Il legame con Partenope, la sua squadra e il più grande di tutti.
Il sole si nasconde tra le dune del Vesuvio. Le nuvole dietro il cratere si tingono di un rosa intenso. Sembrano fenicotteri che planano sul mare. Dal basso spunta uno scoglio dalla forma ricurva che si tuffa nelle acque. Le barche ondeggiano tra le correnti del Golfo ammirando il gigante di fuoco. Ai piedi del vulcano la città riprende fiato prima di un’altra notte di passione. Una donna, Titti il suo nome, appare in posa disinvolta con la mano dietro la nuca. Gli occhiali poggiati sul capo e il vestito casalingo, rosa con due palme sul petto, suggeriscono un istante strappato all’intimità, riposta nelle quattro mura che sbucano dal Pallonetto di Santa Lucia.
Sul corpo due tatuaggi: una ragnatela sul gomito destro e un delfino che accarezza le onde sul braccio sinistro. Il sorriso e lo sguardo quasi sorpreso disegnano le rughe dell’età che avanza. Non è giovanissima né anziana, Titti. Spalle larghe, un abito bianco appeso al bordo della finestra. Le tende spalancate assomigliano ad un sipario aperto. Sul palco va in scena una straordinaria normalità. Gli occhi di Paolo Sorrentino tornano nei luoghi del cuore immortalando momenti di ordinaria quotidianità. Il regista ha voluto raccontare la sua Napoli attraverso una serie di scatti postati su Instagram. Tramonto con vista Vesuvio ma anche Capri, costiera amalfitana e calcio: una bacheca di maglie del Napoli esposte sopra i tavoli di un locale e una foto rubata al cimitero di Fuorigrotta.
Davanti alle lapidi si vede un cassonetto fucsia con la scritta “Juve Merda”.
Napoli abbraccia la goliardia in ogni dove. Il rapporto che lega Sorrentino a Napoli è assai complesso. Il regista è impegnato sul set di un film che ha definito “intimo e personale”. Sarà ambientato nei luoghi della sua infanzia, tra il quartiere Vomero e il lungomare Caracciolo. Si chiamerà È stata la mano di Dio, una sintesi ideale di quello che rappresenta Napoli per Sorrentino: Diego Armando Maradona. Per il regista premio Oscar il calcio è paragonabile ad una vera e propria forma d’arte: «Per me l’arte sta dappertutto. Nella musica come nel calcio», ha dichiarato in un’intervista a Giornalettismo. Il calcio come il cinema:
“La partita ha molto in comune con il film. Narrazione, tecniche, tattiche e un finale non scontato che nessuno conosce. Il calcio è una bella variazione del cinema”.
Nella filmografia di Sorrentino non mancano omaggi al pallone e all’arte maradoniana. Il film d’esordio, il sorprendente L’uomo in più del 2001, è ambientato a Napoli nei gloriosi anni ‘80 (quelli di Maradona ma anche di Platini, Van Basten, Zico e Rummenigge), e racconta di due personaggi, Antonio Pisapia (Andrea Renzi) e Tony Pisapia (Toni Servillo), costretti a fare i conti con il declino delle rispettive vite e carriere. Antonio è uno stopper di lungo corso che decide di intraprendere la carriera da allenatore dopo un brutto infortunio. Il suo calcio è marcatura a zona, pressing alto e un inedito rombo d’attacco: il trequartista dietro la punta e le ali, piuttosto vicini tra loro per agevolare i triangoli e le linee di passaggio.
Paolo Sorrentino avvolto dal fumo del suo sigaro
Idee innovative, con quattro attaccanti anziché tre (“un uomo in più”, appunto), che lo convincono a candidarsi con insistenza come allenatore della sua ex squadra. Ma nonostante le promesse del presidente, su quella panchina non siederà mai. Turbato dal matrimonio naufragato e da una sempre più insistente ossessione per il suo calcio, Pisapia muore suicida dopo l’ennesimo rifiuto da parte del suo ex presidente, che lo respinge con la frase più significativa del film: “Penso che il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste”.
