Storie
03 Aprile 2020

Pasolini, Bertolucci e un pallone

Come il calcio può rompere l'incantesimo del cinema.

Questo fondo non vuole essere una visione, puramente gossippara, di un evento (non proprio marginale) che cambiò in meglio o in peggio la storia del cinema italiano. Siamo su uno sferisterio parmense, giocano due squadre, i patrocinatori: Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci. Il pre-partita lo racconta E. Siciliano, grande amico di PPP, ne La vita di Pier Paolo Pasolini (per i tipi Mondadori, p.501):

“ […] Non lontano, a pochi metri, nella campagna parmigiana, Bernardo Bertolucci girava Novecento. A Pier Paolo non era piaciuto Ultimo tango a Parigi: ne aveva parlato in termini eccessivamente critici. Lo giudicava un cedimento di Bertolucci al cinema commerciale. Frizioni, rivalità avevano incrinato l’antico rapporto fra maestro e allievo: per qualche tempo Bernardo e Paolo avevano cercato di non incontrarsi. Adesso si trovavano vicini, entrambi impegnati nel lavoro. Laura Betti faceva parte del cast di Novecento. I due film erano prodotti da Alberto Grimaldi. Le due troupes si sfidarono in una partita di calcio. Pier Paolo giocò […]».

Era il 1975: Pasolini – che da lì a poco avrebbe raggiunto i campi elisi, Dio l’abbia in gloria – stava girando il suo ultimo “scandaloso” film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, prendendo spunto dal suo eponimo sadiano. Anche Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio, si trovava lì per girare il suo film capolavoro: Novecento . Bertolucci non era un grande sportivo, il suo maestro Pasolini sì. A Enzo Biagi, d’altronde, PPP confessò: «Senza cinema? Mi sarebbe piaciuto diventare un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il futbol è uno dei grandi piaceri».

 

Pasolini considerava effettivamente il calcio come la metafora liberatoria della sua vita. Qui forse si può incentrare il discorso di una sua meta-sportività, a prescindere dal tifo sportivo: si perché PPP era appassionato del Bologna di Reguzzoni e Andreolo, si entusiasmava nel vederli giocare ma da lì percepiva qualcosa in più, un ché di spirituale, di metafisico, appunto di liberatorio.

 

Pasolini intervista i giocatori del Bologna (1964), parlando di “libertà” con un vizio forse ancora troppo intellettuale e “politico”: chissà se questa intervista la avrebbe realizzata anche anni dopo

 

Pasolini crebbe sotto il fascismo: fu capitano della facoltà di lettere e raccontò anche di aver vinto i “Littoriali” (dal libro di Siciliano). Era una mezz’ala. Dalle foto che lo ritraggono in azione, si percepisce – anche ad occhio nudo – la sua voglia di liberarsi, di rompere quell’incantesimo del chiaroscuro esistenziale per poter lambire davvero gli orizzonti della vita. In quella fisicità emergeva verità, non paccottiglia scenica. Questo, quindi, il contrasto che in senso lato Eupalla provocò in lui, giocare con il set per esautorare il cinema, per “liberarlo”. Gioco che farà in tutti i suoi film, a partire da Accatone fino a Salò.

 

Novecento e Centoventi, due film girati nella stessa zona. Un film esaltava la vita di Olmo e Dalcò; l’altro analizzava gli atteggiamenti violenti dell’anarchia del potere, che si consumava in una cascina vicino allo sferisterio. Erano due set, trattavano diverse tematiche, ma i due registi decisero di vedersi un giorno, di liberarsi dall’incantesimo intruppante del cinema. Non volendo, realizzarono un set dove il protagonista non era la macchina da presa bensì la palla.

Due squadre, una partita, un set. L’incantesimo del cinema è stato rotto.

Bertolucci non giocò ma tifò per i suoi attori, macchinisti e fuochisti; Pasolini, viceversa, volle scendere in campo con la sua squadra “Centoventi”. I calciatori del primo sfoggiavano una mise viola, mentre quelli di PPP indossavano la divisa del Bologna. Due squadre, una partita, un set.

 

L’incantesimo del cinema era stato rotto: Pasolini con le sue movenze da sirtako, con delle prodezze che ricordavano il miglior Pascutti, aveva restituito (involontariamente) alla realtà quel set da loro costituito. Vinse Bertolucci, 5-2. Pasolini era arrabbiato ma contento, come Leopardi quando vide Didimi: aveva ritrovato un amico, e aveva rotto il chiaroscuro del mondo cinematografico italiano almeno per un’ora.

 

L’ineffabile potere liberatorio di un pallone

 

Le immagini di quella partita sono stati raccontate da due bravi documentaristi: Alessandro Scillitani e Alessandro di Nuzzo. Centoventi contro Novecento, così si chiama il docufilm, racconta di quegli attimi, concitati ed ipnotici. E quei frame sono così concitati ed ipnotici proprio perché hanno rotto l’incantesimo del cinema, creando un set involontario dove l’immagine è finalmente restituita alla realtà. Dove le movenze di Pasolini e i gol dei Novecento simboleggiano un momento di alto cinema, di vero cinema.

 

Non c’era tecnica ma l’aspetto commovente, liberatorio, della partita sta proprio in questo: liberarsi dell’anarchia dell’ordine. Ecco il merito del documentario, aver restituito quello che probabilmente era lo spirito e l’intento di Pasolini. Certamente era una partitella, tuttavia aveva rotto gli schemi imposti dal cinema trovando nuovi orizzonti meta sportivi e una sua extraordinarietà (Bene docet). C’erano due squadre in quella partita che non scherzavano in modo adulto ma giocavano in modo bambino. PPP forse il più bambino di tutti, si divertiva, a dispetto della macchina da presa, rincorrendo la palla, facendo prodezze.

“Ho fatto nove film con lui e mentre si girava, ad ogni pausa, Pier Paolo spegneva la cinepresa e accendeva una partitella. Rinunciava a qualsiasi impegno se c’era la possibilità di andare a giocare” (così ricorda Ninetto Davoli)

Il giocare fa parte a pieno titolo di una vera partita di calcio, che entra in contrasto con le risibili goleade odierne, oppio per i più. Non ci sono oggi goleador che giocano, ci sono goleador che scherzano, vittime di quell’anarchia dell’ordine che ingloba, come il cinema o meglio un certo tipo di cinema. Eupalla può fare quindi da contrasto a quel cinema strano, che ingloba, che ingabbia, che non rompe gli schemi giocando. Sosteneva J.Luc Godard , «Il cinema è il contrario della cultura»: in questo caso si, perché il cinema di paccottiglia è stato esautorato.

 

Non esiste soltanto l’eu-palla quindi ma sicuramente anche l’eu-cinema, perché nel bene e nel bello c’è poesia (a detta di molti post-socratici). Il cinema e il calcio si esautorano a vicenda, riacquistando una natura bambina, facendo passare per poesia pura anche un semplice passaggio. La poesia nel cinema e nel calcio rompe le gabbie esistenziali, colorando la nostra esistenza in contrasto con – l’altrettanto nostro – chiaroscuro esistenziale. Del resto Pasolini era solito dire: «per me il più grande poeta è il capocannoniere».

 

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