speranze in una terra falcidiata dal genocidio. Memorie.
Primo marzo 1992, un aspirante Stato, che canta a Occidente e sogna a La Mecca, è costretto a combattere per cucire la propria bandiera. La Bosnia Erzegovina è odiata dai fratelli slavi e croati poiché sostenitrice tra Balcani di un’alba nuova. Il conflitto dura più di tre anni, miete oltre centomila vittime, dissangua Sarajevo e tutto circondario. Guerra funzionale alle super potenze mondiali, che per senso di pietas, portano la pace nell’accordo di Dayton, in Ohio.
Gli orrori del genocidio bosniaco
Novembre 1995, USA e Germania i cerimonieri, Richard Shepard nella pellicola The Hunting Party, il narratore che diffonde la verità sugli eventi. 6 novembre 1996, a Sarajevo si cammina ancora sulle macerie, il ronzio sordo delle bombe tormenta gli slanci di poesia. Ma come cantano gli U2 e Pavarotti in Miss Sarajevo, «C’è un tempo per correre al riparo, c’è un tempo per baciare, c’è un tempo per colori diversi»: sono quelli strabilianti dello Stadio Kosevo, teatro di una festa calcistica, l’amichevole tra Bosnia-Italia.
Il resoconto dell’amichevole di Sarajevo
È ora di pranzo, la nazionale di casa ha un fascino illuminante, come le giovani donne dipinte da Mersad Barber. Hasan Salihamidzić ed Elvir Bolić, dopo aver vestito i panni di calciatori combattenti, regalano un ideale storico alle anime bosniache:
«Se possiamo battere i vicecampioni del mondo per 2-1, i migliori talenti d’Europa, immaginate che risultati incredibili possiamo raggiungere uniti in democrazia». Il poeta Izet Sarajlić sposava i gesti stoici dei due calciatori, e invitava i giovani conterranei a non avere fretta, cantando così:
«La poesia sono le disfatte.
Alla fine vi hanno aspettato, forse, davvero le rose,
ma per molto tempo – a destra e a sinistra – ci sono le spine».
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