Tony Pisapia, cantante di musica leggera, è un personaggio profondamente diverso da Antonio. Estroverso, eccentrico, donnaiolo e col vizio del fumo e della cocaina, vive in un universo parallelo rispetto al coprotagonista. La carriera di Pisapia viene devastata dall’arresto con l’accusa di violenza sessuale su minore. Precipitato nel vortice della coca e della solitudine, Tony va a caccia di ingaggi per rilanciarsi dopo lo scandalo a luci rosse. Tornato sul palco in una desolante piazza di un paesino d’Abruzzo, decide di chiudere per sempre con la musica. Di ritorno a Napoli, incrocia al mercato proprio Antonio Pisapia: i due si scrutano da lontano, si instaura un legame invisibile. Una volta saputo del suicidio, Tony si fionda nello studio del presidente (che aveva liquidato Antonio per l’ennesima volta) e lo uccide. Il film termina con il monologo del cantante durante un’intervista televisiva:
“Io ho sempre amato la libertà. E voi non sapete manco che cazzo significa. Io ho sempre amato la libertà. Io sono un uomo libero”.
Toni Servillo nei panni di Tony Pisapia nel film “L’uomo in più”
Sono molteplici le chiavi di lettura che emergono dalla prima pellicola di Sorrentino (che segna peraltro l’inizio del sodalizio con Toni Servillo). Il regista propone per la prima volta una velata malinconia che emergerà anche nei lavori successivi.
“Avere malinconia, cioè una sensazione di tristezza per un motivo che non conosci, è un buon movente per provare a creare qualcosa di buono”, ha detto in occasione del TEDx di Reggio Emilia.
Nell’universo sorrentiniano la malinconia si lega ad altri temi che hanno contraddistinto la vita del regista: tra i suoi film «c’è un filo rosso e alcuni sentimenti dominanti, la malinconia, la nostalgia e il rapporto con la solitudine», spiega a La Stampa. La solitudine ha accompagnato Sorrentino per gran parte della sua vita, specie negli anni della giovinezza: «Per una serie di motivi la gioventù l’ho attraversata solo anagraficamente, ma non l’ho vissuta pienamente. La immagino», ha confessato a Sky Tg24. E ancora:
“Ho nostalgia di quell’età in generale. Dove il futuro ha un significato importante e il tempo sembra essere dilatato. Ho nostalgia della speranza che si ha quando si è giovani”.
L’uomo in più scava nel passato di Sorrentino portando alla luce il suo legame con Napoli e il calcio. A Napoli tutto ruota attorno al pallone. Nel film il calcio colloca il proprio universo al centro della narrazione, sfondando il muro che lo confina ad un semplice gioco.
Il personaggio di Antonio Pisapia si ispira all’ex capitano della Roma Agostino Di Bartolomei, morto suicida il 30 maggio 1994 all’età di 39 anni. Lo sport portatore di antichi valori e sogni genuini, ma che sa essere duro quanto la vita. Anche da questo emerge la centralità del calcio nella vita dell’individuo. «L’uomo in più – ha ricordato Sorrentino in un omaggio del 2014 dedicato a Di Bartolomei – non ha la pretesa di descrivere la sua storia, ma in qualche misura si ispira alla sua figura. È infatti alla sua serietà e intelligenza, alla sua caratura morale, alla sua passione e dedizione alla professione che ho pensato nel presentare la vita di uno dei protagonisti»..
Il calcio a Napoli conduce a Fuorigrotta, dove sorge lo Stadio San Paolo. Il pallone è una liturgia e il Napoli è il rifugio di un popolo sognatore e alla costante ricerca di rivalsa. A Napoli non esiste un Inter-Milan, un Roma-Lazio o un Juventus-Torino. Napoli e gli Azzurri rappresentano un’unica entità. Il Napoli, società calcistica fondata soltanto nel 1926 per volere di un giovane industriale napoletano di origine ebraica, Giorgio Ascarelli, è la sintesi estrema dei concetti di calcio e napoletanità. Rappresenta il vessillo dell’orgoglio partenopeo. Nonostante le diverse dominazioni succedutesi nella ricca storia napoletana, la città ha mantenuto intatto quel profondo senso di appartenenza che la contraddistingue nel panorama nazionale e non solo.
