Il film di James Mangold è pura epica contemporanea.
Raccontare il motorsport attraverso il cinema è impresa difficile, troppo intensa e coinvolgente la realtà della gara per poterla trasferire con successo nella pellicola, troppo complesse le dinamiche del paddock per essere rese comprensibili ad un grande pubblico. É arduo rendere l’epicità di questo sport senza averlo vissuto sulla propria pelle.
Nel recente passato ci hanno provato Ron Howard con Rush e Andrea Marini con lo splendido Ferrari 312B. Nel 2019 è arrivato il turno di un “blockbuster”. Il regista newyorkese James Mangold ha preso la rivalità storica tra Ford e Ferrari e ha raccontato la leggenda di due uomini, Carroll Shelby e Ken Miles, che hanno portato il colosso americano dell’ovale blu a trionfare nell’automobilismo sportivo mondiale: questo è Le Mans ’66.
La storia vuole che a far nascere la rivalità furono i destini incrociati delle due case costruttrici: Ferrari era in cerca di capitali per uscire dal pericolo fallimento e Ford, nella volontà di rilanciare le vendite e quindi di riposizionare il marchio, aveva bisogno di un reparto corse vincente. Enzo portò avanti le trattative con gli americani al punto che un comitato di manager Ford si presentò di persona a Maranello con i contratti pronti.
Non è dato sapere se questo avvicinamento, comunque concreto, sia stato solo un bluff del Commendatore per alzare la posta sull’altro tavolo, il tavolo FIAT degli Agnelli, ma è documentato il fatto che Enzo interruppe bruscamente tutti i discorsi, si alzò dalla scrivania e andò a mangiare delle tagliatelle al prosciutto non prima di aver inveito contro gli americani, dopo che gli comunicarono che non avrebbe avuto il controllo nemmeno sul futuro reparto corse Ford-Ferrari. E’ soprattutto qui che il film è piacevole e inizia a coinvolgere, con l’inevitabile reazione di the Deuce Ford II al rientro fallimentare dei suoi: “la squadra ce la facciamo da soli”.
Il film è un insieme di storiografia e semplificazioni letterarie e il rischio che la vicenda cinematografica prendesse una piega propagandistica a stelle e strisce era forte. Al contrario, questo rischio è stato temperato dalla centralità del rapporto umano Shelby/Miles, un rapporto triangolato con il più ampio coinvolgimento degli yesman del comitato Ford. Inizia dunque la serie di assegni in bianco che Henry II permette di staccare al reparto marketing per realizzare una macchina che battesse il dominio italiano a Le Mans.
Il cursus honorum della giovane ma già pluridecorata Scuderia Ferrari potrebbe far sembrare questa sfida degna di Davide contro Golia per la Ford, ma la realtà dei capitali a disposizione all’epoca capovolgeva a tutti gli effetti i rapporti di forza. Cronaca vuole che fu individuato nel prototipo inglese Lola GT la base di partenza per il progetto GT40. All’interno di questo quadro l’unico consapevole che non tutto fosse acquistabile, leggasi esperienza e pedigree, è il preparatore, ed ex pilota militare, Carroll Shelby: un Matt Damon di altissimo livello. Christian Bale, invece, è magistrale nel ruolo di Ken Miles: eccentrico e spigoloso pilota vecchia scuola, benedetto da un talento cristallino.
La campagna d’Europa di Ford, dalla quale viene escluso proprio Ken Miles per motivi “di marketing”,a sottolineare la dicotomia tra cattivi colletti bianchi e spiriti purosangue, solito classico nei confini del cinema, fallisce al primo tentativo. Nel 1964 la macchina era ancora inguidabile e inaffidabile. Il 1965 è un altro disastro per gli americani, ma nel film viene comprensibilmente omesso. E’ in questa fase che lo spettatore può capire quanto la sfida fordiana lanciata agli italiani fosse sentita: Henry II, motivando Shelby a continuare nel progetto, lo spinge a comprendere che la questione andava oltre l’aspetto sportivo e aveva ormai assunto connotati politici. C’era la necessità di vincere, nell’ottica di quella egemonia culturale ed economica da perpetrare anche attraverso il motorsport.
A quel punto Shelby assume il comando diretto del reparto corse e il lavoro di sviluppo sulla GT40 prosegue a ritmi elevatissimi anche dal punto di vista tecnologico, con l’introduzione di sistemi informatici per simulare gli stress della gara di 24 ore. In questo frangente risalta una scena di grandissimo valore per gli appassionati e non del tema corse: Carroll Shelby, con il pretesto di portare Henry II in persona a bordo del suo costosissimo progetto per un giro in pista, fa addirittura scoppiare in lacrime il burbero presidente, “l’indiavolato” come lo chiamano i suoi fedelissimi, che in una crisi tra terrore e estasi prova cosa significhi l’emozione della guida e della velocità su un’auto da corsa. Il messaggio è chiaro: fare il pilota non è roba per tutti. Chi va forte non può essere rimpiazzato. Ergo, Ken Miles sarebbe dovuto andare a Le Mans.
Così nacque l’impresa riuscita di Ford contro Ferrari, un trionfo che si compie al terzo tentativo: sarà addirittura tripletta nel 1966, i prototipi P3 del Drake, non automobili, badate bene, ma vere e proprie opere d’arte, sono battuti. Shelby e Miles hanno vinto la loro più importante battaglia scrivendo un pezzo di storia USA. Le Ford domineranno nei successivi 3 anni consecutivamente la 24 ore più famosa del mondo.
Morale della storia? Non c’è, e se c’è non è chiara. Non ci può essere una morale in una storia di motorsport, quanto di più irrazionale che il mondo moderno abbia mai partorito. A maggior ragione non c’è in questa storia: Miles morirà poco tempo dopo durante un test di sviluppo della GT40. Ci rimane oggi impresso il leggendario valore umano delle imprese di chi, come Ken Miles, si è spinto all’estremo fino all’ultimo sospiro.