Un premio divenuto fatiscente, triste, di second'ordine.
Quando il Pallone d’oro fu istituito, nel ’54 ad opera di Hanot e dei suoi colleghi di France Football, in pochi potevano immaginare che la sfera a pentagoni placcata in oro sarebbe divenuto il premio individuale più ambito nel mondo dello sport. Come la coppa con l’ananas di Wimbledon per un tennista—il Gentlemen’s Singles Trophy placcato in silver gilt— il ballon d’or transalpino ha rappresentato per decenni l’acme di una carriera individuale: vincerlo significava essersi consacrati alla storia.
Tra i macellai si può certamente trovare della brava gente, ma una certa rudezza è inseparabile dal loro mestiere, fa parte della loro professione. Accade di peggio con l’essere giornalista: un certo grado di disonestà è inseparabile perfino dal più onesto giornalista. (Søren Kierkegaard)
Un premio dal rigido regolamento: solo i più esperti (sic!) giornalisti avevan diritto di eleggere il calciatore europeo dell’anno. Nel 1994 cadde il criterio geografico, potendo nominare calciatori extraeuropei. Nel 2007 infine fu eliminata, de iure, la discriminante legata al club di provenienza dell’atleta, non più Uefa ma aperto ad ogni affiliato Fifa. Da qui l’inizio di una serie di contraddizioni interne oggi arrivate al limite.
Nel 1991 la Fifa, nel tentativo di conferire istituzionalità al progetto, aveva creato lo scialbo ed insipido World Player of the Year con il risultato di un insensato dualismo mediatico tra due premi gemelli. Il riconoscimento aveva dalla sua il criterio di assegnazione: non erano i giornalisti a partecipare alle votazione bensì i CT ed i capitani di ciascuna nazionale, nonché i rappresentanti del Fifpro, l’assocalciatori globale. Così nel 2010 i due premi si fusero nell’indigesto FIFA Ballon d’Or, organizzato e promosso dalla premiata ditta France Football-FIFA di Blatter, votato da sedicenti esperti ed addetti ai lavori.
Primo tentativo nel 2010 e primo pastrocchio: viene premiato Lionel Messi e non l’hombre de la historia, Andrés Iniesta, unanimemente riconosciuto come il miglior calciatore della stagione. Nelle sei edizioni in cui è esistito, il neoistituito premio non ha fatto altro che perorare la causa mediatica del duopolio Messi-Ronaldo. I due assi hanno segnato il decennio, e su questo non si può dubitare, ma la suggestione che il premio risponda a logiche di marketing e non all’effettiva stagione disputata ormai prende sempre più piede.
La stagione di Messi è stata, ça va sans dire, strabiliante come di consueto con 51 reti in 50 presenze, la Pulga ha inoltre raggiunto la 600ma marcatura con la maglia blaugrana nella semifinale di andata di Champions contro il Liverpool, siglando un sensazionale calcio di punizione da 35 metri contro Allison.
Proprio l’ex romanista pareva papabile ad interrompere la maledizione di Yashin, ed onorare con il premio di miglior giocatore dell’anno un portiere: il brasiliano ha giocato una stagione perfetta difendendo i pali di Anfield, vincendo la Coppa dei Campioni e la Copa America con la Seleção. Per non parlare di Van Dijk, autore di una stagione memorabile sotto tutti i profili di valutazione. Dagli 0 dribbling subiti alla imbarazzante superiorità fisica, tattica, caratteriale: impossibile che un difensore si spinga oltre il rendimento dell’olandese versione 2019.
Si percepisce la sensazione di colpa nell’aver premiato Modric nella scorsa edizione, come se si fosse commesso un errore ad infrangere l’incantesimo di una rivalità ormai obesa, caricatura di se stessa ed alimentata da una narrativa il più delle volte stucchevole. Il Pallone d’oro è un premio stanco e codardo, figlio di una formula finta nonché disonesta. Un hotel di provincia che ha perso ogni forma di mistero, autorevolezza e giustizia.