La straordinaria cultura napoletana abbraccia le radici dell’antica Grecia ma anche le influenze spagnole, angioine e borboniche. Il mix di culture diverse ha conferito a Napoli il titolo di una delle capitali europee nel periodo dell’umanesimo e del rinascimento. Ogni quartiere custodisce tesori del passato, il Golfo conserva molteplici omaggi alla storia della città. Tante influenze che non hanno scalfito l’essenza della napoletanità.
Il Golfo di Napoli è dolcezza e poesia
Lo scrittore napoletano Luciano De Crescenzo sosteneva che Napoli «non è la città di Napoli, ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, napoletane e no». E ancora: «Napoli non è una città, è un mondo. Napoli non è solo a Napoli ma la trovi ovunque, anche in Germania. La napoletanità è una cosa unica». Paolo Sorrentino è soltanto l’ultimo rampollo della dinastia partenopea. Il regista costituisce un ulteriore elemento di continuità tra Napoli e l’arte, nel segno della pura napoletanità. Il suo cinema è il cinema di Napoli. Un legame indissolubile, che unisce la città ai suoi figli prediletti:
“Non ci si libera per nessun motivo al mondo dall’origine, dalle proprie radici”, sostiene Sorrentino.
Il suo rapporto con Napoli è ogni giorno più intenso. «Quando sono andato via e mi sono trasferito a Roma – continua il premio Oscar a Sky Tg24 – c’era disinteresse, ora ho una gran voglia di tornarci. Alla fine credo si faccia un gran cerchio nella vita: si parte da un punto, si va in un altro, per poi tornare sempre all’origine». Sorrentino è una delle stelle del firmamento che veglia sul Vesuvio. Prima di lui Totò, Massimo Troisi, Benedetto Croce, Giambattista Vico, Sophia Loren e Diego Armando Maradona. Non è un caso che uno dei più grandi artisti nella storia del fútbol (per alcuni il più grande) abbia legato il proprio nome a quello della città di Napoli, così satura di genio e maestosità. Se è vero che Napoli è una componente dell’animo umano, Maradona ha impersonificato molteplici sfumature del carattere partenopeo.
Così come Antonio e Tony Pisapia, Maradona è ascesa e declino. L’arrivo al San Paolo da Messia, poi l’apoteosi e infine il crollo. La cocaina a fare da spartiacque tra la gloria e l’abisso, a riportare in auge i fantasmi del passato, dalla baraccopoli di Villa Fiorito fino agli eccessi nel vecchio continente. Maradona ha saputo rialzarsi grazie al suo calcio caravaggesco, sospinto da un popolo intero che lo ha eletto a proprio simbolo. Maradona arrivò in una piazza che nutriva sentimenti di rivalsa nei confronti delle squadre del nord. Napoli ribolliva di una rabbia celata dietro il folclore e la passione di una città impoverita, che ambiva alla ricchezza e al potere settentrionale.
Nei suoi primi 58 anni di storia (fino al 1984), gli azzurri non avevano mai vinto né uno scudetto né un titolo europeo. Nel palmares luccicavano appena due coppe Italia e una vecchia Coppa delle Alpi. L’arrivo di Maradona era visto come una seconda venuta del Cristo Redentore. O come il nuovo Masaniello che guida la rivolta napoletana del Seicento contro la pressione fiscale imposta dal viceré spagnolo: Diego ha guidato un popolo, deriso ed emarginato, in una ribellione sportiva e sociale. I due scudetti dell’era Maradona rappresentano il Risorgimento partenopeo del XX secolo. Diego ha trascinato Napoli e i napoletani verso la stagione della rinascita.
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La giovinezza di Sorrentino, oltre che dal Napoli e da Maradona, è segnata dal dramma per la morte dei genitori. Una tragedia, quella in cui morirono papà Salvatore e mamma Concetta, che fa in qualche modo da trait d’union tra Diego e Sorrentino.
“A me Maradona ha salvato la vita”, ha rivelato al Corriere della Sera.
