Lo scriveva già quel geniaccio profetico di Nietzsche quasi un secolo e mezzo fa: il Dio cristiano, e a cascata tutto il mondo che stava a rappresentare, sarebbe inevitabilmente morto di compassione. Tradotto, l’Occidente stesso era destinato a morire di compassione. Ci si potrebbe interrogare sul perché, forse in una religione in cui Dio si fa uomo è fisiologico che alla lunga la dottrina stessa si infiacchisca per troppa debolezza, per troppa umanità, per troppo amore verso gli uomini, mentre laddove Dio resta lontano, austero, oscuro (come per l’ebraismo o l’Islam) il processo di corruzione è più complesso.
È nel chiaroscuro che segue al tramonto del vecchio Occidente però – un processo né buono né cattivo, che non va valutato su base morale ma registrato come un fenomeno storico – e nel luogo che più di tutti capeggia il processo di dissoluzione di forme e contenuti del vecchio Occidente, ovvero (una parte de) gli Stati Uniti d’America, beh è che qui nascono, se non i mostri come diceva Gramsci, le manifestazioni più visibili della malattia senile occidentale, quella che sbatte i piedi e picchia i pugni per affermare la sua verità universale: io sono ciò che mi sento.
Non intendiamo qui riferirci alla polemica sull’atleta Khelif, neo medaglia d’oro, e ad un dibattito che raramente si è rivelato così asfissiante e grottesco da una parte e dall’altra, tra bufalatori e sbufalatori. Perché i Giochi di Parigi ci hanno offerto altre storie che hanno catturato l’attenzione e incassato consensi, come quella di Raven Saunders, pesista non binaria e paladina dei “diritti di tutti gli oppressi”, una centrifuga con talmente tanti ingredienti da risultare indigesta: «non mi chiamate né lui né lei bensì loro», ha fatto sapere Raven. E sulla scia Aarti Parekh, portavoce della federatletica Usa:
«Da noi si usa così, se una persona non si riconosce nello “he” o nello “she”, si usa la terza persona plurale. Non è questione di accettare o meno, è semplicemente così: conta la volontà della persona e noi ci adeguiamo, perché è giusto farlo».
È il mondo della percezione come verità rivelata, dei diritti e delle volontà; tutto cultura e niente natura, tutto psicologia e niente biologia. Laddove anche la scienza – orientata, perché in fondo la scienza in sé non esiste, esiste un metodo scientifico che chi dovrebbe applicare smentisce giorno dopo giorno – diventa ideologia. Contro qualsiasi limite che si pone all’individuo (religioso, etico, naturale, biologico) è il percepito che oggi scrive e descrive la realtà, e ci sarà sempre una presunta evidenza scientifica, inevitabilmente in contrasto con un’altra, a confermarci che i sessi non sono solo due o che nel pugilato femminile, come spiegato da una ricerca della IAAF, non si avrebbe alcun vantaggio dai livelli ormonali alterati e da una maggiore presenza di testosterone, come invece per altre discipline.
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Fatto sta che Raven Sanders, capelli mezzi viola e mezzi verdi, occhiali da sole con le lenti gialle, denti d’oro e maschera total black sul volto (negli anni passati aveva indossato quella di Joker, di Hulk, di uno scheletro messicano etc.), ieri finalista ma senza medaglia nell’ultimo atto parigino del lancio del peso femminile, è diventata una vera e propria icona di sensibilizzazione che intende trasmettere messaggi politici per “tutte le persone oppresse”. Da qui il suo gesto di incrociare le braccia sopra la testa sul podio di Tokyo, in cui era stata medaglia d’argento, mimando una lettera X:
“È l’intersezione in cui si incontrano le persone oppresse”, disse.
A partire dalle tre ‘comunità’ a cui appartiene e che intende valorizzare: la comunità LGBTQIAPK+ (Lesbians, Gay, Bisexual, Transgender, Queer/Questioning, Intersex, Asexual, Pansexual/Polyamorous, Kink, sigla in aggiornamento), la comunità afroamericana e nera in generale e la comunità, se così si può definire, delle persone che combattono per la propria salute mentale. È stato proprio questo ultimo aspetto, nel mondo della compassione come unico criterio di valutazione, pure dello sport, ad averla resa una storia esemplare.
Anni fa infatti Raven Saunders aveva pensato al suicidio, e solo un colloquio con una psicoterapeuta dell’università, dice, l’avrebbe fatta rinsavire. Da qui la diagnosi – “Depressione, ansia grave e sindrome da stress post-traumatico” – e il ricovero in un centro specializzato per pazienti con problemi mentali. Poi, ‘la risalita dall’inferno’, una delle classiche espressioni di cui la narrazione abusa per casi del genere, per dargli quel tocco di shock ed emotività strappaclick imprescindibile.
Il problema è che ormai, e solo su queste colonne di libertà probabilmente si può dire l’indicibile senza scadere nel Bar sport, quello dei disturbi mentali è diventato un passe-partout per rendere edificabile ed esemplare qualsiasi storia, neutralizzare ogni tipo di critica, laddove chiunque abbia vissuto certe situazioni non può automaticamente essere discusso perché ‘solo chi ci è passato può capire’. È l’acme della compassione come metro interpretativo della realtà, per cui le persone con disturbi mentali vengono trattate alla stregua di una specie in via d’estinzione, una categoria iper-protetta che per evitare gravi danni non si può nemmeno sfiorare da lontano.
Anziché interrogarsi sul motivo per cui nelle nostre società, sulla carta le più progredite ed evolute di sempre, quelle con il maggior livello di benessere, esplodano i disturbi psichici ed aumentino anno dopo anno i consumi di antidepressivi e psicofarmaci, trattiamo invece questa ‘categoria’ di persone come dei malati terminali (malgrado le diagnosi siano spesso vaghe e contraddittorie) o come se fossero ordigni ambulanti inesplosi, credendo che possano deflagrare appena toccati. Questo non fa altro che esorcizzare il problema, anche se probabilmente non è questa la sede adatta per parlarne.
L’unica certezza è che la narrazione da specie protetta, che tra l’altro mischia il politico e lo psicologico, le battaglie per la salute mentale con quelle ‘civili’ di riconoscimento ed emancipazione, ebbene questa narrazione compassionevole da libro cuore che è stata fatta (anche) su Raven Saunders è inutilmente autoassolutoria e a tratti grottesca. Come quando all’inizio di questi Giochi il telecronista Bbc, l’ex giavellottista inglese Steve Backley, ha detto parlando di Saunders «è bello rivederla», ma subito la collega Jazmine Sawyers lo ha dovuto correggere:
«Sì, siamo abituati a vederli con questa maschera: loro sono non binari».
Ecco, per evitare l’effetto frullatore, e anche le reazioni scomposte di chi è ormai insofferente ad atleti che vogliono insegnare come si vive e sfruttano palcoscenici sportivi per perorare cause personali e politiche, bisognerebbe iniziare a distinguere. La questione dei diritti, magari di quali diritti anche, e quella della salute mentale, che andrebbe trattata in ben altro modo. Cercando di capire che la compassione non può diventare l’unico metro di descrizione e interpretazione di un mondo – pur se stanco, debole, vecchio, malato come il nostro – e che, a partire dai media, quello dei disturbi psichici non può essere un tema declinato con tanta superficialità, quasi per sentirci meglio e sembrare più buoni, nei soliti articoli esemplari a lieto fine.
Dopo lo scaricabarile seguito all'eliminazione mondiale, eccoci da punto e a capo: intrecci malsani tra sport e politica, giornalisti compiacenti e leggi ad personam.