«Da due anni chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare il week end in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo». Poi finalmente si convinse, Paolo sarebbe partito per Empoli-Napoli. «Citofonò il portiere – ricorda – Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente». I genitori erano morti soffocati nel sonno, per colpa di una stufa. Sorrentino aveva 16 anni. Il Napoli e Maradona lo avevano salvato dalla morte.
Le vicende di Maradona, nel bene e nel male paragonabili a quelle della città, rappresentano una delle costanti nella filmografia sorrentiniana. La stessa solitudine e malinconia, vissuta da Diego (oltre che da Sorrentino) nel periodo più buio della sua permanenza a Napoli, rappresentano temi intrinsechi nel cinema di Sorrentino. L’omaggio più grande a Diego Maradona, Sorrentino lo riserva in Youth – La giovinezza del 2015. Nella casa di riposo svizzera che ospita una coppia di anziani (interpretati da Michael Caine e Harvey Keitel), c’è anche Diego Armando Maradona. L’ex Pibe de oro è obeso, fatica a deambulare e respira con affanno. Il Maradona di Sorrentino, interpretato dall’attore argentino Roly Serrano, è goffo e sofferente. Porta sul corpo i retaggi di un passato glorioso e burrascoso. Insegue una nuova giovinezza ricordando i trascorsi che lo hanno consegnato alla leggenda.
Il film ruota attorno al trascorrere inesorabile del tempo. Il tempo è il vero protagonista della pellicola. «Ma, a qualsiasi età, – spiega Sorrentino – se si riesce a mantenere uno sguardo sul futuro si può essere giovani. Per questo è un film molto ottimista». Anche la figura di Maradona è inserita nella riflessione sulla caducità della vita. “A cosa pensi?”, chiede a Diego la donna che lo assiste. “Al futuro”, risponde il Pibe mentre scorrono le immagini di un giovane Maradona con indosso la ‘10’ dell’Argentina. Il colore blu della maglia, anziché il classico albiceleste, fa riferimento al momento apicale della vita di Maradona, vale a dire la leggendaria sfida contro l’Inghilterra a Messico ‘86 (quella della mano de dios e del “gol del secolo”). Subito dopo Diego indugia sul piede mancino, più vicino al dono divino che alla morfologia umana.
Maradona in “Youth”. Di certo non uno spettacolo per gli occhi…
È quella la sua eterna giovinezza: il futuro riposto nella magnificenza del passato, più forte anche dell’avanzare del tempo. La giovinezza di Maradona riemerge nella scena cult del film, quella in cui Diego palleggia indomito con una pallina da tennis. I movimenti goffi e il respiro affannoso testimoniano il logorio del corpo. La classe con la quale il Maradona obeso si destreggia ricorda i fasti del passato. Ma è proprio l’essere indomito di Diego che rappresenta la speranza di un futuro nuovo e migliore.
Il legame che unisce Sorrentino a Maradona è talmente forte da riaffiorare nel momento più importante nella vita del regista. Nella notte degli Oscar 2014, dopo aver riportato, con La grande bellezza, la statuetta in Italia 15 anni dopo La vita è bella di Roberto Benigni, Sorrentino ringrazia le “sue fonti d’ispirazione”: i Talking Heads, Federico Fellini, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona. Se il cinema è arte che racconta l’arte, non sembra così inusuale che il nome di Maradona risuoni dal palcoscenico dei Premi Oscar.
«Nel mio immaginario Maradona è il più grande facitore di spettacolo che sia mai apparso da molti anni a questa parte», ha confessato Sorrentino aRepubblica, «Il cinema è spettacolo e allora mi è venuto facile fare una corrispondenza tra Maradona e il cinema». Maradona è il primo contatto con l’arte.
Sorrentino ha trovato in Diego il ponte che ha unito la napoletanità con la magia del cinema ma anche del racconto e della poesia. Maradona ha una duplice valenza nella vita di Sorrentino: ha ricoperto un ruolo salvifico nella tragedia e si è rivelato preziosa ispirazione per alcuni dei capolavori che hanno segnato la carriera del premio Oscar. Ma Maradona è molto di più. A Italia-Argentina del 1990 Sorrentino ha dichiarato di aver tifato per gli ospiti. Perché? Semplice: «Non puoi tifare contro l’uomo che ti ha salvato la vita».